Pietro Raitano: -I lettori stanno dimenticando che l’informazione libera si paga-
Intervista con il direttore del mensile Altreconomia
 







Daniele Nalbone




Pietro Raitano

Pietro Raitano è il direttore del mensile Altreconomia. Fondato nel  novembre del 1999, da oltre dieci anni la rivista è un vero e proprio caso  editoriale: nessun proprietario, ma oltre 450 soci. E una linea editoriale  che va oltre la "semplice" informazione: -ogni mese- ci spiega Raitano  -suggeriamo scelte, cercando di orientare consumi e comportamenti e  favorire la consapevolezza e la partecipazione agli avvenimenti locali e  globali-.
La prima domanda è, come dire, d’obbligo: perché impegnarsi in prima  persona e prendere parola "per Liberazione"?
Perché in un assordante silenzio di fondo stiamo assistendo, da tempo,  all’annullamento dell’informazione indipendente. Senza clamori, con un  processo lento e subdolo, le voci libere del panorama mediatico italiano  stanno morendo. I motivi sono molteplici: mancano soldi, manca pubblicità,  e sta venendo a mancarel’attenzione del pubblico. Il tutto dietro  l’attacco del governo e dell’imprenditoria che vuole ridurre l’informazione  a strumento del marketing e della classe politica. E allora per chi ha a  cuore l’informazione indipendente e libera è inevitabile sostenere  Liberazione anche affermando cose che il lettore non vorrebbe leggere. Ad  esempio, che i lettori stanno dimenticando che l’informazione si deve  pagare.
Il riferimento dell’informazione gratuita è alla rete?
A internet ma non solo. Personalmente reputo ben più pericolosa la minaccia  della televisione. La gente ormai si informa unicamente tramite i  telegiornali e i talk show politici, che tutto sono fuorché informazione. E  di certo non indipendente. Il rischio di internet, a mio avviso, è meno  pericoloso se non per l’idea di "gratuità" dell’informazione indipendente  che sta instaurando in molte persone: almeno la gente sa che il canone televisivo lo paga. L’informazione, invece, ha dei costi e non è vero che  chiunque può essere un giornalista come invece potrebbero far credere blog  e portali. In primis perché, come saper scrivere non basta per essere un  poeta, saper scrivere non basta per essere un giornalista, una professione  per la quale sono necessarie specifiche competenze. Quindi perché il  giornalismo, prevedendo lavoro umano e tempo, costa. Così sulla rete  appaiono sempre di più informazioni partorite e lette con velocità e  superficialità, non paragonabili all’informazione che si può avere leggendo  dei giornali. In poche parole: le inchieste non si fanno riempiendo delle  pagine web. Detto questo, gli utenti internet dovrebbero ricordarsi sempre  che in realtà pagano anche l’informazione via web. Solo che non pagano i  giornalisti ma i provider, le compagnie telefoniche. Così accade che i  soldi che si potrebbero destinare ai giornalistifiniscono a chi  distribuisce dei non-articoli. È un po’ come i soldi che vanno alla grande  distribuzione dalla quale compriamo i prodotti agricoli, ma non agli  agricoltori.
In questo scenario, la questione che più sta tenendo banco sia fra i media  mainstream che fra quelli indipendenti è l’emergenza rifiuti. Ma si può  definire, giornalisticamente, "emergenza" un fenomeno che dura da oltre  venti anni? A che gioco stanno giocando i grandi media?
A un gioco dei nostri tempi, con il giornalismo ridotto a marketing: e  quando un organo di informazione deve fare marketing, non può fare altro  che utilizzare i toni della pubblicità. Così si parla di emergenza rifiuti  anche se questa dura da venti anni. Perché parlare di cronicità non è  altrettanto "appetibile" quanto parlare di emergenza. Detto questo, poi,  ovunque sentiamo che presto potrebbe esserci un’emergenza rifiuti a livello  nazionale, e alloravia a nuovi inceneritori a causa della sovrapproduzione  di rifiuti urbani. Peccato però che i rifiuti solidi urbani sono, in  Italia, circa 30-40 milioni di tonnellate l’anno, mentre i rifiuti speciali  sono oltre i 130 milioni di tonnellate. Ebbene, di questi 130 milioni  provenienti da fabbriche, aziende agricole, cantieri edili, circa 30  milioni di tonnellate ogni anno spariscono nel nulla. E sono proprio questi  rifiuti speciali a inquinare in maniera maggiore e, purtroppo, definitiva.  A ciò si aggiunge il fatto che nessun sistema è in grado di monitorare  questo traffico di rifiuti speciali. Risultato, se a Napoli parlare di  emergenza rifiuti è in realtà parlare di una contingenza particolare  arrivata a un livello ormai cronico, in tutto il paese dovremmo fare, e non  facciamo, i conti con una gestione criminale del ciclo dei rifiuti.  Soprattutto dei rifiuti speciali che non sono un problema locale, come i rifiuti urbani, ma nazionale visto che questi possono essere spostati  avanti e indietro per tutta Italia. Risultato: solo per fare un esempio, se  entro marzo 2011 la discarica di Pioltello, nell’hinterland milanese, non  verrà bonificata l’Unione Europea ci comminerà una multa di 500 milioni di  euro. Circa 200mila euro al giorno. E questa non è immondizia di casa mia,  che potrei riciclare, ma rifiuti speciali prodotti da questo modello di  sviluppo. Immaginate una trasmissione nazionale su questo tema?  Impossibile. Ecco perché dobbiamo difendere Liberazione.
Nella crisi dei media "di sinistra" e della sinistra che stiamo  attraversando, ci sono però degli elementi che fanno, diciamo così, ben  sperare: dal 16 ottobre alla situazione di Terzigno, passando per i  movimenti territoriali e in difesa dei beni comuni, tutti sono giunti alla  necessità di un altro modello di sviluppo improntato sulla sostenibilità. Cosa ne pensa, sia dal punto di vista giornalistico che, visto il suo  ruolo, "altreconomico"?
Senza entrare nei massimi sistemi, tutte le mobilitazione odierne sono  incentrate sul concetto di "democrazia", che siano vertenze lavorative o in  difesa dei beni comuni, fino ad arrivare alle rivendicazioni studentesche.  E poiché è indubbio che vi sia un doppio filo che lega democrazia e  informazione, possiamo dire che da Pomigliano fino alle vertenze locali  finché non abbattiamo un sistema che concentra ricchezze anziché  distribuirle, finché non lottiamo per una nuova politica che non sia aiuto  alla ricchezza dei pochi del mondo, tutto, dall’informazione al lavoro ai  beni comuni, continuerà ad essere minacciato. Ma un’alternativa a questa  minaccia quotidiana c’è, e non è altro che ciò che raccontavamo già undici  anni fa, quando è nata Altreconomia. Ci davano degli avanguardisti, ci  tacciavano di esseremovimentisti ma tutto ciò di cui parlavamo allora,  dalla filiera corta alla finanza etica, oggi sono per tutti le risposte  all’attuale crisi del sistema economica. Purtroppo, però, di fondo, pur  sapendo ognuno di noi qual è la soluzione siamo ancorati a una vecchia  cultura che ci fa dire che "l’economia non può che andare così". Ebbene,  oggi, in Italia, ci sono decine di piccoli esempi, dai Gas ai Comuni  Virtuosi, di come le cose possono essere fatte in maniera alternativa. Sta  ai media indipendenti raccontare quest’altra Italia. Far sì che tutti  comprendano che l’economia può essere altro che finanziarizzazione di ogni  bene comune.









   
 



 
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