Un sindacato nazionale I drammatici avvenimenti del giugno-luglio 1960 si inscrivono nel quadro della crisi politico-sociale che segna il passaggio da una ad altra fase della storia dell’Italia repubblicana, tra l’autunno 1959 e l’estate 1962. Le recenti ricostruzioni storiografiche consentono di leggere la crisi del luglio 1960 alla luce del più ampio processo di transizione della realtà italiana caratterizzato dall’intreccio tra modernizzazione economico-sociale, blocco delle istituzioni repubblicane e passaggio dal quadro politico centrista alla formula politico-parlamentare del centro-sinistra. Ma allo stesso tempo gli storici hanno messo in evidenza come i moti di piazza sviluppatisi all’insegna dei valori antifascisti e la dimensione sociale del luglio 1960 rappresentano uno dei nodi di questa vicenda, oltre che un dato unico nella storia politica dell’Italia Repubblicana; infatti, come ha sottolineatoCollotti: «storicamente, la prima constatazione che va fatta è il significato che quelle settimane ebbero nel sottolineare la irrevocabilità della condanna del fascismo sancita dalla Resistenza già nell’aprile del 1945. […] Il neofascismo è stato posto fuori dalla storia d’Italia». Infatti, il maldestro tentativo di dar vita, sotto la maschera di un governo amministrativo, a un potere di centro-destra viene bloccato sul nascere proprio dai discriminanti fatti di Genova; e da allora ha inizio quel mutamento nel sistema di governo del paese per cui vengono superate le vecchie formule centriste da qualche tempo aperte a neofascisti e viene abbozzato l’esperimento di una ridotta e controllata apertura a sinistra. L’esperimento Tambroni si muove tra due poli: la crisi del centrismo ormai consumata e l’ipotesi di aprire ai socialisti, sostenuta da Moro e Fanfani e a cui si oppongono i democristiani di destra, i liberali e l’ala più conservatrice e moderata dello schieramento politico. La crisi del sessanta è, infatti, una crisi di transizione che travolge dall’interno il sistema politico-istituzionale, ma a cui corrisponde anche una forte risposta sociale attraverso un’ondata di protesta che divampa in diverse città italiane e che vede tra i suoi protagonisti una componente di tipo nuovo, rappresentata dalla presenza di immigrati meridionali nel ribellismo dei ragazzi dalle "magliette a strisce": i giovani operai e disoccupati scesi in piazza a Genova. La Cgil in questo frangente svolge un ruolo baricentrico poiché da un lato governa il conflitto sociale e dall’altro promuove la formazione dell’arco costituzionale alla cui base pone il lavoro come valore fondante dell’antifascismo. Se, infatti, le manifestazioni contro Tambroni hanno articolazioni diverse e motivazioni politiche, culturali e sociali differenti, e le stesse organizzazioni sindacali che promuovono i cortei e gli scioperi hanno identità e profili storici eterogenei, nonostante questonell’estate calda del 1960 tutto il mondo del lavoro si oppone alla preoccupante deriva autoritaria del sistema politico-costituzionale italiano. Nel 1960, infatti, gli avvenimenti che coinvolgono le città di Reggio Emilia e Genova, passando per i gravi incidenti di Porta San Paolo a Roma sino a giungere in Sicilia (con le diverse specificità di Licata, Palermo e Catania), ci restituiscono un quadro composito di "localismo plurale" che trova una sua prima ricomposizione e sintesi con lo sciopero generale della Cgil. Il luglio 1960 assume una dimensione realmente "nazionale" soprattutto con le vicende dello sciopero generale, indetto dalla Cgil l’8 luglio all’indomani degli incidenti di Reggio Emilia; una data questa che rappresenta uno spartiacque poichè da questo momento riprendono il via le manovre politiche che portano alle dimissioni di Tambroni (19 luglio), all’incarico a Fanfani (22 luglio) e alla nascita del Governo delle "convergenze parallele" (26 luglio) che avrebbeottenuto la fiducia, con l’astensione socialista, il 5 agosto. In questo passaggio si colloca l’origine della trasformazione democratica dell’Italia, all’interno della