-CALCIO-
Ciascuno racconterà una storia di questo gioco
 











Scaliamo le pareti dell’inferno. E facciamo gol
-Abbiamo deciso di titolare questo libro Ogni maledetta domenica , come il celebre film sul football americano di Oliver Stone, con Al Pacino e Cameron Diaz. Perché? Perché nonostante tutto, nonostante la sua dispersione nell’ordinario e nei palinsesti televisi, il calcio è ancora uno sport della domenica. Uno sport che continua a vivere nell’attesa dell’evento che separerà i vincitori dagli sconfitti, i sommersi dai salvati, e che fa di questa attesa - che si alimenta a ogni giornata di campionato come nell’inseguire la finale di una delle sue grandi competizioni - la base di una sua ciclica ritualità. E poi, perché c’è una frase grandiosa nel discorso che il coach Tony D’Amato (interpretato da Al Pacino) fa alla sua squadra, i Miami Sharks, prima della partita decisiva. (...) Dice Al Pacino: "Possiamo scalare le pareti dell’inferno un centimetro alla volta-.
Nella prefazione a Ogni maledetta domenica - il volume pubblicato da Minimum Fax (pp. 281, euro 15,00) che raccoglie otto storie di calcio firmate da altrettanti giovani narratori Andrea Cisi, Tommaso Giagni, Carlo Carabba, Francesco Pacifico, Luca Mastrantonio, Osvaldo Capraro, Vittorio Giacopini e Stefano Scacchi -, Alessandro Leogrande indica quale sia la sfida con cui si deve cimentare oggi chi voglia capire davvero dova stia andando il calcio o forse cosa ne resti ancora: «La lotta contro la dispersione del reale, la lotta per raggranellare - insieme a pochi altri, in una parvenza di gruppo - quanto di buono è ancora possibile, la lotta per conquistare ogni tanto un po’ di terra al deserto che avanza».
Il libro, tra i più godili tra quelli dedicati negli ultimi tempi al pallone nel nostro paese, prova così -a raccogliere alcuni brandelli del calcio che rimane. Del calcio come Sistema, e del calcio come dissidenza-. Alcuni degli otto interventi, che si muovono tutti nelterritorio della "non-fiction",- -indagano il tifo, le sue comunità residuali o il mondo degli ultras con le sue storture. Altri le vite di calciatori, allenatori, cacciatori di talenti fuori dal coro. Altri ancora l’alterazione del linguaggio sportivo e dello sguardo sulle cose-. Tommaso Giagni si mescola tra gli ultras della Lazio alla ricerca di una verità sull’omicidio di Gabriele Sandri. Stefano Scacchi segue i talent scout delle grandi squadre a caccia di campioni tra favelas e campetti di periferia. Luca Mastrantonio ripercorre fasti e rovine del Milan di Berlusconi, e Vittorio Giacopini insegue la leggenda di Bora Milutinovi’, l’allenatore "zingaro" che risollevava le sorti delle nazionali più povere del Terzo mondo. Carlo Carabba mette sotto il microscopio il calcio geneticamente modificato ai tempi della pay-tv, e Andrea Cisi racconta la calda e folle esperienza di un pomeriggio allo stadio Zini tra i tifosi della Cremonese. Francesco Pacifico decostruisce splendori e miseriedel "caso Balotelli", mentre Osvaldo Capraro mette in scena una luminosa parabola fatta di calcio, violenza, colpa e redenzione.
