Silenzio sui profughi eritrei
 







Stefano Galieni




È tornato il silenzio sui profughi eritrei rinchiusi ancora nel carcere di Bakr, a 80 km da Sebah nel sud della Libia, in pieno deserto. E nel silenzio non sono ancora chiari alcuni elementi essenziali della vicenda: ad una prima ricostruzione sembrava si trattasse di circa 250 persone coinvolte, ma secondo alcune fonti sono almeno 400, e molti sono anche feriti gravemente e debilitati dalla detenzione. L’allarme lanciato nei giorni scorsi da quell’inferno dove - secondo i reclusi - si è proceduto ad un uso sistematico della tortura, aveva scosso una parte dell’opinione pubblica e dei media provocando anche l’intervento del Commissario Europeo Hammarberg. Il governo italiano, su pressioni europee è intervenuto senza voler urtare la suscettibilità di Gheddafi né mettere in discussione i presupposti del trattato di amicizia italo libico in gran parte incentrato sul "contrasto alla immigrazione illegale", nei fatti argine ad uno dei pochi canali difuga per chi scappa da paesi i guerra o governati da dittatori come quelli del Corno d’Africa e di alcuni paesi dell’Africa Sub sahariana. L’accordo informale a cui sono addivenuti i due governi prevede che i profughi eritrei che si lasceranno identificare non saranno espulsi ma, come migranti economici, verranno "integrati in programmi di lavori socialmente utili". In pratica senza alcuna forma di tutela - le organizzazioni umanitarie internazionali e gli osservatori non sono molto graditi in Libia - coloro che accetteranno l’accordo verranno dispersi nei vari campi di lavoro, previo confronto con i funzionari dell’ambasciata eritrea a Tripoli. Ovvero dovranno incontrare i rappresentanti del regime da cui fuggono in cerca di protezione internazionale. Ad oggi il gruppo di profughi che dal 30 giugno sono detenuti perché hanno rifiutato l’identificazione e il rimpatrio, non sono stati ancora rilasciati e si ignora quali siano le loro condizioni di salute. Secondo fonti non confermateuna parte consistente firmerà l’accordo pur di uscire da quell’incubo, alcuni sembrano intenzionati a resistere. Da più istanze si chiede che una delegazione internazionale possa visitarli anche se per il ministro Maroni, dopo l’accordo il problema non sussiste più se non come questione che deve riguardare l’Unione Europea. Secondo gli attivisti del gruppo EveryOne si tratta di un accordo contrario alla legislazione internazionale in materia di diritti umani, perché di fatto sancisce una forma di punizione alternativa al carcere che non offre alcuna garanzia (salario, condizioni di lavoro, sistemazione in alloggi ecc..). Per Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia che per prima ha lanciato l’allarme «in Libia non esiste il diritto di asilo quindi è necessario che i profughi siano accolti in Europa, in particolar modo in Italia». EveryOne e Habeshia si rivolgono all’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Navy Pillay e all’Alto Commissario Onu per i Rifugiati Antonio Guterres,affinché vigilino sui diritti dei profughi, dei minori coinvolti e delle rispettive famiglie. Il capo della missione OIM in Libia Laurence Hart ha dichiarato che la soluzione è stata individuata dalle autorità libiche "per integrare gli immigrati eritrei in attività di lavoro socialmente utile, come è stato fatto in passato nel caso di altri immigrati somali". Tutti dovrebbero sapere però la sorte di sfruttamento sistematico e di abusi quotidiani a danno dei somali e degli eritrei in Libia, come si ricava dai rapporti di Human Rights Watch e di Amnesty International . E come gli eritrei anche i somali avrebbero avuto, ed hanno diritto, ad ottenere tutti non solo un permesso di soggiorno per lavoro, magari in una condizione di grave sfruttamento, ma il riconoscimento dello status di protezione internazionale, e dunque della libera circolazione. Sarebbe necessario un intervento dell’Achnur che però ha pochissimi spazi di agibilità in Libia.









   
 



 
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