KHMER ALLA SBARRA
 







di PIiergiorgio Pescali




Duch è seduto tranquillo di fronte ai giudici internazionali. È lui il primo dei dirigenti superstiti di Kampuchea Democratica a dover sostenere il processo contro i crimini commessi durante il periodo in cui i Khmer Rossi erano al potere. Dopo di lui compariranno Ieng Thirith, Nuon Chea, Ieng Sary e Khieu Samphan. Nell’aula aleggia continuamente la impalpabile presenza di Pol Pot, Fratello Numero Uno, il leader del movimento che oggi tutti vogliono alla gogna, ma che tutti, direttamente o indirettamente, hanno aiutato a nascere, crescere e trionfare.
È sulla sua memoria che si scaricano tutte le responsabilità. Duch, l’ex maestro di matematica divenuto direttore del carcere S-21, dove venivano imprigionati e uccisi tutti gli oppositori interni al regime, si difende dicendo che ha agito secondo gli ordini ricevuti. Ieng Sary, ex ministro degli esteri e ex cognato di Pol Pot, si discolpa affermando che la sua dissociazione dal gruppo dirigenteavvenuta all’inizio degli anni Novanta, ha contribuito a disintegrare le ultime membra di un movimento già moribondo. Khieu Samphan, la faccia buona e onesta del regime, ancora rispettato da molti cambogiani, denuncia la sua estraneità agli eccidi, dicendo di aver occupato ruoli marginali. E infine, anche Nuon Chea, Fratello Numero Due e intimo amico di Pol Pot, accusa il suo ex dirigente supremo dicendo che non ha mai voluto ascoltare i suoi consigli di moderazione.
Una morte propizia
Insomma, la morte di Pol Pot, avvenuta nel 1998, risulta ora più propizia che mai. E non solo per gli accusati oggi portati di fronte alla Corte Internazionale. Nella regione di Anlong Veng, ultimo quartier generale dei Khmer Rossi, si respira un chiaro senso di nostalgia verso il regime passato. «Il governo di Phnom Penh ci ha tolto tutto quello che i Khmer Rossi ci avevano dato: scuole, ospedali, riso. Come possiamo dirci felici di essere tornati sotto Phnom Penh?» si chiedono i contadini diPhumi Roessei, riuniti durante un sopralluogo della Croce Rossa Internazionale. Qui, come in molti altri distretti del nordovest cambogiano, il governo ha volutamente escluso la popolazione dal flusso degli aiuti internazionali punendola per la sua fedeltà al movimento rivoluzionario.
La liberazione, tanto propagandata dal governo cambogiano, si è trasformata in un incubo per molti contadini. Uno smacco per Hun Sen, l’attuale primo ministro che ha sempre demonizzato la dirigenza comunista e che il processo l’ha sempre osteggiato. Il potere, per lui, è sempre stato il principale obiettivo sin da quando, alla fine del 1978, disertò le file dei Khmer Rossi di cui era quadro, per affiancarsi ai vietnamiti durante l’invasione avvenuta nelle settimane seguenti. Da allora, e parliamo di ben 30 anni, questo caparbio politico cambogiano è sempre stato al vertice del governo, trasformando l’intera nazione in un feudo personale. Un processo equo non farebbe piacere a nessuno: sarebbero introppi a dover dare spiegazioni sui loro comportamenti prima, durante e dopo l’avvento dei Khmer Rossi al potere. L’Occidente e le stesse Nazioni Unite dovrebbero spiegare gli aiuti diplomatici, finanziari e militari dati ai Khmer Rossi dopo il 1979; Sihanouk dovrebbe convincere un’eventuale giuria obiettiva delle sue acrobatiche manovre politiche per restare aggrappato al trono regale, Hun Sen di come abbia aiutato Pol Pot a conquistare il potere per trasformarsi successivamente nel suo più violento accusatore.
La scuola, inoltre, non è ancora pronta ad affrontare seriamente il periodo di Kampuchea Democratica. Trent’anni, se possono sembrare tanti per la nostra percezione del tempo immediato, sono invece un’inezia per la Storia e per poter confrontarsi con essa con obiettività.
Disinteresse generale
La Cambogia post Khmer Rossi è corrotta nel suo interno, nell’animo e le speranze di ricostruire un Paese nuovo, libero e moralmente virtuoso, si sono infrante di fronte agliscogli del potere. Un potere impersonificato in primo luogo dai politici: oltre dal padre-padrone della nazione, il Primo Ministro Hun Sen, anche dall’inconcludente Sam Rainsy per terminare con l’inaffidabile Norodom Ranariddh, figlio dell’ex re Norodom Sihanouk che dal padre ha ereditato l’instabilità mentale e la follia, ma non il carisma.
Non sorprende, quindi, il disinteresse con cui i cambogiani stanno seguendo le fasi del processo; disinteresse che dimostra quanta sfiducia vi sia nella nuova classe dirigente. In un Paese dove il potere giudiziario è diretta emanazione di quello politico e dove le associazioni preposte al rispetto dei diritti umani sono bandite o, nel migliore dei casi, mal tollerate, nessuno si aspetta chiarezza. Persino Mea Sitha Sar, figlia di Pol Pot, oggi studentessa nell’università Pannasastra di Phnom Penh, in una intervista esclusiva dice di non essere assolutamente interessata al processo: «Non mi intendo di politica; sono nata nel 1985, quando tuttociò che viene imputato ai Khmer Rossi era già successo. Io posso solo dire ciò che sento dalla gente che ha conosciuto mio padre: che è stato un ottimo leader. I cambogiani che oggi vivono nelle province un tempo controllate dai Khmer Rossi, si lamentano del calo del livello di vita subito dopo che mio padre è morto».
E Nuon Chea, in un’intervista rilasciata prima del suo arresto, denuncia che «si cercano dei capri espiatori per ripulire le coscienze. Se non ci fossero stati i Khmer Rossi, oggi la Cambogia sarebbe territorio vietnamita. Quando il Vietnam ha invaso la Cambogia, l’Onu, gli Stati uniti e i governi occidentali hanno condannato l’aggressione garantendoci protezione e aiuti. Se siamo colpevoli anche chi ci ha aiutato deve essere condannato». de Il Manifesto









   
 



 
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