Alla fine della lettura si ha l’impressione di aver scorso una sorta di album di famiglia collettivo, di quelli in cui non ci si riconosce in ogni singola foto, magari scattata a un parente o a un amico, ma di cui si comprende il senso e il valore, l’itinerario del viaggio compiuto nel corso del tempo e anche il suo approdo. Sono ricordi che non ci appartengono direttamente, ma che parlano alla nostra memoria del calcio - giocato, guardato alla tv, seguito dalla curva di uno stadio, poco importa - quelli che scopriamo pagina dopo pagina. Come quando Tommaso Giagni racconta la cultura ultrà in "Gabriele uno di noi". -Un cavallo di battaglia di chi scredita gli ultras - spiega Giagni - è la tesi secondo cui la gente non andrebbe più allo stadio perché è diventato pericoloso. In realtà gli stadi italiani non sono più pericolosi di quanto lo fossero trent’annifa, e vedono morire i Raciti come nei Settanta vedevano morire i Paparelli e nei Novanta gli Spagnolo. Personalmente in quasi dieci anni d’abbonamento in una delle curve più calde d’Italia, seguendo poche regole di buonsenso, mi sono trovato in pericolo un paio di volte in tutto. Non sarà superfluo sottolineare che entrambe le volte mi trovavo all’esterno dello stadio- O quando Francesco Pacifico ci conduce attraverso "Mario Balotelli: una visita guidata", raccontando lo stile "gangsta" di uno dei più famosi calciatori italiani, esibito in occasione di Inter-Roma del marzo dello scorso anno: «MB tira dagli undici metri con una mezza finta alla Figo, segna, e subito alza l’indice guantato Nike e se lo porta alla bocca per mettere a tacere gli ultras romanisti in trasferta. E questa cosa non si fa. Ancora peggio: tornando verso la sua metà campo, si volta per fare la linguaccia - agli avversari più che alla curva. Per linguaccia intendo: lingua di fuori e rituali occhi da pazzo, tipowrestler americano, tipo Joker-. Guido Caldiron
Conti in rosso e squadre in crisi
Che il football sia nato in Inghilterra è cosa nota. Che questo sport attiri Oltremanica l’attenzione di tutti gli appassionati è altrettanto noto. Che tutto questo blasone e questa attrattiva siano probabilmente destinati a finire in breve tempo, forse no, non è noto. Alla base di questa previsione ci sono due soggetti: i debiti e Michel Platini. Il presidente dell’Uefa ha deciso di fare del fair play finanziario la bandiera del suo mandato e ha quindi obbligato le società ad abbattere al massimo i loro debiti entro la stagione 2012/2013. Una vera spada di Damocle per i club della Premier League che da soli, stando all’ultimo rapporto Uefa del 2008, assorbono il 56% dei debiti delle squadre europee. Per farla breve, le 18 maggiori squadre inglesi mettono insieme un buco da 4 miliardi di euro, quattro volte tanto quello registrato nella Ligaspagnola dello spendaccione Florentino Perez, seconda in classifica. Gli appassionati di calcio sapranno già cosa questo comporta per il gioco del pallone: squadre che fino adesso dominano, o quasi, il panorama europeo, rischiano di intraprendere un lento declino verso la mediocrità.
Il primo della lista è il Liverpool, immancabile ormai in ogni pagina sportiva in cui si parli di calciomercato. I guai finanziari dei suoi litigiosi patron americani rischiano di far fallire la squadra della città dei Beatles che solo 5 anni fa era salita sul tetto d’Europa nella magica notte di Istanbul quando riuscì recuperare 3 gol al Milan in un solo tempo. I Reds, che hanno vinto in Inghilterra più di tutti, sono ufficialmente in vendita da quasi due mesi e messi sotto tutela dal commissario Martin Broughton. Il Liverpool adesso è nelle sue mani e in quelle della Barcklays, che avranno il compito di trovare un acquirente in grado di riportare le casse del club molto al di sotto dei 300 milioni dieuro di debito che si trovano a dover affrontare.
Quando il 6 febbraio del 2007 George Gilet e Tom Hicks presero possesso del Liverpool furono in molti a storcere il naso. Da nazionalisti spinti, gli inglesi non hanno mai visto di buon occhio una qualunque intromissione straniera nello sport più amato. Tanto più che i due magnati statunitensi, pur possedendo rispettivamente una squadra di hockey canadese e una di baseball texana, provengono sempre dall’industria delle telecomunicazioni. Ma i 720 milioni di euro a stelle e strisce messi sul piatto convinsero i vecchi proprietari a fare il grande passo, la Kop (la storica curva dell’Anfield Road) fece buon viso a cattivo gioco, ma il Liverpool non vinse più nulla, pur piazzandosi sempre sia in campionato che in Champion’s. Eppure, ad Anfield Road in questi tre anni le cose sono andate più che bene: le entrate sono aumentate del 55%, quelle commerciali dell’83% e i profitti operativi del 60% e il progetto di uno stadio di proprietà vaavanti spedito. Allora cosa non ha funzionato? Più o meno quello che non ha funzionato nell’economia mondiale degli ultimi anni. Una finanziarizzazione spinta che ha preso il posto del valore dei giocatori o dei diritti sportivi e televisivi. Comprare e vendere un calciatore a cifre esorbitanti è prima di tutto un investimento in Borsa. Finché però in Borsa andava tutto bene...
