Il futuro non c’è più
 







Tonino Bucci




L’anno è finito e quello nuovo volge alle porte. Il rituale si ripete come da copione. Dalle pagine dei giornali gli opinionisti si affretteranno a tracciare il bilancio dei trecentosessantacinque giorni trascorsi. La crisi (ma solo per precisare che il peggio, ormai, è alle spalle, alla faccia dei pessimisti). Gli operai che son saliti sui tetti e le gru (ricordarsene sotto Natale acquieta le coscienze liberalprogressiste). La guerriglia tra i Berlusconi e i Fini, i Di Pietro e i Bersani, e il clima d’odio che arroventa un’Italia sotto la coltre del gelo invernale (identico, checché se ne dica, a quello di tutti gli anni passati). Sugli schermi televisivi non mancherà il sociologo di turno o il direttore del maggior quotidiano, invitati per informare il pubblico sulle prospettive del nuovo anno. E se gli auspici sono quelli buoni si materializzerà in prima serata tv persino l’astrologo, interpellato sulle congiunture astrali del 2010.
Se solo siavesse il sarcasmo di un Leopardi ci sarebbe di che riscrivere il famoso Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere , pezzo celebre delle Operette morali . Due personaggi, di cui il primo cerca di vendere il calendario dell’anno nuovo a un potenziale acquirente - «Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi»? - mentre il secondo risponde a sua volta con una serie di controdomande «Credete che sarà felice quest’anno nuovo»? «Oh illustrissimo si, certo», risponde il venditore. «Come quest’anno passato»? «Più più assai». «Come quello di là»? «Più più, illustrissimo». «Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi»? «Signor no, non mi piacerebbe». «Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi? «Saranno vent’anni, illustrissimo». «A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo»? «Io? non saprei». E all’ultima domanda, decisiva - «Non vi ricordate di nessunanno in particolare, che vi paresse felice?» - il venditore risponde, infine: «No in verità, illustrissimo».
Se Leopardi fosse un personaggio dei nostri tempi la sua posizione sarebbe all’incirca riassumibile così: il futuro non esiste più e la prospettiva di un cambiamento reale è svanita dall’orizzonte a venire delle nostre vite. Dopo il crollo del comunismo e la crisi delle sinistre l’unico Sol dell’avvenire che resta è il feticcio di futuro, ripetitivo e addomesticato, dato in pasto al pubblico dai media. Altro non rimane che sprofondare nell’eterno presente del consumismo, fabbrica dei sogni che sforna un’umanità appagata e frustrata al tempo stesso.
Della scomparsa del futuro si occupa l’antropologo francese Marc Augé in un saggio pubblicato di recente dalla casa editrice Elèuthera, Che fine ha fatto il futuro? (pp. 112, euro 12). L’artefice della fortunata formula «non-luoghi» si misura stavolta col tempo, anzi col non-tempo che si è insinuato nelle vite individuali enelle società contemporanee, spazzando via ogni aspettativa futura di trasformazione del mondo. E’ nel tempo che l’umanità ha da sempre proiettato desideri e speranze, utopie e rivoluzioni. Esiste persino l’ucronia, il tempo mai stato, un termine coniato da un filosofo francese dell’800, Charles Renouvier, per indicare il genere letterario fantapolitico cui appartengono tutti gli autori di opere in cui si narra una controstoria, un tempo alternativo a quello realmente accaduto. L’iniziatore del filone può ben essere considerato Tito Livio con la sua Ab urbe condita, in cui descrive la storia come sarebbe stata se Alessandro Magno avesse esteso il regno macedone a ovest anziché a est.