quale le carenze delle strutture politico-parlamentari e i limiti e gli egoismi delle classi dirigenti hanno imposto al sindacato la scelta di giocare un ruolo che non è stato solo economico-rivendicativo, ma che è stato ed è tuttora un ruolo di sostegno e di integrazione dei processi democratici. In tale quadro la Cgil, dopo le scissioni del 1948-1950 e la fase della difficile legittimazione negli anni Cinquanta, torna ad essere un attore politico decisivo, così come lo era stato durante la discussione e la stesura del patto costituzionale, e che dunque non poteva più essere cancellato dalla vita politica italiana. Adolfo Pepe-storico Quei "teddy boys" in piazza con i partigiani -Quando gli americani sono arrivati a Genova giravano i tram, icinema erano aperti, funzionava tutto-. Era il 27 aprile del ’45. -Meinhold, il comandante della piazza ha firmato la resa nelle mani di un operaio, Remo Scappini-. La mitologia che avrebbe dato vita al 30 giugno, alla rivolta che bloccò il congresso del Msi a Genova parte da lì: -E’ stata l’unica città in Europa dove il comando tedesco si è arreso ai partigiani-. Riccardo Navone, nel ’60, aveva dieci anni. -Ne avessi avuto qualcuno di più sarei stato in piazza anch’io. Con mio padre partigiano-. Invece suo padre prese la famiglia, la portò nel Canavese, -e sparì per dieci giorni-, continua Navone. -Poi dopo m’ha raccontato-. Cinquant’anni più in là, Navone ha deciso di ricostruire quei fatti con un libro, 30 giugno, la Resistenza continua. Moti di piazza e repressione nei giorni del governo Tambroni , appena edito da Coedit, una sigla genovese che inaugura un nuovo corso editoriale proprio con questa pubblicazione (255 pagine, 18 euro). Navone scrittore, libraio, ex fotografo,militante anarchico. Racconta a Liberazione di aver udito molte leggende su 30 giugno e dintorni. Storie che vengono tramandate e in questo cammino ingigantite, enfatizzate. «Ma tra loro non combaciano. Per altre mancano riscontri. Tutti hanno qualcosa da ricordare, anche il fatto di essere entrati in una stoccafisseria, prelevato un pezzo di baccalà e essersi messi a picchiare con quello». Incardinata nell’immaginario popolare cittadino, quell’epopea si deforma anche nei libri. Anche Primo Moroni, mitico libraio della Calusca di Milano, ricorda nel libro Il nemico interno curato per le edizioni Odradek da Cesare Bermani, che un gruppo di partigiani alla Salita del Fondaco, quando sbocca su Piazza De Ferrari, mostrò le armi alla polizia. Come se fossero pronti a battersi. Poi si sarebbero ritirati. «Ma di quest’episodio non esiste prova né altra testimonianza». C’è il racconto della verità e la verità di ogni racconto. Così Navone s’è chiuso in biblioteca per leggeri mesi e mesi distampa dell’epoca, «l’ho fotografata, scansionata per ricostruire la genesi del governo Tambroni e i processi sui fatti di Roma, Licata, Reggio Emilia, Genova». Ne è scaturita un’antologia di testi, documenti, foto e anche delle canzoni scritte sull’onda di quei fatti - a partire da quella più nota, "I morti di Reggio Emilia". Consistente la cronologia, scrupolosa, inquadrata nel contesto internazionale dell’epoca e nella situazione italiana. Il ’60 è l’anno del boom economico ma anche quello della ripresa delle lotte operaie. Le ore di sciopero da 46 milioni del ’59 diventano 80 milioni. La Dc è solcata da tensioni divaricanti: c’è chi vorrebbe praticare una politica riformista e aprire a sinistra, verso il Psi. E chi non esita ad allearsi con i missini per tirare avanti dopo la bocciatura della legge truffa. Nelle fabbriche, da alcuni anni, i sindacati gialli hanno la maggioranza. Sono gli anni dei reparti confino, dei licenziamenti politici, di ricatti, intimidazioni,rappresaglie. La sola Fiat ha 1100 sorveglianti, uno ogni 60 operai. A Torino gli iscritti al Pci sono 18mila, meno della metà di sei anni prima. Gli industriali vedono crescere del 25% i profitti mentre i salari sono al palo da dieci anni. E la borsa vola come la disoccupazione che, ancora una volta, spopola le campagne e le