In Premier ci sono ormai da anni le 4 sorelle, a cui dobbiamo aggiungere sulla fiducia una quinta che è il Manchester City. Del Liverpool abbiamo già parlato, vediamo la situazione di Manchester Unted, Arsenal e Chelsea. I Red Devils sono i rivali storici del Liverpool, il loro allenatore è dal 1986 Alex Ferguson e per dire quanto il club sia parte integrante della storia inglese Ferguson è stato nominato Sir dalla Regina, si poteva permettere di consigliare l’ex premier Tony Blair e soprattutto, nel 1998 la tentata scalata al club da parte del tycoon australiano Rupert Murdoch fu stoppata niente meno che dalGoverno. Ma dal 1998 ad ora è passata una vita e nel frattempo il vanto inglese non è più inglese: nel maggio 2005 la Public limited company (la Spa del Manchester) fu oggetto di un’opa ostile dell’americano Malcolm Glazer che rivoluzionò la società, con ferrei limiti per la tifoseria (che come risposta fondò lo United Fc, squadra di terza divisione) e massicci investimenti nel marketing e nella Borsa. Risultato: nel 2008 il fatturato del club era di circa 325 miliardi di euro, ma un anno dopo i debiti del club erano già 819 milioni, a causa degli spaventosi interesse accumulati nel tempo al ritmo di 78 milioni all’anno. A differenza degli odiati cugini del Liverpool, il ManUtd non rischia di diventare un bazar con la mercanzia in esposizione, ma le sue significative perdite già le ha avute. Nell’estate scorsa i tifosi hanno dovuto dire addio alla stella del club Cristiano Ronaldo, venduto agli spagnoli del Real Madrid per 93 milioni di euro, la cifra più alta mai pagata per uncalciatore. Nonostante questi soldi, all’Old Trafford non è arrivato un degno sostituto, perché tutti quei milioni sono serviti per abbassare almeno un po’ lo spaventoso monte debiti. E il Manchester nella stagione 2009-2010 non ha vinto più nulla.
Arriviamo ai Gunners londinesi: l’Arsenal è ancora un club di proprietà inglese, ma negli ultimi tempi la Kroenke Sports Enterprises, dell’americano Enos Stanely Kroenk e la Red and White Securities del miliardario russo Alisher Usmanov, hanno superato entrambi il livello del 25% del pacchetto azionario. Ma nonostante il fatturato annuo dei Gunners sia ottimo (superiore ai 300 milioni di sterline), anche il club di Londra deve far fronte a un debito che a fine 2009 ammontava a più di 300 milioni di euro. La particolarità dell’Arsenal è che la società ha due rami di profitto: quello sportivo e quello immobiliare, dato che con il passaggio all’Emiraties Stadium (in onore dello sponsor) come stadio di casa il vecchio Highbury è statotrasformato in una serie di appartamenti da mettere sul mercato. Questo passaggio ha incrementato, e di molto, il debito della società e in più, data la crisi economica, non molti dei nuovi appartamenti sono stati venduti. Risultato? Le stelle della squadra, Adebayor e Kolo Touré, sono stati venduti per fare cassa e l’Arsenal non ha brillato né in Premier, né in Champion’s League.
Infine il Chelsea, neo vincitore della Premier League. Il club di Londra, dalla storia più travagliata della Premier, guida la classifica europea dei debiti, con un buco che sfiora gli 800 milioni di euro. Nessuno però può scommettere su una bancarotta o una svendita del club o delle sue stelle, per un semplice motivo: il patron del Chelsea è Roman Abramovich, uno degli uomini più ricchi del mondo che non ha problemi a risanare le casse del club. Sì, sono due anni che il magnate russo predica una politica di austerity, ma ciò nonostante il Chelsea continua a essere competitivo su tutti i fronti. Un po’come l’Inter di Moratti con i suoi 300 milioni e passa di debito sempre estinto.