Ai nostri giorni, però, non esiste più né un’idea di futuro né tantomeno la capacità di raccontare una storia diversa da come l’ha scritta il capitalismo trionfante. «Il futuro è praticamente sparito. Sul mondo si è abbattuto un presente immobile che annulla l’orizzonte storico e, con esso, quelli cheper generazioni intere sono stati i punti di riferimento». Se mai si avessero dubbi sulla gravità di questa eclissi della storia basterebbe tenere a mente che, assieme alla consapevolezza di un passato e di un futuro, viene meno anche la capacità di vivere criticamente il presente. La globalizzazione, come tutti i sistemi di organizzazione sociale, regola la vita degli individui perché è in grado di portare il senso del tempo sotto il proprio ordine. Ogni sistema ha prodotto una «teoria dell’evento». Quello contemporaneo non fa eccezione. Per quanto la nostra epoca abbia prodotto un’accelerazione della storia che non ha precedenti - sono successe più cose negli ultimi cento anni che non nell’intera storia dell’umanità - è paradossale che non ci siano più "eventi" nel vero senso della parola. «L’evento comporta il rischio di una rottura, di una lacerazione irreversibile con il passato, di un’intrusione irrimediabile del nuovo nelle sue forme più pericolose». Nella storia passatapestilenze, catastrofi, guerre, sovvertimenti dell’ordine politico erano visti come eventi in grado di minacciare l’esistenza stessa del gruppo e della società. Per questo «il controllo intellettuale e simbolico dell’evento è sempre stato al centro delle attenzioni dei gruppi umani. Lo è ancora oggi; cambiano solo le parole e le soluzioni». Anzi, è possibile che «il paradosso dell’evento sia al suo culmine: mentre la storia accelera sotto la spinta di eventi di ogni genere, noi pretendiamo di negarne l’esistenza, come nelle epoche più arcaiche, per esempio celebrandone la fine». Del resto, è proprio della storia che i poteri religiosi e politici hanno sempre avuto paura, «si sono sempre serviti del tempo per dare alla cultura l’apparenza di un fatto naturale», quindi immutabile. Non è un caso se tutte le rivoluzioni hanno prima o poi dovuto rimettere le mani sul calendario.
Ironia della sorte, oggi alle società occidentali tocca lo stesso destino ch’esse avevano inflitto ai paesicolonizzati. Il colonialismo è stato per quest’ultimi un «evento ingovernabile», una rottura irreparabile tra presente e passato che non permetteva più di reinterpretare il mondo con le categorie precedenti. Allo stesso modo, oggi, l’Occidente è disorientato da un «cambiamento di scala», non riesce più a interpretare il tempo e ha smarrito l’idea di una storia in continua progressione. «Siamo ancora nella fase di critica dei vecchi concetti e delle visioni del mondo che li sottendevano. A questi si sostituiscono da un lato una visione pessimista, nichilista e apocalittica, secondo la quale non c’è più niente da capire, e dall’altro una visione trionfalista ed evangelica per la quale tutto è compiuto o sta per esserlo. In entrambi i casi, il passato non è più portatore di alcuna lezione e dall’avvenire non c’è più niente da spettarsi». Tra questi due estremi c’è spazio solo per «un’ideologia del presente caratteristica di quella che per convenzione è definita società dei consumi».Sommersi da una marea di messaaggi e di merci gli individui non hanno che da scegliere tra «un consumismo conformista e passivo, anche quando le possibilità di consumo sono ridotte» e un rifiuto radicale che può prendere la via del fanatismo religioso.
Marc Augé mette in fila tre paradossi della nostra epoca. Il primo è che la funzone da sempre svolta dalla storia - d’essere levatrice di nuove idee - sembra terminare proprio nel momento in cui diventa storia planetaria per effetto della globalizzazione. Il secondo è che «noi dubitiamo della nostra capacità di influire sul nostro comune destino proprio nel momento in cui la scienza progredisce a una velocità sempre più accelerata». Infine, proprio la sovrabbondanza di mezzi di cui disponiamo «sembra vietarci di riflettere sui fini, come se la timidezza politica dovesse essere lo scotto da pagare per l’ambizione scientifica e l’arroganza tecnologica». La scomparsa del futuro si fa sentire soprattutto nella politica. Dove manca ilcoraggio dell’utopia. «L’accusa di scarso realismo è una delle ganasce della tenaglia che oggi stritola qualsiasi proposta radicale». La globalizzazione mette davanti ai nostri occhi un immenso spazio pubblico. Ma il venir fuori di una coscienza planetaria, di un movimento altermondialista o noglobal è ancora frammentato.









   
 



 
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