regioni del sud. Dentro questa forbice drammatica maturano le aspettative di rinnovamento, i desideri di emancipazione di nuove generazioni operaie. I sindacati sono in palese difficoltà con la massa dei nuovi lavoratori, apparentemente spoliticizzati e poco disciplinati. Il governo demo-fascista di Tambroni piomba su una scena popolata dai giovani che tutti immaginano pervasi dalle sottoculture adolescenziali importate dall’America. Invece, giovani e anziani trovarono i loro valori comuni nell’antifascismo e nei desideri di emancipazione. Venivano stigmatizzati come teddy boys , si ritrovarono in piazza con i partigiani. La Dc, corrotta e retrograda, tental’alleanza coi fascisti per rubare loro un altro po’ di futuro. Si legge nel primo capitolo: «Il congresso del Msi a Genova sarà solo la scintilla, lo squillo della diana che risveglierà le coscienze. L’antifascismo del luglio Sessanta si intreccia con le rivendicazioni sociali e politiche in ogni settore produttivo. I giovani chiedono più salario e più diritti, chiedono che la società funzioni, che funzionino la scuola e la sanità, che ci sia una casa per tutti, che i prezzi non siano da rapina. In sostanza chiedono semplicemente che l’Italia diventi una democrazia compiuta». L’attualità di certi bisogni è sconcertante. Quello che irruppe sulla scena a Genova era proletariato giovanile come si può evincere dai mestieri degli arrestati di quei giorni: saldatori, portuali, mozzi, camerieri, apprendisti, edili. «Le magliette a righe erano la loro moda perché costavano meno delle altre», dice sempre Navone. E dai processi che scaturirono spunta un’altra coincidenza con il nuovo secolo.Quarant’anni prima di Via Tolemaide un’altra corte aveva appiccicato l’accusa tremenda di devastazione e saccheggio a quei giovani operai proprio come sarebbe accaduto a 25 manifestanti scelti a casaccio per controbilanciare l’orrore per le scorrerie di mille e mille teppisti in divisa. Per decenni il 30 giugno sarebbe stato uno slogan scandito prima dai giovani extraparlamentari, così li chiamavano, poi dai ragazzi dei centri sociali. Di quella stagione quasi nessuno ha fatto carriera, non ci sono nomi eccellenti. Altra similitudine. Così come la scarsa sintonia col sindacato ufficiale. Che oggi tuttavia prova a stendere un filo per recuperare quella memoria. Tra i materiali che sono restati "nascosti" in tutti questi anni, Navone cita la lettera del cardinale Siri ad Aldo Moro per scongiurare un’eventuale alleanza della Dc con il Psi e la lettera pastorale con cui il capo della chiesa geneovese, proprio il 30 giugno, se la prende con Hegel, reo di raccontare favole, e con ledonne coi pantaloni: «L’abito maschile usato dalla donna altera la psicologia della donna; tende a viziare i rapporti tra la donna e l’altro sesso; è facilmente lesivo della dignità materna davanti ai figli». «Pensa che doveva diventare papa!», esclama l’autore che, proprio mentre Liberazione lo intervistava, è entrato in possesso di un ennesimo documento dell’epoca: «Il severissimo preside della facoltà di Scienze era Eugenio Togliatti, fratello di Palmiro ma lontano dalla politica - racconta - eppure firmò con altri cento docenti l’unico atto politico della sua vita». Quel documento, datato 25 giugno, chiedeva al governo di vietare il congresso del Msi e fu presentato alla Casa dello Studente di Corso Europa dove quindici anni prima la Gestapo e i repubblichini torturavano i prigionieri politici e li fucilavano. Navone insiste ancora sulla sentenza del processo che seguì i moti di Genova. Ha appena scoperto che la scientifica quei giorni ha girato un film proiettato in aula e poisparito: -Adesso bisogna andarselo a cercare-.Checchino Antonini Dalle file dossettiane all’abbraccio con i neofascisti -I poliziotti erano chiamati "scelbini". I reparti mobili e la Celere erano normalmente dotati nel 1950 di autoblindo, mortai, mitragliatrici, bombe a mano. Le tecniche di intervento e i programmi di formazione erano modellati su quelli pianificati dallo Stato Maggiore della Difesa per