Insomma, stando alla classifica Uefa, 15 club sui 20 della Premier hanno bilanci in rosso, due (West Ham e Portsmouth) sono già stati privati della licenza Uefa per la situazione debitoria ma tanto le squadre non si sono mai piazzate per disputare le coppe europee. Cosa succederà con la nuova politica di Platini? La regola impone di ridurre i debiti fino a un massimo di 45 milioni entro il 2012, ridotti a 30 nel 2013. In più, l’ex premier Gordon Brown ha lasciato come eredità un incremento del 10% (arrivando al 50%) delle tasse sugli stipendi di chi guadagna più di 110mila euro netti all’anno, andando quindi a colpire anche i calciatore della Premier. Chissà se per l’Inghilterra del calcio il 2012 sarà l’anno della grande fuga... Andrea Milluzzi
Un campionato di donne nel centro di Roma
Sono tutte ragazze di età compresa tra i 13 e i 40anni e provengono principalmente dal Sud America: Bolivia, Perù, Guatemala, Salvador ma anche da altre parti del mondo, Moldavia, Romania, Tunisia, Marocco, Brasile, Russia. Ma anche dall’Italia. Giocano a calciotto, cioè in sette, in un campo un tempo abbandonato proprio di fronte al Colosseo, a Colle Oppio. Sono badanti, baby sitter o collaboratrici domestiche: -Lavori duri, stressanti e faticosi. Così la domenica ci riuniamo qui a Colle Oppio, mangiamo, stiamo insieme e giochiamo a calcio-. L’autogestione del campo nasce 13 anni fa. Al tempo era abbandonato al degrado -non si poteva neanche camminare per quante siringhe e sporcizia c’era- poi loro lo hanno ripulito per farlo diventare un posto dove praticare del sano sport. -Scopa, rastrello e abbiamo iniziato prima formando una sola squadra e poi le altre-. Racconta Maria, tesoriera dell’associazione "Equador amazzonico" a cui sono federate tutte le squadre che giocano qui, sia femminili che maschili. In tutto 26 di cui 7femminili.
Il campionato normalmente inizia a marzo o aprile con un’inaugurazione ufficiale: il presidente, la madrina e tutta la squadra. Ma non è stato facile, soprattutto per delle squadre femminili: «Abbiamo dovuto combattere come donne per giocare a calcio, è stata dura perché i dirigenti ci vogliono a casa. Ma noi abbiamo fatto una bella battaglia. Siccome giochiamo solo la domenica ed è una sola giornata, abbiamo raggiunto un compromesso e facciamo solo tre incontri, tutto il resto del tempo è lasciato alle squadre maschili che sono di più. Da qui la nostra continua battaglia per farci aumentare le squadre, così possiamo giocare di più».
Ma il campo non le soddisfa ancora. -C’è troppa polvere e questo crea un problema non solo a noi che giochiamo ma anche a chi abita qua vicino, ma non è colpa nostra. C’è anche una fontanella ma l’acqua è troppo poca, stiamo chiedendo al Comune di aprirla un po’ di più ma ancora non ci hanno dato riposta. Non abbiamo neanche glispogliatoi, ci spogliamo per strada-.
Le ragazze, comunque, non si danno per vinte e tutte le domeniche arrivano a Colle Oppio dalle diverse parti della Capitale. Un modo per lasciarsi alle spalle il duro lavoro settimanale e per conoscere anche donne che provengono da paesi diversi. -Un modo per fare integrazione con il nostro sport che è il calcio. - dice Olga da sette anni in Italia, è venuta da sola, a 17 anni, per caso - Mi piace lo sport e il calcio, giocavo anche in Equador. Sempre tra donne. Ma qui la cosa bella è che giochiamo tutte insieme, mescolate le une alle altre. E quando calciamo la palla e la chiediamo non sappiamo in che lingua farlo, le lingue si confondono e ne nasce una creata da noi. Inoltre, ed è la cosa più importante, giocare rende le donne più libere e capaci di integrarsi qui. Vedere una persona che viene dal Marocco giocare a calcio è emozionante... E poi sono molto brave». Ana viene dalla Moldavia e di anni ne ha 27: -Giocavo nel mio paese e poi quandosono venuta qua ho continuato a giocare in una squadra italiana. Ora la domenica non ho molto da fare quindi vengo qui. Ci stanno donne che neanche sanno giocare o hanno un’età avanzata e giocano lo stesso, questo mi è piaciuto tantissimo. Da noi non è cosi le donne stanno a casa, soprattutto quelle di una certa età-. Ana come molte altre è venuta in Italia in cerca di una vita migliore, per lei, ma anche per la famiglia che è rimasta nel suo paese. Maria ci tiene molto a questo argomento: -Noi veniamo qui anche per mantenere i parenti che rimangono là. Per cui anche questo è un modo per aiutarci a vicenda, visto che molti per venire vendono anche la casa nei propri paesi d’origine-.
