Aldilà del muro
 











Liberati tutti gli attivisti
Giuseppe Fallisi Marcello Faraggi, Angela Lano, Manolo Luppichini, Ismail Abdel-Rahim Qaraqe Awin e Manuel Zani, i 6 italiani fra i 682 attivisti e giornalisti sequestrati lunedì notte dalle forze armate d’Israele in acque internazionali a 130 chilometri dalle coste di Gaza insieme alle 6 navi della Freedom Flotilla, dopo la strage sulla Mavi Marmaris, non erano ancora potuti partire dall’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv per Istanbul, via Ankara, dove li attendeva il personale consolare italiano insieme agli inviati della Farnesina. Problemi della burocrazia militare, che su un paio si è attardata nelle operazioni d’identificazione nella giurisdizione aeroportuale quando tutto l’apparato “giuridico” del “trattenimento” degli equipaggi della Flotilla era crollato in un soffio dalla sera prima, con lo stesso gabinetto d’emergenza del governo d’Israele ad annunciare l’inversione dirotta dal tentativo d’imporre un’«ammissione di responsabilità» per «violazione illegale dei confini dello Stato» all’espulsione «immediata».
Nel frattempo, dalla mattina di ieri, prima con tre scaglioni di 250 distribuiti verso Ankara e Istanbul come al valico di Allenby con la Giordania, poi con il trasferimento al Ben Gurion dei restanti oltre 400, la prigione di Bersheeba è stata svuotata dagli “internazionali”. Al ponte di Allenby gli attivisti arabi hanno trovato una folla di palestinesi e giordani inneggianti alla libertà di Gaza. Alla frontiera giordano-siriana i quattro cittadini di Damasco della Flotilla, compreso l’88enne Ilarion Capucci, patriarca di Cesarea “indesiderato” a vita da Israele, sono stati accolti da altre folle festanti. Scene simili in Turchia e poi, in serata, per i connazionali rimpatriati, ad Algeri.
Un “giallo” invece è durato per l’intera giornata ed ha riguardato il destino di quattro dei diversi arabi israeliani sequestrati sulla Mavi Marmaris,fra i quali lo sceicco Raed Sallah del Movimento islamico di Israele - frazione Nord. Isolati ed interrogati a lungo, non hanno lasciato Bersheeva fino a quando, in serata, non è stata smentita la notizia d’un procedimento specifico nei loro confronti. Mentre 41 altri attivisti di varie nazionalità, feriti nell’attacco di lunedì notte, al Ben Gurion erano destinati ad arrivare per ultimi, tutti destinati all’imbarco aereo per Ankara.
La questione della Flotilla, comunque, non è affatto risolta. Sia sotto l’aspetto dell’inchiesta internazionale richiesta formalmente dal Consiglio Onu per i diritti umani con voto di larga maggioranza, sia per l’indignazione sollevata nell’opinione pubblica internazionale e la critica trovata in quella della stessa Israele dalla decisione dell’attacco militare, sia ancora per gli elementi a tutt’oggi oscuri sulla dinamica dei fatti: che non riguarda solo il momento dell’assalto, visto che i comandi di Tsahal hanno parlato di «operazioni in grigio»,cioè coperte, precedenti, e visto che deputati della Linke tedesca e altri parlano di sabotaggio di almeno due delle navi sin dalla sosta a Cipro. Ma soprattutto, la vicenda non si chiude perché la Flotilla tiene tutt’ora in campo la sua sfida: con la MV Rachel Corrie sulla rotta di Gaza, dopo aver navigato l’altro ieri da Cipro al largo della Libia, carica di storici pacifisti irlandesi e malesi, con la possibilità che altri italiani si ritrovino a bordo nel tratto finale. Con l’avvertimento a Tel Aviv dato dallo stesso primo ministro irlandese a «lasciar giungere a Gaza la nave coi suoi aiuti senza interventi illegittimi e inammissibili». E comunque con la consegna condivisa che «in caso di abbordaggio da parte di navi israeliane non opporranno resistenza e si sdraieranno a terra con le mani alzate». Ma determinati a riportare le autorità israeliane di fronte alle propri intere responsabilità su un blocco che anche i “governi amici” occidentali, adesso, chiedono di rimuovere. AnubiD’Avossa Lussurgiu
Quanti morti ancora nella terra di mio padre?