difendere il Paese da eventuali attacchi di guerriglia comunista-. Non era poi così normale, nemmeno allora. «Nel 1947 il fatto che la forza pubblica intervenisse in piazza con moschetti e pistola aveva molto sorpreso un alto ufficiale inglese, il colonnello E. J. Bye, mandato in Italia per osservare come procedesse la ricostituzione della polizia. Il colonnello suggeriva di sostituire il moschetto con uno sfollagente, "molto più efficace per disperdere un assembramento". Il ministro Scelba tenne conto in modo singolaredelle considerazioni dell’ufficiale inglese: a partire dal 1949 dette ai poliziotti il manganello, senza togliere moschetto, pistola, bombe fumogene e tutto il resto: mitra, mitragliatrici pesanti, bombe a mano e perfino mortai». Quanto ai carabinieri, invitati dal ministro dell’Interno a dotarsi pure loro di manganello, rifiutarono, -preferivano continuare a picchiare con il calcio del fucile-. Continuiamo, prego. E’ in corso lo sciopero generale della provincia di Modena, -il 9 gennaio 1950 sei operai che manifestano davanti alle fonderie Orsi sono uccisi a colpi di moschetto e di mitra dalle forze di polizia intervenute per impedire l’occupazione della fabbrica. Non si saprà mai chi abbia dato ordine di sparare. Il prefetto propone che siano date onorificenze ai funzionari che hanno diretto l’ordine pubblico "in modo ammirevole"-, data la pericolosissima presenza -degli attivisti che gridavano "avanti compagni" in evidente esecuzione di un piano prestabilito- (sic, dalla letterainviata dal prefetto medesimo al Viminale). Ovviamente, -il processo si conclude nel 1952 con l’assoluzione di tutti gli imputati-, ovviamente. Altro che Grande Fratello. -Nelle questure erano schedati i malati di mente, gli alcolizzati, i mendicanti, le prostitute, gli omosessuali, i comunisti, gli anarchici, perfino gli antifascisti che avevano subito il carcere sotto la dittatura- (si appurerà che la schedatura di massa del Sifar -raggiunge i 157.000 fascicoli-). Ce n’eravamo dimenticati, sono passati cinquant’anni. A ricordare il clima alla Tambroni e simili ci pensa questo nuovo libro di Annibale Paloscia - Al tempo di Tambroni. Genova anni 60. La Costituzione salvata dai ragazzi in maglietta a strisce , (Mursia, pp. 299, euro 17,00) - che ripercorre, col filo della ricerca storica ma anche del cronista meticoloso, gli anni violenti del "tempo di Tambroni". Quel tempo breve e torbido che non è riassumibile nel mero arco del suo funesto governo - aprile-luglio 1960, quattromesi e un giorno - ma che ha rappresentato un periodo particolarmente grave per la democrazia italiana (la Destra riabilitata, il clerico-fascismo in campo). Capitolo per capitolo, la precisa, quasi minuta ricognizione dei fatti, dei personaggi, delle parole -ritrovati e ripresentati nel loro contesto, nella loro sequenza temporale - fa di questo lavoro una specie di instant-book nonostante gli anni trascorsi; un "com’eravamo" che non è solo una moviola all’indietro, un ben costruito flashback : piuttosto un memo, roba da non scordare, soprattutto oggi. Tambroni, ovvero nel nome della lotta al comunismo. Paloscia lo descrive utilizzando materiali d’epoca. Un tipico esponente del generone democristiano doc, «dagli abiti confezionati su misura dai migliori sarti e dai capelli impeccabilmente composti e lucenti; vanitoso, particolarmente sensibile all’adulazione»; un notabile marchigiano «che quando si sentiva attaccato reagiva "lanciando messaggi cifrati, enigmatici"»; e che nel1960 già celebrava il decimo anno di ininterrotta partecipazione al governo. E che dai suoi addetti stampa si faceva confezionare un ritratto che lo descrive come il rappresentante di -quella borghesia maschia e civile che si affaccia sui problemi sociali e politici senza infingimenti e senza paura, difensore strenuo e implacabile di quella invalicabile linea che distingue la nostra etica politica dal marxismo-. Costò caro. Lacrime e sangue (e purtroppo non in senso figurato). Sembrano fantapolitica, ma non lo sono, le pagine che descrivono il