Un Paese da sogno

 







di Rosario Ruggiero




Più di una volta la linea di separazione tra sogno e realtà appare assai esigua, in alcuni casi ciò che è autentico può apparire incredibile, in altri, ciò che solo immaginiamo, ci sembra di toccare quasi con mano. Succede ed è successo a tutti, e può accadere in ogni ambito, anche in quello musicale. Per questo mi auguro sia sicuramente un sogno la vicenda di un Paese di massima tradizione musicale, che nell’arte dei suoni ha illuminato per secoli il mondo intero, un Paese ricco di teatri, padre di forme e generi musicali gloriosi, un Paese che diede origine agli istituti per l’insegnamento della musica, che ebbe illustri scuole di strumentisti, eccellentissimi cantanti, compositori geniali ed innovativi in generosa copia, straordinari costruttori di strumenti musicali dai pregi inarrivabili, un Paese dove furono inventati e perfezionati strumenti ancor oggi di importantissima letteratura musicale, che nelle sue biblioteche e in altre sue raccolteconserva tesori e rarità musicali ancora da scoprire, ma che poi, purtroppo, dopo aver fatto scuola nel mondo, si è fatto via via culturalmente colonizzare da civiltà più giovani che lo hanno grandemente spronato ad una musica fortemente d’evasione, all’uso dei suoni per la creazione di fenomeni ben più strettamente sociologici che estetici, alla generazione di sconcertanti episodi di mitizzazione mediale, un Paese che, anziché far tesoro della sua inimitabile, ammiratissima tradizione, cominciò a trascurarla e ridurre sempre più le occasioni di buona musica per riservarle istituzionalmente a pochi ambiti sostenuti più per doveroso rispetto di una invidiabile, incontestabile cultura che per sensibile opera di protezione, evoluzione e investimento economico e civile, un Paese dove l’attività più artisticamente intesa con i suoni langue relegata sempre più ad ambiti leggeri, dove gli enti musicali vivono di un patrimonio passato che ben raramente rinnovano con opere nuove o proponendocomposizioni antiche differenti ma altrettanto esemplari, al punto che ogni volta che questo succede viene necessariamente presentato come evento eccezionale, un Paese dove i musicisti, dopo lunghi anni, escono dalle scuole con un titolo di studio ma senza alcuna concreta prospettiva di lavoro, ma soprattutto, un Paese dove i più ignorano anche completamente tutto ciò e dove il pubblico, per mancanza di concreta cultura musicale e penuria di confronti di ascolti, frequenta i teatri e gli auditorium sostanzialmente per mondanità, avvicinandosi all’ascolto con un ovvio timore reverenziale che eccita l’esercizio di potere di alcuni dotti, ed applaude ad ogni cosa, senza alcuna convinzione, seppur l’abbia annoiato, credendo non aver saputo apprezzare un capolavoro di esecuzione che, invece, se lo ha tediato, è perché era tutto fuorché un capolavoro di esecuzione, ma, osservando tutti gli altri spettatori presenti applaudire, non immaginando che tanto spesso si trovano nella sua stessacondizione, si unisce al gregge umiliandosi in cuor proprio di essere stato l’unico a non aver saputo cogliere la bontà di quell’evento, un Paese infine dove l’assegnazione  dell’opportunità concertistica avviene perché la carica di direttore artistico, cioè di colui che principalmente stabilisce la programmazione e tutela il prestigio dell’istituzione e la fruizione del pubblico, è carica così ambita che è meglio invitare nomi già chiaramente affermati o accontentare chi può garantire la conservazione di quel ruolo che chiamare artisti selezionati per personale ascolto e sforniti di quei curricoli altisonanti che deresponsabilizzano da qualunque possibile insuccesso, sì da ingenerare un incredibile paradosso estremamente bizzarro, quello che per poter suonare bisogna essere chiamati e per poter essere chiamati bisogna aver già suonato molto. Mi auguro vigorosamente che tutto questo sia solo un sogno, e se mai lo fosse, che sia dei migliori, di quelli cioè che spingendoci ariflettere, possano aiutarci a migliorare il mondo.









   
 



 
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