Ho sempre cercato di mantenere la lucidità nel guardare e leggere la storia moderna del Medio Oriente. Ho sempre provato a mettermi dall’altra parte per comprendere il dolore di chi si trova aldilà del muro. Ho sempre trovato difficile comprendere l’odio e la rabbia, per mia fortuna, non mi è mai appartenuta. Sono giovane e non ho trascorso la mia vita in Palestina. Sono cresciuta in Italia circondata da valori cristiani e costituzionali. Mi è stato insegnato che si deve rispettare l’altro e che i diritti dell’uomo sono inviolabili. Credo in questi valori e cerco di portarli sempre con me, nei miei dispiaceri e nel mio sguardo verso Israele. Ricordo ancora il mio primo viaggio in Palestina. Era il 2004. Avevo 19 anni ed un grande zaino in spalla. Mi sembrava un sogno pensare di andare a visitare quella terra di cui mio padre mi aveva tanto parlato. Affrontaiil primo interrogatorio della mia vita... ferma all’Allenby Bridge per otto ore. Non riuscivo a comprendere di cosa fossi accusata... Mi ritrovai per la prima volta nella mia vita di fronte a degli uomini armati e delle donne vestite da soldato. Scoprii cosa significasse aver paura. Il mio viaggio fu indimenticabile. Ricco di forti emozioni e di una visione del mondo differente. Trovai l’amore all’interno della sofferenza e questo mi sembrò incredibile. Erano passati solo due anni dalle stragi di Jenin e gli attacchi di Betlemme...la Chiesa della Natività portava ancora (e porta tutt’ora) i segni degli attacchi militari. Una madonna colpita al petto... Quell’anno guardai le prime travi del muro innalzarsi lungo le strade di Betlemme, Qalandyia, Abu Dis. Uomini palestinesi costruivano la propria bara per la sicurezza della Grande Israele. Tornai nel 2005. Trascorsi ancora 8 ore all’Allenby Bridge. I soldati mi riempirono di domande, sempre le stesse. Ho visto una volta in un film chequesta è una strategia vincente per snervare l’interrogato. Come ti chiami? Come si chiama tuo padre? come ti chiami? Come si chiama tuo padre? Ho sempre sorriso nella vita. Ho sorriso perché avevo voglia di farlo. Mi piace mettere a proprio agio gli altri, mi piace trasmettere una sorta di tranquillità a chi mi sta davanti. Di fronte ai soldati, all’Allenby bridge, imparai cosa vuol dire sorridere per paura. Sorridere per cercare di piacere. Sorridere perché hai paura che l’altro possa avere paura di te. Sorrisi tutto il tempo e risposi con calma a tutte le loro domande, le stesse per otto ore. Il muro in Palestina era ormai quasi terminato e le colonie si facevano sempre più imponenti. La vita all’interno delle città e dei villaggi palestinesi diventava sempre più difficile. C’era chi mi raccontava di aver perso gran parte dei propri campi aldilà del muro, chi aveva perso il lavoro e chi i propri cari. Gli ulivi. Ricordo ancora la storia di un signore che mi raccontava orgoglioso cheerano riusciti a salvare gli ulivi. Li avevano spostati nella notte in un altro campo, in modo che non potessero essere tranciati via dalle gru. Ricordo signori ridere di fronte al muro. Qualcuno mi disse: ”E perché dovremmo lamentarci? Io mi sento molto più sicuro a lasciare correre i miei figli da una parte all’altra della città adesso che sono circondato da questo muro”. L’umorismo, ecco cosa mi hanno insegnato i palestinesi. Quell’anno fu un anno di forti tensioni. L’eco degli sgomberi delle colonie a Gaza riecheggiava in tutta la Palestina e in Israele. Forti tensioni a Hebron e a Gerusalemme. I coloni della Cisgiordania erano pronti alla guerra e questo lo si respirava ovunque.