clima e gli uomini della Balena Bianca nell’imminenza dell’entrata in scena del governo Tambroni: terra di corsa delle varie correnti, tra Guerra Fredda e pressione della Chiesa, tra spinte moderne e impulsi reazionari sotto la ferrea cappa dell’Alleanza atlantica (cioé Usa). Tambroni, che nel ’46 approda all’Assemblea Costituente e che è una delle prime reclute della corrente gronchiana (sì, proprio quella che «condivideva il dissenso diDossetti sul Patto Atlantico e criticava De Gasperi perché teneva il freno sulle riforme sociali»), ma che poi -ha avuto una totale involuzione di pensiero-. Tambroni conservatore e clericale, amato dai neofascisti, paladino della lotta al comunismo. Paladino dell’ufficio Affari Speciali; paladino, in perfetta collaborazione con la Cia, del Gruppo Operativo (GO). E tutto in nome della sacra lotta contro il comunismo (no, pardon, in nome -degli interessi superiori del Paese-). Fautore della polizia forte, cultore della repressione di ogni «attività antinazionale» (scioperi e simili), nel 1956, mentre è lui ministro dell’Interno, la Celere spara in Lucania contro i braccianti che hanno occupato un campo, è ucciso Rocco Girasole, 20 anni; l’anno dopo a Brindisi, per disperdere una manifestazione di contadini, i carabinieri sparano e uccidono tre braccianti (alla Camera è lui in persona, Ferdinando Tambroni, a difendere il -giusto- operato delle forze dell’ordine). E sono sue le nuovedirettive del Viminale che, prospettando fantomatici -scioperi insurrezionali-, indicano di -attaccare arditamente, sbaragliando il nemico con impeto-. Tambroni non si tira mai indietro. Il mondo è sull’orlo del baratro, i marines sono sbarcati in Libano dopo il colpo di stato e gli inglesi ad Amman -in difesa- di re Ussein, Kruscev manda navi da guerra in esercitazione nel Mediterraneo. Il mondo è sull’orlo del precipizio. E lui, Tambroni, che fa? Lo illustra Paloscia a pagina 102. -A Roma viene arrestata Carla Capponi, medaglia d’oro della Resistenza. Tambroni ne dà in Parlamento questa versione: "Costei, gridava a piena voce, quasi in preda a crisi di eccitazione, le parole pace, pace, abbasso gli americani"-... "L’uomo tremebondo alla guida della Dc", si intitola così il primo dei capitoli che il libro dedica alla ricostruzione del periodo, breve ma convulso, che passa tra le dimissioni del governo Fanfani (gennaio 1959) e l’elezione di Tambroni a capo del governo (aprile1960). Con tanti passaggi e colpi di scena; con tutti i grandi consoli della Dc in campo; con i labirintici percorsi che da Santa Dorotea arrivano a quel congresso di Firenze che vede l’elezione di Moro ("l’uomo tremebondo") a segretario del partito, ma anche l’ascesa di un Tambroni inneggiante -all’assoluto isolamento- in cui relegare il Pci. L’"uomo nuovo" che piace tanto ad Almirante. Nasce dunque nell’aprile del ’60 il governo Tambroni, il monocolore inedito votato da neofascisti e monarchici. Il cruento braccio di ferro sul congresso che il partito di Almirante vuole convocare dal 2 al 4 luglio a Genova - la città-simbolo, medaglia d’oro della Resistenza, la città vittima della feroce repressione nazifascista - inizia praticamente subito, in piena concomitanza col suo governo. In giugno ci sono già i primi incidenti. Ne è allarmato lo stesso Saragat: «Il governo Tambroni è un governo pericoloso». Pci, Psi, Udi, Giovani comunisti, Anpi, Cgil incitano alla mobilitazione, "AGenova non si passa". Ed è qui a piazza Ferrari che all’improvviso si materializzano "le magliette a strisce". La Camera del Lavoro aveva indetto per sabato 25 giugno lo sciopero dei portuali con comizio in piazza Banchi. -La questura lo proibisce. L’imprudente divieto ha il risultato di far scendere in piazza, a fianco dei portuali, migliaia di giovani che indossano magliette a strisce». E’ proprio qui il loro debutto. «A Genova danno il nome alla generazione sconosciuta che scende in piazza per difendere la democrazia-. "A Genova non si passa", e resta memorabile il discorso di Pertini davanti a una folla di trentamila persone. Il