Beni confiscati alle mafie, quando il tesoro dei boss diventa impresa sociale
 











"Riprendiamoci il maltolto": recitava così la campagna di Libera che nel 1996 portò, con oltre un milione di firme raccolte, all’approvazione della legge sull’uso sociale dei beni confiscati alle mafie. "Andate a cercare dove investono il denaro, confiscate i beni e restituiteli alla comunità mi disse più di trent’anni fa il generale Dalla Chiesa", ricorda don Luigi Ciotti. Secondo il Ministero dell’Interno, sono 10.769 (di cui 709 aziende) i beni sequestrati e 3.513 (161 aziende) quelli confiscati in solo un anno, dal 1 agosto 2013 al 31 luglio 2014. Questo "tesoretto" vale 7 miliardi di euro, cioè un quarto della prossima Finanziaria o quanto lo Stato spende per l’intero sistema universitario. Tra le prime sei regioni interessate, ci sono l’Emilia Romagna e la Lombardia, a conferma di come non sia un fenomeno solo meridionale. A Milano, le ultime inaugurazioni sono un centro diurno per giovani, in un un’ex tavola calda usata come base dellospaccio nel quartiere Stadera, e la "Casa della legalità" in via Curtatone.
La pizzeria nel covo del boss e l’uliveto intitolato a Rita Atria. Se ne è parlato ieri al convegno "Fare impresa sociale e buona economia con i beni confiscati alle mafie si può!", organizzato a Milano dall’Unicredit Foundation in collaborazione con Libera. Nell’ultimo anno e mezzo, la Fondazione bancaria ha stanziato 1 milione e 200mila euro per sostenere dieci progetti in varie regioni italiane. Gli ultimi sono per la pizzeria "Wall Street" di Lecco, sorta nel covo che il boss della ’ndrangheta Franco Coco Trovato usava per riciclare denaro sporco, gestire traffici di droga, ordinare agguati, e per la cooperativa "Rita Atria" di Trapani, che si è vista distruggere gli ulivi di un terreno che ha in gestione e che prima apparteneva ad un boss. Del resto, il solo nome dell’attività è una sfida alla mafia: Rita è la diciassettenne, figlia di un mafioso ucciso da una cosca rivale, che nel 1991 decise di nonlasciare che la verità "passeggiasse" per Partanna (Tp) senza che nessuno parlasse. Andò da Paolo Borsellino, a cui si legò come un padre, e raccontò tutto ciò che sapeva. Ma una settimana dopo che il giudice venne ucciso, si buttò dal settimo piano dell’appartamento di Roma dove viveva in segreto. Nessuno andò al funerale, la madre l’aveva ripudiata e andò al cimitero solo per distruggere la sua lapide a martellate.
Quando le mafie ti bruciano l’agrumeto. "L’uso sociale dei luoghi confiscati  -  spiega la vicepresidente del Senato Valeria Fedeli  -  è la miglior bandiera della legalità perché mostra che vincere le mafie è possibile". Secondo don Ciotti, "questi beni diventano un’occasione di rigenerazione quando fanno nascere speranza, dignità e lavoro, nel segno di un’economia che non dimentica il senso etico d’impresa per il bene comune". Non mancano le difficoltà, specie al Sud, dove gli appezzamenti agricoli si prestano bene alle rappresaglie delle cosche.Lo racconta Giuseppe Carrozza del consorzio Terre del sole, che a Placanica di Melito Porto Salvo, provincia di Reggio Calabria, gestisce un terreno confiscato con 2100 alberi di agrumi e di  bergamotto, alla base dell’industria profumiera. "Nel giugno 2013  -  spiega  -  un incendio doloso ha distrutto buona parte delle piante; sono seguiti danni e attentati alle condutture d’acqua, in una zona dove il controllo delle risorse idriche è decisivo". A Isola Capo Rizzuto, in un terreno del clan Arena passato in gestione a Libera, nessuno voleva trebbiare l’orzo, finché non intervenne la Forestale.
Fino a dieci anni per assegnare i beni confiscati. Tra i problemi, c’è anche la lentezza dello Stato. Occorrono in media cinque anni, a volte anche dieci, prima che il tesoro dei boss venga assegnato alle associazioni. In tutto questo tempo, i beni rischiano di rovinarsi e perdere valore. Molti puntano il dito contro l’Agenzia nazionale per i beni confiscati esequestrati, con sede principale a Reggio Calabria e altre a Roma e Milano. Quella lombarda, inaugurata tre anni fa come l’avamposto della lotta alle mafie al Nord, oggi conta sul lavoro di solo due funzionari, meno della metà rispetto al 2011. Secondo Roberto Maroni, che istituì l’Agenzia quando era al Viminale, "la sua funzione è indispensabile, ma certo occorre maggiore efficienza e personale più preparato". È d’accordo il ministro delle Politiche agricole Martina, anche lui intervenuto al convegno di ieri annunciando che gli alimenti delle terre confiscate saranno presenti nel Padiglione Italia dell’Expo.
1 italiano su 5 disposto ad andare in una pizzeria delle mafie se più conveniente. La lentezza delle assegnazioni è particolarmente grave nel caso delle aziende, che rischiano di finire fuori dal mercato e dover chiudere. "Vanno tutelati  -  spiega don Ciotti  -  anche i lavoratori che altrimenti, perso il posto di lavoro, penseranno con rimpianto allagestione mafiosa". Il presidente di Libera cita i dati di alcune ricerche: "Il 61% dei disoccupati è disposto ad accettare un posto di lavoro in un’attività dove la criminalità ha investito denaro, l’8% a commettere piccoli reati pur di avere un lavoro, mentre 1 italiano su 5 non ha problemi ad andare in un bar o pizzeria colluso con le mafie se i prezzi sono convenienti. Infine, nei primi mesi del 2014, il 53% degli studenti di 94 scuole superiori siciliane pensa che la mafia sia più forte dello Stato, solo l’11% il contrario e il 36% non esprime un’opinione". "Tutto ciò  -  conclude don Ciotti  -  dimostra come diritti e lavoro siano vie per combattere le mafie". Dovrebbe essere la funzione dello Stato, come chiedeva il generale Dalla Chiesa quando diceva: "Lo Stato dia come diritto ciò che la mafia dà come favore". Stefano Pasta,repubblica









   
 



 
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