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Wikileaks: -Rivolta pianificata negli Usa- |
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Daniele Zaccaria
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E così la rivolta di piazza che sta facendo tremare le fondamenta del regime egiziano prefigurando uno tsunami geopolitico in tutta l’area del Medio Oriente, sarebbe stata pianificata negli Usa tre anni or sono. E’ quanto sostiene il sito investigativo Wikileaks che cita almeno tre dispacci dell’ambasciata statunitense del Cairo che risalgono al 30 dicembre 2008. Questi cabli sono stati pubblicati ieri dal quotidiano britannico Telegraph che descrive un incontro avvenuto a Washington tra un «giovane dissidente» egiziano del movimento "Sei aprile" il cui nome è ovviamente coperto dall’anonimato e alcuni funzionari del Dipartimento di Stato nordamericano. Il «piano di transizione» prevedeva l’alleanza tra diversi gruppi dell’opposizione politica egiziana allo scopo di provocare un changing regime nel paese delle piramidi e instaurare un governo democratico con più poteri al Parlamento per riequilibrare il dominio della presidenza e delle forzearmate. Un piano molto delicato, tanto che i suoi architetti decisero di non metterlo per iscritto. Quel che più impressiona però è la tempistica: la rivolta sarebbe infatti dovuta scoppiare proprio nei primi mesi del 2011, come effettivamente sta accadendo in queste convulse giornate. Non è chiaro però quanti e quali elementi dell’amministrazione Usa sostenessero la necessità di rovesciare il regime di Hosni Mubarak e chi al contrario continuasse a sponsorizzare il vecchio compagno di merende. Di sicuro l’ambasciatrice Margaret Scobey, pur essendo in linea teorica favorevole alla rivolta, non era molto convinta dell successo dell’operazione, al punto da definirla «poco realistica». In tal senso le nuove rivelazioni di Wikileaks mettono in luce le difficoltà della diplomazia Usa e i suoi contraddittori posizionamenti: nel 2010 gli Stati Uniti hanno fornito 1,3miliardi di dollari di aiuti militari all’Egitto ma al contempo sono tre anni che finanziano i movimenti dell’opposizionedemocratica. Prendiamo, ad esempio, quanto è stato detto solo nell’ultima settimana. Molto istruttive (e stranianti) le dichiarazioni ufficiali di venerdì scorso: il vicepresidente Biden affermava infatti che il regime di Mubarak «non è affatto una dittatura», spendendo parole comprensive nei confronti del "faraone", storico alleato degli Stati Uniti ed elogiandone la «stabilità». Poche ore dopo è intervenuta la Segretaria di Stato Hillary Clinton, esortando il Cairo a «ritirare polizia ed esercito dalle piazze e a ripristinare l’uso di internet». La stessa Clinton sembra essere stata costretta a correggere il tiro dopo che martedì aveva definito Mubarak «un politico saggio e affidabile». Cosa accade dunque a Washington e dintorni? Difficile stabilire i rapporti di forza all’interno dell’amministrazione democratica e tra le varie agenzie di intelligence; è certo però che oltreoceano la "questione egiziana" sta creando divisioni che un tempo sarebbero state irrealistiche. Prestandofede alle parole del presidente Obama, il quale ha a più riprese criticato i metodi dispotici con cui Mubarak sta gestendo la crisi, evocando «riforme politiche ed economiche», si può supporre un cambiamento di rotta da parte degli Stati Uniti. Se lo schema bushista della guerra infinita aveva bisogno di regimi autoritari come Egitto e Arabia Saudita come teste di ponte per esercitare la propria egemonia nel mondo arabo-islamico, la neo-diplomazia obamiana, pur faticando a chiudere il bellicoso decennio post-11 settembre (vedi la chiusura Guantanamo rinviata alle calende greche e il proseguimento della guerra in Afghanistan), cerca probabilmente altri interlocutori e ha bisogno anch’essa di nuove sponde politiche. Anche a rischio di tirare la volata a movimenti religiosi come i "Fratelli musulmani", principale gruppo di opposizione in Egitto e principale argomento impugnato dalla destra Usa, graniticamente schierata con Mubarak. Le parole di Biden e le giravolte di Clinton dimostranoallo stesso tempo che i riflessi pavloviani legati ai vecchi schemi sono duri a cadere.
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