congresso del Msi non si farà. Il governo cadrà di lì a poco. Ma dovranno venire le sparatorie di LIcata. Le selvagge cariche degli squadroni a cavallo di Porta San Paolo a Roma. Dovranno venire i morti di Reggio Emilia, Lauro Farioli, Marino Serri, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Afro Tondelli. Scrive Paloscia: -Chi ha dato l’ordine di sparare rimaneimpunito perché lo Stato dichiara,"nessuno ha dato l’ordine di sparare". Non può essere vero perché sono stati sparati una valanga di colpi: 182 di mitra, 39 di pistola-. Al tempo di Tambroni.Maria R. Calderoni La vecchia Italia reazionaria che non è mai morta Marco Revelli, il filo della memoria si è interrotto, è difficile spiegare oggi perché e a quale prezzo il movimento di piazza contro Tambroni e l’Msi è stato importante nella storia del paese, no? Il luglio ’60 è una data spartiacque nella storia della Prima Repubblica perché divide due periodi politici, e direi sociali, molto diversi tra loro. Tra il luglio ’60 e il luglio ’62 si colloca un biennio cerniera: da un lato, i fatti di Genova, dall’altro quelli di Torino, di piazza Statuto, del primo grande sciopero alla Fiat dopo sette anni di silenzio segnato da tre giorni di scontri in piazza tra il 10 e il 12 di luglio. Sono due datesignificative, rompono un clima politico, segnano la fine del centrismo e l’entrata in campo di nuovi soggetti sociali e politici: i ragazzi con le magliette a striscie di Genova e la nuova classe operaia a Torino, quello che sarà chiamato l’operaio massa. I due eventi preparano, ciascuno a modo suo, la svolta del centrosinistra e, dall’altra parte, registrano un risveglio del protagonismo sociale da parte di una nuova generazione, non più quella della Resistenza, ma i fratelli minori. Saranno loro i protagonisti di una nuova stagione dell’antifascismo, i nuovi partigiani, come ricorda la celebre canzone de I morti di Reggio Emilia . I ragazzi con le magliette a strisce sono la prima generazione postbellica ad affacciarsi nella politica. Sono un antecedente dei movimenti del ’68-’69, di nuovi soggetti che si vanno politicizzando oppure sono ancora una generazione che cresce sotto l’influenza delle forze organizzate, del Pci e del sindacato? Le magliette a striscesono davvero una generazione ponte tra i partigiani e i protagonisti del ’68. Sono cresciuti in una forte simbiosi con i protagonisti politici e sociali del ciclo precedente. I ragazzi con le magliette a strisce dei carrugi di Genova scendono in piazza a fianco dei camalli, dei portuali, dei loro fratelli maggiori. Sono la componente nuova di una generazione che prosegue una tradizione. Da tutto il nord Italia i partigiani convergono sulla città per unirsi a questi fratelli minori e difendere il proprio operato storico. Quelle due generazioni unite lottano assieme perché l’Italia repubblicana prodotta dalla Resistenza non dia cittadinanza politica al neofascismo. Il luglio ’60 è la resa dei conti prolungata della nuova Italia con la vecchia Italia. Il tentativo di Tambroni di costituire la propria maggioranza di governo con i voti tossici e velenosi dell’Msi rappresentava il ritorno ufficiale del vecchio. Molto diverso, invece, il protagonismo operaio di due anni dopo. I nuclei operaiche sono gli attori degli scontri in piazza Statuto, questi sì, sono l’antecedente diretto del ’68-’69. Sono l’oggetto sociale prodotto dal neocapitalismo, dal punto alto dello sviluppo tecnico, produttivo e sociale del nuovo modello industriale. Sono gli operai della catena di montaggio, non sono più l’operaio professionalizzato, altamente qualificato che era stato la spina dorsale della Resistenza, degli scioperi del ’43-’44 e del comunismo torinese dei primi anni Cinquanta. Quell’operaio era stato sconfitto nel ’55 con la sconfitta della Fiom alle elezioni di commissione interna, era stato annegato nel fiume di nuovo reclutamento operaio nelle campagne del meridione, di operai generici, comuni, non qualificati che avevano garantito alla Fiat una iperproduttività e una pace sociale per