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Sono un uomo di 46 anni e lavoro da oltre 20, anzi lavoravo perché da alcuni mesi sono a casa. Non sapevo cosa fosse quello che i medici definiscono "disturbo dell’adattamento (Dda) o disturbo post-traumatico da stress (Dpts)", insomma vere e proprie patologie causate dalla condizione di lavoro. Ci si può ammalare di lavoro? Direi proprio di sì, come ci possiamo ammalare in assenza del lavoro. Questo ci dice che c’è un "lavoro dal volto umano" che non sembra avere più cittadinanza in questa società. Vorrei raccontarvi la storia omettendo particolari privati che mi renderebbero riconoscibile mettendo in imbarazzo familiari e parenti, quei pochi colleghi che sono stati di aiuto. Tutto è partito due anni fa, quando l’amministrazione comunale dove lavoravo ha deciso di costituire una società in house . Da un giorno all’altro nonostante un grave infortunio sul lavoro, una causa di servizio intentata, vengo trasferito alla società in house .Tenete conto che a 20 anni ho vissuto una logorante vicenda di esternalizzazione nel settore privato: lavoravo in una fabbrica che è stata venduta e, nonostante le rassicurazioni, i più giovani, gli ultimi assunti per intenderci, si trovarono di fronte ad un ricatto: o ti trasferisci a 400 chilometri da casa o il licenziamento. Scioperi, presidi servirono a poco, limitammo i danni ingannati anche dal sindacato che fece una trattativa al ribasso disposto a perdere per strada qualche lavoratore. E così ci trovammo nelle liste di mobilità da cui fummo chiamati per due posti come operai generici nel Comune. Per noi fu una fortuna ma a ripensarci bene, se avessimo contrastato allora i processi di privatizzazione, oggi non ci troveremmo nelle condizioni in cui siamo, deboli, rassegnati e divisi. I miei quasi 20 anni al Comune sono stati tranquilli, ho messo su famiglia, mi sono separato, ho lasciato la casa presa con il mutuo alla ex moglie e ai figli. Insomma, un bilancio tutto sommatopositivo, anche grazie alla mia nuova compagna. Quando il Comune ha costituito la società non ci abbiamo capito niente. I Cobas si sono opposti , il segretario provinciale della Cgil contrario e quello aziendale favorevole, una grande confusione e noi nel mezzo. Ho avuto paura di perdere il posto fisso, di ricominciare l’odissea vissuta a 20 anni e subìta dalla mia compagna che per 10 anni è stata precaria prima di essere stabilizzata. Ho intentato una causa per la riassunzione in Comune. La causa ha avuto esito negativo. Nel frattempo, ogni giorno ero sempre più provato. E’ iniziata la depressione, gli attacchi di panico al mattino prima di andare al lavoro, il ricovero in ospedale e un anno di cure. Il trasferimento alla società in qualche modo rappresentava un demansionamento perché andavo a svolgere funzioni che competevano ad un livello inferiore. Non ho voluto 1.000 euro di buona uscita, sono orgoglioso. So che mi avrebbero fatto comodo ma non ho ceduto. Ora sto per superareil periodo di comporto e il 1° marzo se non rientrerò al lavoro mi licenzieranno. Vi racconto questa storia perché si rifletta sul mobbing che altro non è se non un malessere causato dalla precarietà, dai cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro che mettono a rischio le nostre certezze. Il mobbing non è una condizione individuale, un malessere vissuto da alcuni. E’ una condizione sociale che viene determinata dall’aberrazione del processo lavorativo. Vorrei dire a tutti di non scoraggiarsi e di non cadere nella depressione, di non mollare ma non possiamo essere soli. Non basta un sindacato che si occupi solo degli aspetti formali. Vogliamo un sindacato che sia al nostro fianco sempre e non solo per concludere accordi. Il lavoro deve rappresentare un momento della dignità della persone. E invece sta diventando sempre di più un momento del suo calvario. Il mobbing dovrebbe rientrare nella salute la sicurezza sul lavoro. E invece viene derubricato a disagio psicologico. E, quel che èpeggio, individualizzato e decontestualizzato. Se si verificano fenomeni di mobbing non è solo perché ci sono personaggi persecutori. C’è un contesto generale in cui, tra privatizzazioni e definitiva scomparsa di una mission produttiva in nome dell’arricchimento facile attraverso la finanza, sta cambiando la natura del lavoro.
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