Il lavoro di Renzi
 











La protesta dei sindacati, la Cgil in primo luogo, contro l’approvazione, alla vigilia di Natale, del cosiddetto Jobs Act, fa parte delle regole del gioco, ma non promette di avere conseguenze pratiche. Il governo e la maggioranza risicata che lo sostiene sono intenzionati ad andare avanti in ogni caso con il resto del programma annunciato da tempo. Una maggioranza risicata perché è più numerica che politica. Molti, troppi per Renzi, sono gli avversari interni nel PD che non vogliono rompere la tradizionale cinghia di trasmissione con la Cgil. Ma non hanno le palle per uscire allo scoperto e non vogliono correre il rischio di essere cancellati brutalmente dalle liste per le prossime elezioni politiche. La poltrona, si sa, con tutte le sue prebende, ha sempre i suoi vantaggi. Altro fatto da tenere presente è che quanti nel PD ancora strillano per questa deriva ultra-liberista dell’ex PCI, poi PDS, poi DS ed infine il nome attuale, sono quelli che nonvogliono ammettere che questa deriva è una diretta emanazione, l’inevitabile conseguenza, della svolta che il PCI ebbe al congresso della Bolognina del 12 novembre 1989 con la trasformazione dell’identità del partito da comunista a socialdemocratico. Una svolta inevitabile dopo il crollo del Muro di Berlino, la fine dei finanziamenti di Mosca e l’annunciato crollo e dissolvimento dell’Urss. Il fatto poi che un cattolico di sinistra (?) come Renzi, un ex democristiano insomma, abbia potuto prendere in mano, senza colpo ferire, il partito che fu di Bordiga, Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer e Occhetto, dimostra che i militanti, i quadri e i dirigenti del PD non hanno più niente a che fare con i miti della sinistra classica e di classe. Sono giovani e soprattutto non hanno fatto la Resistenza e non vogliono trasformare la realtà sociale ma convivervi. Tanto è vero che non hanno battuto ciglio nel trasbordare, armi e bagagli, dal carro di Bersani a quello di Renzi. Il trasformismo èuna realtà costante della politica italiana e i piddini non fanno eccezione, tanto da non avere incontrato problemi nel sostenere una svolta che è stata condannata dal sindacato ed apprezzata, sia pure con riserva, dal mondo delle imprese che aspettano di vedere i risultati che non arriveranno di sicuro se le stesse non investiranno soldi propri e delle banche (che non li vogliono prestare) nell’innovazione tecnologica e produttiva. Il bambinello giuridico non è arrivato quindi a celebrare la nascita del sole che dovrà illuminare il mercato del lavoro, favorire assunzioni e licenziamenti e gettare le premesse di una ripresa economica, ma intende provarci. Che esso ci riesca è però tutto da vedere. Per non aprire troppi fronti di scontro, il governo non ha esteso il Jobs Act (ma perché non dargli un nome italiano?) al pubblico impiego. Giusto per tenersi buoni i rapporti con un sindacato come la Cisl, il primo fra gli statali, che ha già dimostrato tutta la propria buona volontà inpassato accettando e sottoscrivendo le svolte liberiste nel campo del mercato (?) del lavoro impostate da Berlusconi, Monti e Letta. Per non parlare degli accordi capestro (per gli operai) imposti dalla Fiat e sdegnosamente rigettati dalla sola Fiom-Cgil. Come regalo di Natale lo Jobs Act resta piuttosto indigesto e per attuarlo, in sostanza per finanziarlo, resta il nodo delle risorse pubbliche disponibili, sulle quali Renzi e il fido Padoan dovranno effettuare i soliti e necessari giochetti contabili. Quelli che da Tremonti venivano indicati come “finanza creativa”. Giuliano Augusto-rinascita

 

 

 

 

 









   
 



 
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