Al contrario di quello che succede in Italia, in Sud America le donne giocano a calcio anche da piccole. E’ uno sport a cui sono molto attaccate e che non gli è stato negato per il loro sesso. Doris ha 30 anni e anche lei viene dall’Equador: -Vengo da una famiglia di giocatori, mio padre da giovane èstato un bravo calciatore, ma mia nonna non l’ha lasciato giocare perché pensava che era una perdita di tempo. Tutte le mie sorelle e fratelli giocano, tutti i sabati e le domeniche perché là è tradizione. Solo che da noi lo sport è gratis e ci sono un sacco di campi, invece qua se non paghi non giochi e questo non è bello. Soprattutto per questo campo sono "soldi rubati", andrebbe sistemato. Tante sono state le promesse dei politici e dei vertici dell’associazione ma ancora stiamo aspettando». Doris studia per diventare operatrice turistica. -Essere un’emigrante è traumatico, lasciare la propria casa può causare danni molto grandi, per cui giocare aiuta a sfogarsi, è un aiuto. Soprattutto il calcio perché è un gioco di squadra-. Tra le giocatrici incontriamo anche Aurora, lei è di Roma: -E’ la prima volta che vengo qui. Appena arrivata ho cercato un circolo di nome Colle Oppio, quando ho visto che questo era il campo mi è "preso un colpo". Poi vedere tanta gente sugli spalti mi haimpressionata e sono scesa in campo. L’esperienza è stata bellissima perché qui o giochi in una determinata maniera o ti buttano per terra, ti fai le ossa come giocatrice-.
Il campionato continua e le ragazze ce la mettono tutta per far vincere la propria squadra. Un modo per lasciare a casa le difficoltà di essere una migrante con pochi diritti e tanto lavoro sulle spalle. Il loro sogno sarebbe per una volta giocare con una squadra femminile italiana, speriamo che qualcuna lo possa esaudire. Cristina Petrucci
L’ultima partita contro l’omofobia
Eudy Simelane sognava di essere la prima donna ad arbitrare una partita della Coppa del mondo in Sudafrica. Era stata una delle prime donne di quel paese a prendere la qualifica di direttore di gara. Il calcio era la sua ragione di vita. E forse anche di morte. Il suo ruolo di capitano della nazionale femminile, "Banyana Banyana", l’aveva resa la star di un sporttradizionalmente maschile. Il mondiale che attrae miliardi in sponsorship e diritti televisivi, lo giocano gli uomini.
Eudy il calcio ce l’aveva nel sangue. A Soweto, dove era nata nel 1977, ricordano che all’età di cinque anni, calciava già una palla che finiva per sgonfiarsi, facendola arrabbiare e correre, in lacrime, dalla mamma. Ragazzina, tirava calci al pallone nelle strade polverose, in mezzo alle case modeste tra le quali era cresciuta, giocando insieme ai ragazzi. Era entrata nel "Banyana Banyana" a 21 anni. Prima aveva giocato nelle "Springs Home Sweepers". L’ultima squadra per cui aveva segnato goal era stato il "Tsakane Ladies".
Sul campo come nella vita, Eudy era una fuoriclasse. Oltre che un’icona dello sport femminile, questa donna di un metro e settantacinque con i capelli corti tinti di biondo, era un simbolo del movimento gay in Sudafrica. Ma si dava da fare anche come volontaria aiutando gli handicappati. All’età di 31 anni, aveva deciso di trovare un lavorovero e proprio, specializzandosi nel settore farmaceutico. Intanto i campi di calcio le avevano dato quella notorietà che usava per venire allo scoperto come paladina dei diritti gay. Famosa, giovane, donna e gay. Un biglietto da visita accettato nei quartieri ricchi di Cape Town, ma non nelle Township, dove la violenza, sopratutto quella contro le donne, conquista primati mondiali. In Sudafrica sono denunciati alla polizia almeno 50mila stupri l’anno. Ma le vittime che denunciano sono un’esigua minoranza. Si stima infatti che la cifra reale ammonti a 450mila.
Eudy Simelane era orgogliosamente lesbica. In Africa, farsi portavoce dell’orgoglio gay equivale ad essere attivisti per i diritti umani. L’omosessualità è reato in almeno 37 paesi del continente. Ma non in Sudafrica, dove dal 2005 sono invece consentiti matrimoni tra persone dello stesso sesso.