Tornai nel 2006. Ancora sette-otto ore all’Allenby Bridge. Domande, le stesse. Quell’anno, iniziarono gli attacchi nel Sud del Libano. La notte a Jenin sentivamo i boati dei raid aerei. Sembrava stessero colpendo la casa di fianco alla nostra. Ricordo ancora la notte che trascorsi su un balcone aguardare in direzione della casa della sorella di Amal. Temevo che i raid aerei potessero colpire quell’abitazione e togliermi i miei fratellini ed Amal. Non chiusi occhio e - a mio modo - pregai. Non diedi molta importanza a quell’evento finché non cominciò a riapparirmi in sogno. Una volta era la casa della sorella di Amal a bruciare, un’altra volta la casa di mia sorella a Milano, un’altra quella di un amico o parente. Capii allora cosa volesse dire la parola “trauma”. Ricordo una suora del Convento di S. Anna a Jenin raccontarmi dell’assedio del 2002. Disse che per oltre dieci giorni Israele aveva impedito a chiunque di uscire di casa. Non vi erano stati contatti con il mondo esterno se non il boato dei raid e il fumo di fuochi lontani. Mi ricordo ancora come questa suora mi confessò di aver trovato la pace in quei giorni di tragedia nel suono del muezzin (la preghiera). Mi disse che nel silenzio e la solitudine, il suono della preghiera lontana era l’unica cosa a darle pace etranquillità. In occidente, la gente si stupiva della vittoria di Hamas. In Palestina, no. Tutti sapevano perché avevano vinto. La politica aveva fallito in Palestina. Qualcosa, sotto il nome di Dio, poteva forse rianimare una lotta per la vita. Ma così non fu. Seguirono anni di assenza. Tornai nel 2009, mi era mancata la Palestina, avevo trascorso l’inverno 2008-2009 attaccata al computer e ai televisori per comprendere cosa stesse accadendo a Gaza. Impotente, ho osservato gente innocente morire e guardato l’indifferenza di molti mentre festeggiavano un nuovo anno. Un nuovo anno. All’Allenby Bridge mi fecero attendere sette ore. Nessuna domanda. Solo attesa. Nessuno mi rivolse la parola. Non capivo. L’attesa mi innervosì più delle domande. Chiedevo perche mi facessero aspettare. Nessuna risposta. Infine, mi fecero passare. La Palestina mi parve ancora più piccola. Era ancora più piccola. La gente nel campo profughi di Azzeh e Tulkarm mi raccontò di continue incursioni militari. Rimasiqualche ora di fronte ad una casa di una famiglia di Gerusalemme, sfrattata e resa homeless da una famiglia di coloni, protetti dai loro soldati. Parlai al telefono con un ragazzino di 16 anni in carcere. Era il fratello di una mia amica: 16 anni, nelle carceri israeliane, per aver manifestato contro Israele. Vidi la povertà crescere in modo dilagante. La povertà culturale ed economica di un popolo che aveva sempre saputo dare e trovare tanto nella vita.