lunghi anni, per tutto il primo periodo del miracolo economico e della motorizzazione di massa. Nel ’62 esplodono i nuovi rapporti di potere del neocapitalismo. Quegli operai di tipo nuovo dimostranoche il neocapitalismo non è l’integrazione della classe operaia e anticipano il ’68-’69 operaio. Quindi abbiamo due generazioni molto ravvicinate, due eventi simbolici giocati entrambi sulla piazza, l’uno che chiude il ciclo del centrismo democristiano e che blocca il tentativo di costituire una maggioranza reazionaria, aprendo la strada al centrosinistra, l’altro che dimostra già i limiti del riformismo italiano, perché si batte non contro l’arretratezza del paese, ma nei punti alti del suo sviluppo. Il governo Tambroni non salta fuori dal nulla. Aveva sostegni tra gli industriali, nel Vaticano, in apparati dello Stato. Il suo tentativo era quello di sfondare la diga dell’antifascismo e di sdoganare l’Msi. Esiste un "tambronismo" delle classi dirigenti che ha la sua base sociale nella borghesia e la sua massa di manovra nei ceti medi. Non ne abbiamo la conferma con quanto accaduto nella Seconda repubblica, compreso lo sdoganamento degli ex missini? Assolutamentesì. Il luglio ’60 mette in luce la radiografia esemplare di questo paese, non solo dal punto di vista politico, ma anche sociale. Sotto la punta dell’iceberg rappresentato da Tambroni e dal suo progetto politico, c’era il consenso di un’Italia reazionaria che passava per il mondo confindustriale, per i notabilati, per la pubblica amministrazione. La stragrande maggioranza dei prefetti si era formata nell’apparato repressivo del fascismo. E anche per una parte consistente del ceto medio che non aveva digerito la cesura della Resistenza, non si riconosceva nella Costituzione e aspettava il momento della rivincita contro quella minoranza di massa che aveva fatto la Resistenza e dato vita alla Repubblica. Dietro Tambroni c’è una fetta grande di Italia reale, disponibile alla sovversione e anche all’illegalità. Alle sue spalle c’è una parte molto ampia di classi dominanti italiani pronte anche al tradimento costituzionale, sostenute dall’alta borghesia e dal ceto medio. L’Italia sociale chesi riconosceva in questo progetto era persino più ampia della sua rappresentanza politica. La spaccatura passava attraverso la Dc secondo un rapporto che, per certi versi, sovrastimava persino la sinistra democristiana rispetto al suo stesso elettorato. Tambroni rappresentava un torbido processo di sovversione che si opponeva persino al timido progetto riformatore del centrosinistra, che in fondo era anche un progetto per dividere il movimento operaio cooptandone una parte, il partito socialista, in funzione modernizzatrice. La parte della Dc che immaginava di allargarsi a sinistra aveva come obiettivo una semplice modernizzazione capitalistica del paese. Questo era anche il progetto del Psi (tranne l’ala di Riccardo Lombardi che aveva un’idea di uso rivoluzionario delle riforme). Ma pur in presenza di spinte progressiste così deboli quell’altra Italia era disposta a spingersi fino al limite del colpo di Stato. I fatti del luglio ’60 dimostrano quanto in Italia, anche per realizzaretimide politiche modernizzatrici, ci sia bisogno di una rottura rivoluzionaria. Ci sono voluti i morti in piazza, le insurrezioni, fino a sfiorare lo stato d’assedio per produrre le pallide riforme del centrosinistra: cioè la nazionalizzazione dell’energia elettrica, una timida programmazione economica, una mancata riforma urbanistica e una politica dei redditi quasi tutta a favore del padronato. Ciononostante quel blocco reazionario continuò a lavorare sottotraccia. E’ quello che produce il Sifar, che arriva a sfiorare la presidenza della Repubblica con Segni, che si esprimeva attraverso giornali infimi come lo Specchio, un foglio finanziato dai servizi segreti. È l’Italia che avrebbe prodotto lo stragismo e la P2 e che riemerge in questo inizio di millennio e per certi versi ottiene una vittoria postuma. Tonino Bucci
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