Sulla Libia non è cronaca di guerra ma vaticinio dell’invisibile. Il mondo occidentale tecnologico inciampa sul medioevo dell’autoritarismo più caricaturale. Se non sai non pensi, se non vedi non ti emozioni, se non sai e non vedi non partecipi e non solleciti. In Libia e nel mondo. Lo sanno i despoti dell’arretratezza che impongono la censura e l’isolamento, lo sanno i Premier delle democrazie occidentali fragili che, con sistemi più sofisticati, cercano di porre sotto controllo l’informazione. Potere "terzo" oltre quello della magistratura. Al Jazeera batte Mubarak. Probabilmente, se non ci fosse stata la televisione araba Al Jazeera, Mubarak sarebbe ancora oggi al potere. E’ stato il conoscere interno, aiutato dalla tecnologia dei satelliti e dalla rete internet a trasformare una rivolta di popolo affamato in rivoluzione. Lo sapevano talmente bene gli scherani del Rais che hanno più volte provato a bloccare tecnicamente e fisicamente queigiornalisti. Ammazzandone qualcuno. Ma la comunicazione trasversale e incontrollabile dei video-telefonini e di internet ha disarmato anche quel formidabile apparato repressivo. Prima era toccato alla Tunisia, altro paese del nord Africa ormai permeato dai nuovi strumenti di comunicazione telematica. Restano incompiute e sofferenti le sommosse popolari in corso in Algeria, nello Yemen, nel Bahrein. Quella rabbia, quelle sofferenze restano prigioniere in casa, senza ricevere alimento da ciò che accade attorno e senza poter alimentare la partecipazione altrui. La Libia è altra cosa. La geografia va sempre a braccetto con la storia. Sette milioni di libici abitano un Paese grande sei volte l’Italia. Quattro abitanti per chilometro quadrato. Salvo essere sostanzialmente concentrati nelle tre principali città: Tripoli, Bengasi e El Beida. Qui subentra la storia. Antichi equilibri tribali ci raccontano che la Cirenaica, Bengasi quindi ed El Beida, sulla costa verso il golfo della Sirte,sono legati alla monarchia rovesciata da Gheddafi nel 1969. Tradizionalmente ribelli al potere di Tripoli, la fedelissima. La città del potere politico-militare e della burocrazia legata al Colonnello. Un controllo capillare sull’intero Paese da parte sua. Sulle persone e sui sistemi di informazione e comunicazione. Altra differenza, il relativo benessere della popolazione grazie ad una intelligente strategia nella redistribuzione delle rendite energetiche. Politica degli interessi petroliferi e del gas che vedono l’Italia principale cliente. Telecamere contro cannoni. Il racconto dei fatti come elemento prevalente su trame politiche e militari è figlio della storia. Abbiamo memoria di epopee di popoli raccontate sempre dal punto di vista del vincitore. Omero è il primo reporter “embedded” quando ci racconta, in esametri splendidi, la guerra di conquista degli Achei-greci contro Troia-persiana. Le corna di Menelao e le scarse virtù di Elena a gabellare una classica guerra diconquista. In tempi moderni abbiamo la teoria lucida della “Idealpolitik” che deve sempre vestire la cruda “Realpolitik” di ogni guerra. Condizionandone il racconto. Con qualche eccezione di nobiltà. Piccola memoria personale, la guerra in Bosnia e l’assedio di Sarajevo. Venti anni fa e già appare preistoria. Allora, sotto il tiro delle forze preponderanti dei serbo-bosniaci di Karadzic, la sola difesa reale che salvò la città furono gli obiettivi delle nostre telecamere, puntati a raccontare contro obici e cecchini assassini. L’Italia “araba”. Pro o contro Berlusconi che uno possa essere, l’attualità non appare certo nobilitante. Lo dimostra il ritratto che fa il “Financial Times” della nostra classe politica. «Un paese europeo che ha caratteristiche da mondo arabo». Letta da Londra l’Italia «E’ controllata da una classe gerontocratica blindata in politica e in economia che costringe i giovani migliori ad espatriare per l’Europa». Poi la descrizione del satrapo, modello arabo, dicasa nostra. «E’ immensamente ricco, controlla molti media ed è circondato da yes man. Sfida apertamente i giudici ogni volta che lo indagano. E’ pappa e ciccia col dittatore Gheddafi». Un osso duro, ammette il prestigioso quotidiano, come ogni buon autocrate. Finale? «Mubarak, l’ex dittatore egiziano avrebbe dovuto chiedergli consiglio. Ora il premier italiano dovrebbe indire le elezioni e chiudere la non edificante commedia. Così sarebbero gli italiani a ridere ultimi». Libera informazione in libero Stato, finché dura.ami
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