Leggo oggi i giornali. Stupore di fronte a quanto è successo nel mezzo del Mediterraneo? No. Non sono sorpresa. Sarò sorpresa domani o dopodomani quando ancora una volta la sofferenza e l’ingiustizia cadranno nel silenzio. Mi sorprenderò quando leggerò lo stupore dei giornali di fronte ad atti di “aggressione” palestinese. E sapete cosa mi soprende di più? Mi sorprendo perché assaporo pian piano il sapore della rabbia. Io, che non ho trascorso la vita in Palestina. Io, che non ho visto mio padre esser umiliato. Io, che non ho vistola mia casa distrutta. Io, che non ho visto il mio diritto all’istruzione negato. Io, che sono cresciuta nella convinzione che bisogna sempre comprendere e rispettare il mio prossimo. Io, che di tutti i miei valori cristiani e costituzionali, non so più che farmene. Guardo Israele, guardo le migliaia di pellegrini che si recano ogni anno in Terra Santa, osservo le organizzazioni internazionali e i paesi democratici e con rispetto e umanità, non mi resta che chiedere a tutti loro: quanti morti ancora per comprendere il valore della vita umana? Quanti morti ancora per comprendere che forse si è superato il limite?   Susanna Tamimi
L’autogol di Netanyahu: tutti contro il blocco di Gaza
Anche ad adottare il suo punto di vista, il blitz insensato ordinato dal governo Netanyahu sulla "Mavi Marmara" è stato un tragico errore. Il blocco che sta soffocando la Striscia di Gaza dal 2006 è infatti tornato di attualità, tuttine parlano e tutti dicono che la situazione del milione e mezzo di palestinesi che vivono oltre il Muro non è più tollerabile.
Ieri il coro delle figure di primo piano che hanno chiesto in qualche modo che Israele ponga fine al blocco si sono aggiunte voci non scontate. A cominciare dal neo-premier britannico David Cameron, che durante il question time alla Camera dei Comuni ha dichiarato: «Gli amici di Israele, e io mi considero uno di loro, dovrebbero dire che il blocco navale di Gaza rafforza e non indebolisce Hamas e sarebbe quindi il caso di rimuoverlo». Come molti altri leader, Cameron ha voluto sottolineare l’inutilità di una misura che non fa che colpire la popolazione civile e, semmai, rafforza il partito islamico al potere a Gaza, che grazie al blocco ha uno strumento di propaganda in più. Cameron ha definito il raid «totalmente inaccettabile» ed ha telefonato al premier turco Erdogan per esprimere il cordoglio per le vittime turche.
Anche dagli Stati Uniti vengono duevoci importanti. La prima era venuta già martedì quando in Italia era notte e Hillary Clinton aveva definito la situazione di Gaza «intollerabile» e spiegato che l’inchiesta israeliana può anche andar bene ma che dovrà essere credibile. Come? «Siamo aperti a diverse strade per assicurarne la credibilità, compresa quella di una partecipazione della comunità
internazionale, e ne continueremo a discutere con gli israeliani e con i nostri partner internazionali nei prossimi giorni». I toni non sono abbastanza duri? Può darsi, ma per un Segretario di Stato Usa dubitare che l’inchiesta sarà credibile e spingere per una verifica significa alzare i toni. Se poi aggiungiamo che Hillary è la moglie dell’ex presidente più amato dagli israeliani, la dichiarazione è simbolicamente più importante. Non è un cambio di linea, gli Stati Uniti hanno in testa l’obbiettivo del rilancio del dialogo con i palestinesi e per questo non alzano i toni con Israele. Obama però ha telefonato anche lui a Erdoganper comunicargli la sua opinione su Gaza: occorre assolutamente fare qualcosa per migliorare la condizione delle persone che ci vivono. La telefonata deve aver avuto anche altri contenuti se è vero che la posizione turca si è leggermente ammorbidita. Il presidente Usa ha ribadito la necessità di un accordo di pace ampio, che preveda «la nascita di uno stato palestinese indipendente». «Gli Stati Uniti continueranno a lavorare per questo obiettivo - ha aggiunto Obama - operando a stretto contatto con la Turchia, Israele e gli altri attori in campo». Il presidente Usa ha quindi affermato che gli Usa «sostengono un’inchiesta credibile, imparziale e trasparente sulla tragedia». Quanto a Erdogan, il pemier turco ha spiegato che «Israele si confronta con il pericolo di perdere il suo unico amico nella regione, quello da cui arriva il più grande contributo alla pace». Quello di Erdogan è quasi un appello, lasciateci giocare un ruolo, aumenterà il nostro peso come potenza regionale e voicontinuerete ad avere un partner ai vostri confini. A Obama, Erdogan ha anche detto che «I passi che Israele compirà nei prossimi giorni determineranno la sua posizione nella regione». Erdogan, che punta a giocare un ruolo regionale importante, è stretto tra la storica amicizia con gli Usa e la volontà - quanto forte ancora? - di entrare nell’Ue e le sirene iraniane. Ieri il Parlamento di Ankara ha votato all’unanimità un documento che chiede al governo di rivedere le relazioni con Israele. Ahmadinejad ha chiesto ad Ankara di lavorare per approvare sanzioni ed isolare lo Stato ebraico. Dopo la telefonata con Obama, il premier turco sembra propendere per la strada che gli darebbe un ruolo internazionale più importante. Ma per mantenere questa posizione, ci vorrà un impegno forte da parte di Washington. Che questa sia palese o meno, la Casa Bianca e il dipartimento di Stato dovranno, se vogliono risultati, mettere sul governo Netanyahu una pressione senza precedenti. In passato, neglianni di Clinton, e proprio con Netanyahu, la cosa ha funzionato. Ieri il presidente palestinese Abu Mazen, che il nove giugno sarà negli Usa, ha chiesto uno scatto agli americani. Lo stesso ha fatto il più autorevole quotidiano Usa, il New York Times, che in un editoriale non firmato chiede al suo Paese di premere per la fine del blocco di Gaza che «porterebbe sollievo alle popolazioni e darebbe credibilità agli Usa per premere su israeliani e palestinesi perché si siedano a un tavolo negoziale». Chi non ci sente proprio è il premier israeliano che parla di «flottiglia terroristica» e attacco «internazionale di ipocrisia» contro Israele. E così facendo rende meno sicuro il destino del suo popolo. Martino Mazzonis









   
 



 
09-10-2015 - WikiLeaks svela l’assalto del Tpp alla salute e alla libertà della rete
26-02-2015 - Ucraina, Putin: taglio del gas da Kiev a regioni dell’est puzza di genocidio
22-02-2015 - Obama al summit antiterrorismo: "Non siamo in guerra con l’islam ma con chi lo strumentalizza"
12-02-2015 - Maratona al vertice di Minsk. Putin: "Raggiunto accordo per il cessate il fuoco"
10-02-2015 - Il Cremlino: "Se gli americani armano Kiev ci sarà un’escalation del conflitto"
09-02-2015 - Ucraina, Putin: "Non accetteremo ultimatum". Kiev denuncia: "Nel week end 1500 soldati russi hanno varcato la frontiera"
05-02-2015 - Ucraina, Kerry: Russia deve "impegnarsi subito" per fermare la guerra. Putin mobilita i riservisti
09-01-2015 - Un 11 settembre francese? Chi ha ordinato l’attentato contro Charlie Hebdo?
23-12-2014 - Ttip, a chi conviene il trattato commerciale tra Europa e Stati Uniti?
22-12-2014 - Lauti stanziamenti Usa anti-Assad
19-12-2014 - Obama e i giovani neri di Ferguson
18-12-2014 - Putin: "Misure adeguate contro la crisi, economia in ripresa entro due anni
17-12-2014 - Cuba-Usa, svolta nei rapporti: liberato il contractor Gross, scambio di agenti segreti
15-12-2014 - Guerra in Ucraina: viaggio da Sloviansk a Kiev dove il diritto alla salute è negato
14-12-2014 - Libia, chiuso il più grande porto petrolifero: rischio blocco del gas italiano a Mellita

Privacy e Cookies