-Scambio ospitalità a Gaza-
 







di Riccardo Valsecchi




Che si sia ricchi vacanzieri, spensierati avventurieri o folli esploratori, tre sono gli accorgimenti di base di ogni viaggiatore: documentazione in regola, un luogo sicuro dove dormire e lasciare i bagagli, un contatto sul posto che aiuti a orientarsi. Lo sa bene Omar Mohammed, 23 anni, che mi avverte, entusiasta per la mia visita prossima nella sua città, «non dimenticare il passaporto» sventolando il suo documento d’identificazione color verde in videocamera su skype.
Omar Mohammed è un couchsurfer, dall’omonimo network, couchsurfing.com, che collega 1,3 milioni di viaggiatori provenienti da 231 paesi in cerca di ospitalità gratuita nelle più sperdute aree del globo. Un concetto molto semplice: oggi tu ospiti me e quando ne avrai bisogno, io ospiterò te. Rispetto ai network finalizzati alla costruzione di una realtà virtuale, è uno strumento contro-tendenza, che utilizza il web con il fine di ricongiungere e riaggregare l’uomo all’uomo,l’esperienza concreta alla realtà del vissuto quotidiano: «Con couchsurfing,» racconta Zolthan, mio ospitante a Gerusalemme, «ho viaggiato ovunque: dalla Cina alla Colombia, dagli Stati Uniti all’Australia, ogni giorno un posto diverso, un amico in più e un arricchimento che nessuna Wikipedia potrà mai dare».
Benché a poco più di un’ora di distanza in macchina, rispetto a Zolthan, Omar è un couchsurfer particolare. Vive in un lembo di terra lungo 45 e largo 6 km, dove è difficilissimo entrare, praticamente impossibile uscire: la Striscia di Gaza. Isolata lungo tutto il perimetro di confine da una barriera di separazione in filo spinato, con pali, sensori, muri d’acciaio e calcestruzzo, sorvegliata ventiquattr’ore su ventiquattro dall’esercito israeliano, l’area è accessibile solo in due punti: dall’Egitto, tramite il valico di Rafah, che però è ormai quasi sempre chiuso, o tramite il checkpoint di Erez, in territorio israeliano, a pochi chilometri dalla città di Ashkelon, da dovel’ingresso è concesso solo a pochi giornalisti accreditati e a carghi che trasportano beni umanitari.
Omar è diplomato in infermieristica all’Università di Gaza e collabora come volontario presso alcune ong - organizzazioni non governative - che operano sul territorio, la Gaza Community Mental Health Programme e la Union of Health Work Committes. Le ong sono ormai l’unica fonte di sopravvivenza per il milione e mezzo di persone che popola la Striscia di Gaza. «Medicinali e beni di prima necessità scarseggiano e la maggior parte delle attività produttive o commerciali sono ferme per via delle restrizioni imposte dall’esercito israeliano,» spiega John Ging, direttore delle Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione (Unrwa) a Gaza:«Moltissimi edifici poi portano ancora ben visibili i segni del conflitto del gennaio scorso, ma qualsiasi lavoro di ristrutturazione, riparazione o ricostruzione è impossibile, dato che l’Idf - Israel Defense Forces - non consente l’entratadi materiale edile».
Se nell’immaginario occidentale la Striscia di Gaza è forse l’ombelico del terrorismo di matrice islamica nel mondo, per Omar è semplicemente la terra dove è nato, il luogo che vorrebbe condividere con i viaggiatori di tutto il mondo e da lì forse un giorno partire per poter assaporare il brivido delle avventure che gli amici di Couchsurfing raccontano sulla propria bacheca informatica alla fine di ogni impresa: ma che cosa può far rabbrividire ancora un ragazzo cresciuto a suon di razzi katyusha, bombe antisommossa e fitte raffiche di proiettili che schizzano ovunque ad altezza uomo?
«Ho sentito parlare per la prima volta di couchsurfing dagli amici europei giunti con i primi aiuti umanitari dopo la crisi di gennaio. Alcuni di loro dormivano a casa mia, una delle poche rimaste illese nei bombardamenti e, ironizzando sulla mia disponibilità, mi dicevano: "Perché non t’iscrivi anche tu? Puoi conoscere un sacco di gente da tutto il mondo"», ricorda Omar.«All’inizio pensavo che fosse una sorta di Facebook: contatti gli amici, scrivi qualche messaggio sul "muro", commenti i post degli altri... Poi però mi sono accorto che grazie a questo portale, le persone s’incontravano veramente, andavano l’una a casa dell’altra, visitando paesi e luoghi che io conoscevo solo per sentito dire».
