Quell’uomo "mal-famato" che è il nostro capo di governo ha creduto di rifarsi una verginità offrendo perline colorate ai Grandi della terra che ha avuto come ospiti per qualche giorno nella martoriata terra d’Abruzzo. Può darsi che questa performance gli faccia guadagnare qualche punto in patria. Ben difficilmente nella credibilità internazionale, abituata malgrado tutto ad altri parametri. Berlusconi, è certo, entra in felice risonanza con quel capitalismo che si ammanta di retorica e buoni proponimenti ma nella sostanza è sempre più distruttivo di natura, cultura, umanità. Un "capitalismo da schock", come lo chiama giustamente Naomi Klein, che trae i suoi affari dalla "redditivizzazione della catastrofe", sia che questa provenga dalla lunga scia di sangue delle guerre umanitarie, sia che provenga dalle crisi climatiche e ambientali. A conferma basta rileggere la odierna Dichiarazione documento finale dei G8 allargato a Cina, India, Brasile,Messico e Sudafrica dedicato all’energia e ai cambiamenti climatici. Dopo un omaggio "in segno di solidarietà nei confronti di tutti coloro che nel mondo sono stati vittime di disastri naturali", il Documento lancia una sorta di "santa alleanza" fra le principali economie del mondo con l’obiettivo di accelerare la ripresa economica e, soprattutto, di individuare "nuove occasioni di crescita e di sviluppo". Al centro, il mercato dell’aria e la filosofia mercantile del Protocollo di Kyoto, quell’accordo internazionale che - è bene ricordarlo a quanti si lasciano abbagliare dalla retorica di certa "ecologia di superficie" - costituisce una delle forme più avanzate e raffinate di colonialismo: anzi di ecocolonialismo. Esso, infatti, consente ai paesi più ricchi del mondo , che poi sono anche i più inquinatori, di monetizzare il proprio tasso di inquinamento acquistando dai Paesi più poveri e meno inquinati le quote di emissioni non utilizzate, oppure di scambiarle con sistemi ad altaefficienza energetica o con progetti di aggiustamento ambientale. Una possibilità, quest’ultima, che ha fatto fiorire una vera e propria industria dell’"adattamento", parola che ricorre in tutta la Dichiarazione e che motiva l’istituzione di un Fondo Verde per il finanziamento ai cambiamenti climatici. Sostituendosi alla priorità della mitigazione che veniva richiamata in passati documenti internazionali e che rimanda al tentativo di eliminare a monte la produzione dei gas serra, l’adattamento rimanda invece ad un adeguamento a valle degli impatti climatici con la conseguente predisposizioni di piani, programmi, misure finanziarie di sostegno: ciò che ne fa "una opportunità economica strutturale", ovvero un grimaldello delle Imprese per rilanciarsi tramite eventi calamitosi . La filosofia del Protocollo di Kyoto si è inceppata quando anche i cosiddetti Paesi emergenti o a sviluppo veloce hanno rivendicato di fronte al consesso internazionale il loro "giusto" diritto di inquinare.Perciò, anche in vista della prossima Conferenza di Copenaghen, il senso di questo G8 era quello di convincere, includendole nella partita globale di affari, anche le grandi "potenze carboniche" come l’ India e la Cina (che è diventata il maggior emettitore di CO2 del mondo). Ma queste, come è noto, hanno detto di no. Evidentemente non erano sicure di poter partecipare ad alcuno dei grandi filoni previsti dell’ecobusiness: né a quello degli aggiustamenti , né a quello delle tecnologie e della ricerca, né a quello delle "partenerships", alleanze "etiche" fra Stati e Imprese che avranno il compito della "leadership" globale, come si legge in un altro documento della Dichiarazione finale vistosamente etnocentrico ("Leadership responsabile per un futuro sostenibile") e che affideranno direttamente alle imprese dei Paesi sviluppati tutti i piani di sviluppo o di ripristino ambientale e sociale, riservando agli Stati il ruolo di semplici committenti. Una strategia che, paradossalmente, hatrovato consensi in alcuni Stati africani presenti, soprattutto Egitto, Libia e Sudafrica, i più vicini ai favori della Banca Mondiale, ma che, per i popoli, si prefigura come una nuova e più feroce forma di colonialismo - anzi di ecocolonialismo - in quanto espone l’’Africa non solo al progressivo esproprio dei beni tradizionali (terra, acqua, paesaggi, uranio, biodiversità, ecc.). L’esportazione di tecnologia industriale e di Know How, anche se ecologicamente compatibile, taglia le forme autoctone di conoscenza, i saperi tradizionali, le identità, riducendo la logica e l’esperienza ad un modello unico, occidentale. Ma, del resto, ormai si sa, l’Africa è solo un fantasma: è una rappresentazione, una foto, l’icona triste di quella ultima e micidiale forma di violenza che è la "violenza della Kodak" come la chiamava Claude Levi-Strauss, la violenza di chi guarda solo con gli occhi espropriatori dell’Occidente e costringe chi è guardato a mettersi in posa "povera vittima presa allaccio…davanti ad un pubblico avido …che sazia con la sua ombra il cannibalismo di una storia da cui è già stato sopraffatto".
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