Aldo Ciccolini, il triste tramonto di un’epoca
 











È con ogni probabilità il nostro accanito istinto di sopravvivenza che ci fa carezzare tanto amorevolmente la bizzarra idea di una immobilità delle cose, che ci vuole tante volte così perplessi, timorosi e restii nei confronti dei cambiamenti, che ci genera quella malinconia così profondamente dolorosa nei confronti delle perdite e che ci rende così traumatizzante ed ingiustificatamente sorprendente l’osservazione che, di tutti gli uomini oggi viventi, tra soli cento anni, o poco più, non ne resterà vivo uno solo, l’umanità sarà completamente rinnovata.
 Il 1 febbraio scorso è morto Aldo Ciccolini, pianista di altissimo rango.
Nacque a Napoli, il 15 agosto 1925. A soli nove anni era già allievo di composizione, presso il conservatorio “San Pietro a Majella”, di Achille Longo (figlio dell’illustre Alessandro Longo), insegnante che delle attitudini alla composizione del futuro grande pianista nutriva altissima considerazione. Per ilpianoforte si formò sotto la guida di Paolo Denza, compositore, nonché concertista allievo ed amico di Ferruccio Busoni. A soli sedici anni debuttava al teatro San Carlo, ventiquattrenne vinceva il Concorso Internazionale “Marguerite Long-Jacques Thibaud”, in Francia, dove si trasferirà fino ad acquisirne la nazionalità. Da allora una carriera svolta nei maggiori teatri del mondo, come solista ed in collaborazione con direttori d’orchestra ed altri musicisti eccellentissimi. Infiniti concerti, oltre cento incisioni discografiche, molti prestigiosi riconoscimenti. Un repertorio immenso e sconfinato che non disdegnerà pagine rare ed autori meno noti, un’attività lunga oltre settant’anni, sempre ai massimi livelli, che non si priverà neanche dell’impegno didattico.
Era stato vittima di una scorrettezza, da giovane, nel conservatorio della sua città, dove si era visto scavalcare, nel conseguimento di una cattedra, da un altro candidato con meno titoli; in Francia, invece, fu l’alloraministro della cultura in persona che, negli anni Settanta, insistette e si attivò per il suo insegnamento al conservatorio parigino.
Ma era un conservatorio, quello della Napoli della sua giovinezza, diretto da Francesco Cilea, in una città che vedeva, e vedrà a breve, circolare per le sue strade musicisti, didatti ed allievi del calibro di Alberto Curci, Emilia Gubitosi, Franco Michele Napolitano, Paolo Denza, Vincenzo Vitale, Achille ed Alessandro Longo, Paolo Spagnolo, Sergio Fiorentino, Salvatore Accardo, Riccardo Muti, Roberto De Simone a tanti altri pur meno noti. Da allora, nell’esiguo spazio di poche lustri, la situazione italiana, e particolarmente partenopea, avrebbe avuto trasformazioni ben poco lusinghiere, la prestigiosa Sala Scarlatti del conservatorio “San Pietro a Majella”incendiatasi, poi malamente ricostruita, la scomparsa di qualsiasi scuola didattica significativa, una inclinazione istituzionale alla formazione dei musicisti sempre più generica e menoapprofondita, l’estinzione dei concerti dell’Orchestra “Alessandro Scarlatti” nelle sede della Rai e nel bosco di Capodimonte. Tutte trasformazioni da autorizzare Aldo Ciccolini, in un’intervista, a definire l’Italia «un ambiente che ormai è in declino» dove «la musica, che ritengo sia un insieme di progresso, civiltà e spiritualità, viene considerata un hobby non una professione».
Con gli ultimi giorni dell’eccellente artista napoletano volge al tramonto vieppiù un’epoca musicale nazionale, e particolarmente partenopea, ancora artisticamente assai vivace ed altamente significativa per il mondo intero, retaggio di una tradizione compositiva, esecutiva e didattica secolare ed incontestabilmente massima. Oggi, al chiudersi delle palpebre del grande maestro, si infittiscono sempre più impietose tenebre sulla più nobile arte dei suoni nostrana. Rosario Ruggiero









   
 



 
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