La legge, nel paese del mondiale, non criminalizza i gay. Lo fa il popolo delle Township. Venivano dagli slum di Johannesburg gliassassini e stupratori di Eudy Simelane. La notte del 28 aprile 2008 Eudy uscì dalla taverna di Twa Kema, alle porte di "Jo-burg" dove aveva passato la serata. A duecento metri da casa avrebbe incontrato i suoi aguzzini. La violentarono in gruppo. Poi la uccisero brutalmente con 25 coltellate al volto, al torace e alle gambe. La corsa di Eudy si fermava su un prato diverso da quello dei campi di calcio. Il giorno successivo all’omicidio, uno dei suoi assalitori Themba Mvubu indossava le "takkies", le scarpe sportive bianche e nere di Eudy. La lampo dei pantaloni dell’uomo era macchiata del sangue della donna. Quando è stato condannato, Mvubu ha dichiarato ai giornalisti, mentre veniva portato via: -I am not sorry-.
La giovane calciatrice non è stata la sola ad essere uccisa dopo una violenza di gruppo. Almeno altre trenta lesbiche sono state assassinate in modo simile in Sudafrica negli ultimi dieci anni. Le cifre relative alle donne gay vittime di stupro, che almeno salvano lapelle, è altissimo e sconosciuto, dato che, nella maggior parte dei casi, non c’è denuncia. Secondo il rapporto "Crimini d’odio: la crescita dello "stupro correttivo" in Sudafrica" pubblicato dalla Ong Action Aid nel 2009: -Solo a Johannesburg almeno 10 lesbiche subiscono ogni settimana aggressioni di questo tipo e il numero reale è probabilmente molto più alto-.
Lo stupro "rieducativo", perpetrato talvolta anche da membri della famiglia o amici della vittima, trova ragione nel fatto che per molti africani l’omossessualità è una malattia, una sorta di virus. Altra credenza è che i gay siano una sorta di setta che cerca di convertire gli eterossessuali. Il problema delle violenze sessuali in Sudafrica ha poi rilevanza riespetto al fatto che si tratta del paese con il più alto tasso di diffusione dell’Hiv al mondo. Le violenze sessuali, infine, dilagano anche a causa della quasi certezza dell’impunità. Se gli assassini di Eudy Simelane, giovani tra i 18 e i 25 anni sono statiarrestati e condannati, solo un violentatore su cinque finisce davanti a un tribunale sudafricano, dove appena il 4% dei processi si conclude con una condanna.
Se uno studio condotto nella provincia di Eastern Cape dal sudafricano Medical Research Council l’anno scorso, ha stabilito che il 25% dei maschi sudafricani ha stuprato, un’inchiesta condotta l’anno scorso a Johannesburg e Città del Capo dal quotidiano britannico The Guardian , le lesbiche sudafricane vivono nella paura, affermando di sentirsi minacciate ogni giorno. Tuttavia, il giudice del processo per l’omicidio di Eudy Simelane, tenutosi a Delmas, nella provincia del Mpumalanga, ha stabilito che «l’orientamento sessuale della vittima» non aveva «rilevanza nel caso». Non la pensano allo stesso modo le organizzazioni per la difresa dei diritti gay e delle donne. E dire che il Sudafrica è considerato, per la propria storia recente, un paese emblema della lotta per l’affermazione dei diritti.
Il Sudafrica che NelsonMandela aveva in mente era «Uno stato non razzista, uno stato non sessista». "Madiba", che sognava la Nazione Arcobaleno, non avrebbe escluso i gay dalla tutela dei diritti. E ciò accadeva a metà degli anni ’90. Oggi, uno dei governi amici dell’attuale presidente sudafricano, Jacob Zuma, quello dello Zimbabwe, ha invece respinto la richiesta di riconoscere i diritti degli omosessuali nella nuova costituzione del paese. Il mondiale sudafricano apre i battenti tra pochi giorni. Ma nessuno dei nuovi e costosi stadi inaugurati per l’occasione porta il nome di Eudy Simelane. Eppure era un emblema del calcio e dei diritti umani. Ma era nata donna ed era lesbica. In Africa, figlia di un Dio minore. Francesca Marretta

 

 

 

 









   
 



 
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