Grand hotel dei defunti
La morte tira sempre il mercato
 







di Luca Tancredi Barone




Da fuori l’edificio ha l’aspetto di un grande parallelepipedo bianco, su tre piani (più due piani sotterranei per il parcheggio, 250 posti), grandi finestre lungo tutte le pareti, due terrazze coperte, una vista mozzafiato su Barcellona che arriva fino al mare e abbraccia tutte le imponenti colline della città. Una volta entrati, sembra di stare in una hall di un qualsiasi hotel di media categoria. Ha persino una reception, questo posto, con tanto di ragazze impeccabili in divisa dietro il bancone.
Ma di solito quelli che oltrepassano la grande porta a vetri automatica non notano la cortesia del personale che li accoglie. Loro cercano subito con lo sguardo i monitor in fondo. Implacabili, scorrono dei nomi: Ricard Rodríguez i Valentí, Sala N° 7. Ceremonia: a les 11.00; María Delgado Fernández, Sala N° 13 Ceremonia: a les 14.00.
Già, perché questo stabile, arioso e pieno di luce, è quello che qui chiamano un tanatorio, un luogo dedicato -come il nome, ma non l’aspetto, suggerisce - alla morte. Dove l’ordine, la pulizia, le pareti bianche e dritte sterilizzano ogni dolore. Niente candele, niente lumini, niente ostentazione di sofferenza. Solo il libro bianco aperto nelle apposite nicchie tradisce il motivo per cui tanta gente si accalca davanti alla porta di quelle stanzette perfettamente organizzate. Guardando le facce delle persone si potrebbe quasi pensare a un luogo di ritrovo abituale, a un’occasione di incontro quasi mondano.
Nel Tanatori Ronda del Dalt (uno dei cinque della città, quattro sono pubblici) le camere ardenti (qui chiamate "sale") sono venti, distribuite su una superficie di sedicimila metri quadrati. Ciascuna di esse ha un’anticamera, dotata di comode poltrone, fazzolettini di carta, un bagno e un guardaroba, il tutto arredato con discreta essenzialità. Vuote danno quello stesso vago senso di nausea delle anonime sale d’attesa degli aeroporti.
Il Tanatorio del Dalt fa parte della rete dei novetanatori dei Serveis Funeraris Integrals, l’associazione delle cinque più importanti famiglie catalane che gestiscono i servizi funerari da 300 anni, come dicono con orgoglio nel loro sobrio volantino bordato di blu. Il becchino capo di questa efficiente sala congressi della morte si presenta bionda e in elegante tailleur: Patrícia Gullí, 27 anni, da tre anni, cioè dall’inaugurazione, supervisora di questo complesso.
«Io lo trovo un bel lavoro. Lo dico sul serio», dice. Forse prima faceva un lavoro terribile. «Veramente lavoravo nella produzione cinematografica», ci spiazza. «Ci creda. È che questo lavoro è più autentico, il mondo dello spettacolo è molto superficiale. E poi guardi, so che sembra paradossale. Ma lavorare qui ti va vedere la vita con occhio diverso. Quando vedi le disgrazie degli altri ogni giorno, il dolore delle famiglie, impari ad apprezzare di più quello che hai».
Già, il dolore. Che fine ha fatto il dolore in questo posto ovattato? «Il dolore è dentro di te.Non c’è bisogno di opprimere le famiglie con un ambiente lugubre e triste. Qui c’è luce, c’è una bella terrazza, c’è persino un bar. Non vogliamo aggiungere sofferenza a sofferenza». Magari è che qui almeno gli errori sul lavoro si possono prendere con filosofia. Tanto il peggio, verrebbe da dire, è già successo. «Non creda, sa. Un errore qui non è come in un altro lavoro. Si ha a che fare con situazioni delicate, con persone che soffrono e che vivono un grande stress emotivo. Non bisogna mai dimenticare il tatto. Gli errori in questi frangenti possono essere imbarazzanti, e molto dolorosi».
Un tanatorio è l’altra faccia dell’ospedale. La morte non chiude mai. «La notte chiudiamo al pubblico», dice Patricia, «ma ci possono chiamare a tutte le ore. Andiamo a casa delle persone, o nel luogo del decesso, ci facciamo carico di tutta la burocrazia. Preleviamo il cadavere, lo portiamo qui».