«Viaggiare è sempre stato il mio sogno: studiare, visitare l’Europa, gli Stati Uniti. La mia domanda di un visto per l’estero è già stata inoltrata da tempo, ma ancora non ho ricevuto risposta». Omar non demorde, continua a sperare ma sa che le frontiere sono controllate dall’autorità israeliana, certo non propensa a lasciar uscire un potenziale portavoce della miseria, della distruzione, delle tristi condizioni cui obbliga la popolazione di Gaza: «Non importa: se io non posso andare da nessuna parte, nulla mi vieta d’invitare gli amici a casa mia. È diventata la mia missione. Non si può capire quello che succede qua, se non si vive in prima persona, ancheper un breve periodo, per una sola notte ed è per questo che tutti i giorni cerco contatti, nuovi amici, travellers da convincere a viaggiare verso questi luoghi:"Venite a Gaza, la città di Sansone," è il motto. E non immagini quanti mi abbiamo risposto, ma, come ben sai, nessuno è riuscito ancora a entrare».
Ma che cosa può offrire Gaza a un couchsurfer? «Sessant’anni di guerra hanno distrutto ogni traccia della nostra storia: niente rimane del tempio in cui fu incatenato Sansone, delle mura costruite da Riccardo Cuor di Leone, della cittadella ottomana, della roccaforte napoleonica. Però c’è il mare, da dove si può ammirare la flotta israeliana che controlla le coste, il porto ormai in disuso, dato che i pescherecci sono costretti a navigare in zone poco proficue e sempre più spesso vengono attaccati dalle motovedette dell’Idf, poi il Barcelona Park, nel quartiere di Talet El Hawa, donato dall’amministrazione della città catalana e completamente distrutto durante le incursioninel gennaio di quest’anno. Inoltre, da non perdere, una visita nel posto dove lavoro, nel quartiere dove vivo, il Jabalia Camp, 110 mila rifugiati ammassati in 1,5 kmq, oltre agli altri sette campi profughi - per un totale di quasi 500 mila ospiti -: una possibilità unica per conoscere la nostra sofferenza, scalfita tra le rughe, le ferite, le storpiature, le menomazioni della nostra gente, dei nostri ragazzi, dei nostri bambini, le vere vittime di un conflitto che non sembra mai avere fine».
«Certo,» reagisce Zolthan, maglietta del Che Guevara indosso, mentre legge l’ultimo messaggio lasciato sulla mia "Couchsurfer bacheca" da Omar, «quello che Israele, il mio paese, sta facendo a Gaza è orribile: ma chiedigli perché non smettono di sparare missili diretti verso le nostre città, di catturare e sequestrare i nostri militari al confine, di appoggiare gli estremisti che predicano la distruzione dello Stato d’Israele? E chiedigli un po’ degli attentati suicidi? Sai quanti amici hoperso per colpa di un palestinese che si è fatto scoppiare nel bar qui accanto?»
Il mio messaggio successivo suona un po’ perplesso: Omar, sei sicuro non ci siano problemi per un visitatore straniero?
«Anche tu pensi che siamo tutti quanti terroristi con il mitra in spalla, pronti a uccidere chiunque non sia musulmano? "Come on," Gaza non è pericolosa, anzi. È una città povera, che soffre da infinito tempo i mali della guerra, ma che proprio per questo è umile, entusiasta e con la voglia di ricominciare a vivere, a ricostruire ancora una volta tutto da capo. Siamo esseri umani, amiamo la vita quanto voi e siamo stanchi della distruzione e della povertà che questo conflitto ci ha causato. Come potete giudicarci senza mai essere stati qui?»
E se un giorno un couchsurfer israeliano volesse essere ospitato da te? «Perché fai questa domanda? Non sono forse esseri umani anche loro? Certo, avrei qualche difficoltà se venisse in casa mia ad accusarmi di appartenere ad Al Qaeda o divoler sterminare tutti gli ebrei, ma questo perché contraddirebbe la prima regola del couchsurfer, il rispetto dell’ospitalità: vale per loro, quanto per te, come per tutti gli altri. Anzi, sai che cosa ti dico? Se ci fosse veramente l’opportunità di ospitare anche solo un israeliano, possibilmente non armato fino ai denti e vestito da militare, se esistesse la speranza di mostrare a lui, al suo popolo, ai nostri vicini, la miseria in cui viviamo, non credi che forse qualche cosa cambierebbe?»
Il mio contatto con Omar finisce a Erez, l’ultimo avamposto israeliano prima della giurisdizione palestinese di Gaza: il gate è chiuso, l’accesso è concesso solo a pochi giornalisti, mentre io, una giornalista norvegese e un operatore sanitario, veniamo cacciati indietro. Apprendo nel pomeriggio che dall’altra parte della barriera la situazione è bollente: due miliziani d’Hamas sono stati uccisi durante un raid aereo israeliano. Omar mi aspetta a 10 km di distanza e non posso far altro cheinviargli un messaggio per avvertire che il nostro incontro deve essere rimandato. La sua risposta non si fa attendere: «Caro amico, ti prego di provare, insistere e riprovare ancora a valicare il confine che ci divide; ho bisogno di vederti, di conoscerti e di mostrarti come viviamo qui. Ho bisogno di sapere che esiste veramente un mondo aldilà di quella barriera che circonda la terra dove sono nato».









   
 



 
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