Poi possono succedere cose diverse. Innanzitutto il defunto viene "preparato". «Abbiamoun’equipe che si occupa di tutte le cose meno gradevoli. Si chiama tanatopraxia, vuol dire fare tutte quelle cose che la famiglia non vede, come tappare i buchi o estrarre i liquidi. E poi lo sottoponiamo a tanatoestetica, quei processi di maquillage per rendere più presentabile un cadavere. Poi lo vestiamo, o prepariamo noi stessi un lenzuolo speciale per avvolgerlo in una specie di tunica bianca». I tempi necessari possono essere diversi. «Ovviamente per una vittima di un incidente stradale in cattive condizioni ci vogliono molte ore, per una persona morta serenamente in casa magari tre quarti d’ora». A questo punto si aprono diverse possibilità. «La maggior parte delle famiglie decide di esporre il cadavere, altre decidono di passare direttamente alla cerimonia, che possono tenere qui in uno degli oratori. Altre infine ci chiedono di organizzare il trasporto verso un altro comune o un altro stato».
E così dentro il tanatorio c’è anche posto per due auditorium da 300-400 posti.Non una cappella. Qui siamo in Catalogna, terra di anarchici, socialisti e senza dio, ma anche calamita di immigrazione da tutto il mondo. L’auditorium è pensato per tutti: quando si vuole il funerale religioso, si spostano due pannelli, ed ecco altare e tabernacolo. Vuoi la cerimonia atea? Via tutto, un sobrio palchetto. In un fiat, con tipico pragmatismo catalano, è risolto il problema per noi insormontabile di dove ricordare un defunto senza passare da preti e sagrestie. Con la possibilità di scegliere la musica («anche un semplice cd con la canzone preferita») e un monitor per i video. E chi celebra? Niente paura, qui è tutto previsto. Se non si vuole il fai da te, si chiama un oratore, uno che di mestiere va a parlare con molta delicatezza con la famiglia e con gli amici e si fa raccontare la vita della persona amata. «Guardi che sono molto bravi, è una tradizione molto antica» - ci assicura Patricia. «è capitato anche a me, con un caro amico: la persona che ha parlato di lui hafatto un bellissimo discorso». E che succede quando per esempio arriva un musulmano? «Beh, la situazione è più complessa. Per esempio non può essere toccato liberamente da un cristiano, e dobbiamo far intervenire un iman durante il processo di imbalsamazione. Oppure se è una donna può essere toccata solo da donne. Ma siamo preparati a gestire queste situazioni».
Anche le camere ardenti, le "sale", sono sofisticate. In spagnolo vegliare un morto si dice velar, dalla parola vela (candela). Anche se di candele in questo nonluogo per eccellenza non c’è traccia. In compenso, ci sono due tipi di sale. «Noi catalani ci distinguiamo sempre», scherza Patricia. «Per noi è importante stare vicino al nostro caro». "Vicino", forse, è una parola grossa per noi che il cadavere siamo abituati a toccarlo. Le sale catalane hanno al centro un tumulo, un piano rialzato. Sotto una teca di vetro, climatizzata, c’è il cadavere. Che ovviamente viene fatto passare da un passaggio nascosto alla vista, comequi accade per qualsiasi cosa che possa richiamare il lutto.
Le sale castigliane, invece, tengono il defunto più a distanza («gli altri spagnoli non concepiscono tutta questa promiscuità con la morte», dice ancora Patricia). Sono delle vere e proprie vetrine, dietro a cui il feretro è disposto leggermente inclinato in maniera da dare la faccia al visitatore. Straniamento, questa la parola che viene alla mente guardando queste vetrine vuote.
La percezione dell’impresa fiorente (il costo medio per un funerale semplice si aggira attorno ai 2000 euro) viene confermata dal numero di persone che lavorano qui. Forse con qualche fiore in meno (lo stand dell’elegante fioraio è giusto dopo la reception), o in una bara meno lussuosa (l’officina che le prepara è al secondo piano): ma la "materia prima" di questo business non verrà mai toccata dalla crisi. «Anche a noi succede quello che succede ai medici o chi lavora faccia a faccia con la morte: sdrammatizziamo. Ai miei amici cheall’inizio mi prendevano in giro per questo lavoro rispondevo: Mira, hoy me lo he pasado de muerte’ (guarda, oggi è stata una giornata fantastica, ndr)".de Liberazione









   
 



 
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