Applausi
 











Se anche non fosse successo altro, all’assemblea annuale di Confindustria svoltasi sabato in terra bergamasca; se la sola impronta politica di quella per altro noiosissima assise fosse venuta dall’applauso spontaneo e sincero che la platea ha riservato al signor Herald Espenhahn, ciò sarebbe d’avanzo per esprimere un giudizio, secco e definitivo, sulla qualità morale e politica della borghesia industriale italiana. Sì, perché l’amministratore delegato della Thyssen Krupp, pochi giorni or sono condannato dal tribunale di Torino a sedici anni di carcere e a pesanti sanzioni accessorie per avere “volontariamente” causato la morte orrenda di sette operai arsi vivi nel rogo dello stabilimento piemontese della multinazionale tedesca, è stato accolto, con sincero empito solidale, da un mondo padronale da sempre abituato a non rendere conto della colossale catena di omicidi sul lavoro che si consumano, con ossessiva, quotidiana cadenza, nel nostroPaese.
La Thyssen, a ridosso della sentenza, si era detta sorpresa per l’«incredibile» durezza del verdetto e aveva apertamente minacciato di disimpegnare i propri investimenti in Italia, considerato che la falcidia per incuria di vite operaie avrebbe comportato, d’ora in avanti, rischi consistenti per la proprietà. Ora accade che il Gotha dell’industria italiana, a freddo, faccia eco a quelle ciniche affermazioni e le traduca in un costernato grido d’allarme. Il discorso di Espenhahn è stato giudicato, dalla gran parte di quel consesso imprenditoriale «di assoluto buon senso». La consapevole omissione di misure di sicurezza previste dalla legge, l’esposizione dei lavoratori a rischi fatali, giocare alla roulette con la loro vita per non mettere mano al portafogli è dunque considerato da coloro che aspirano ad ergersi a classe dirigente nazionale un peccato virtuale, una colpa - se di colpa proprio si vuole parlare - veniale, asciugabile con un’ammenda o, nella peggiore dellaipotesi, con un modesto risarcimento alle famiglie delle vittime, quando non si sia riusciti, nel processo, a rovesciare sui morti le responsabilità proprie. Ci ha poi pensato Emma Marcegaglia ad interpretare questo commendevole stato d’animo, osservando che la sentenza torinese rappresenta «un unicum» in Europa. Come per alzare un fuoco di sbarramento, una diga intorno ad un pronunciamento giudiziario considerato non già come un fatto di giustizia, ma come un atto ostile verso l’intero mondo imprenditoriale. E per scongiurare che quell’evento possa davvero inaugurare un atteggiamento della magistratura finalmente incline a considerare le ragioni del profitto subordinate e non sovraordinate alla vita umana e alle ragioni della competitività e del profitto, esattamente come in termini perentori stabilisce la Costituzione italiana e, precisamente, quell’articolo 41 che Berlusconi vorrebbe stracciare. Insomma, un precedente pericoloso, da arginare prima che possa fare scuola.
Di più:l’odioso riproporsi di un campo di battaglia fra capitale e lavoro, là dove il conflitto era stato così faticosamente estirpato; in definitiva, la lotta di classe reintrodotta nelle relazioni sociali per via giudiziaria. Per questo l’affermazione della signora Marcegaglia, che ha ribadito «il totale ed assoluto impegno delle imprese sulla sicurezza» appare, in questo contesto dal sapore ottocentesco, paradossale. E, ancor peggio, un insopportabile esercizio di ipocrisia. Anche perché appaiato all’altra grottesca tesi secondo cui se la sentenza di Torino preludesse ad una vulgata giudiziaria «sarebbe messa a repentaglio la sopravvivenza del tessuto industriale».
Ora ci è tutto perfettamente chiaro, signori padroni del vapore (perché esattamente quello siete rimasti): voi volete dettar legge nei luoghi di lavoro, dove pretendete di applicare contratti imposti sotto dettatura, azienda per azienda, quando non vi riesce di cucirli su misura al singolo lavoratore; poi protestate per letasse che ancora pagate, chiedendo che il governo si sbrighi a cancellare l’Irap, e che a nessuno, beninteso, venga in mente di varare un’imposta patrimoniale capace di redistribuire un po’ del superfluo che gronda dalle vostre tasche. Infine, chiedete ulteriori tagli alla spesa sociale, a quel colabrodo di welfare ridotto talmente male da non riuscire più a garantire una pensione appena decente alle generazioni più giovani, già in lotta estenuante contro la precarietà economica ed esistenziale che devasta il loro presente. Non una parola, invece, riuscite a pronunciare contro la mastodontica evasione fiscale, della quale siete attori protagonisti, non occasionali comparse.
Siete rimasti la borghesia stracciona di un tempo, intrinsecamente incapace di rappresentare qualcosa che abbia a che fare con l’interesse generale. E se questo Paese si è meritato di essere sino ad oggi governato da Berlusconi è anche grazie alla vostra immorale protervia antioperaia e alla vostra estraneitàalla Costituzione.
Del resto, come ognuno sa, non l’avete né voluta nè conquistata voi.

APPLAUSI 2
Il direttore di Confindustria, Giampaolo Galli, ha ritenuto di doversi scusare con i familiari delle vittime del rogo della Thyssen Krupp e con l’opinione pubblica che si sono sentiti «colpiti e offesi» per l’applauso (una vera ovazione) che l’assemblea generale di Confindustria ha riservato ad Harald Hespenhahn, amministratore delegato del gruppo industriale tedesco. Atto doveroso, non so dire se scontato, ma immediatamente bilanciato dall’affermazione successiva, che recita testualmente così: «Quell’applauso va capito, perché è spontaneo in una platea di imprenditori e perché le imprese sono preoccupate per l’estrema incertezza del diritto in Italia». Preoccupate di cosa? E perché proprio ora? Non risulta che la pressoché totale impunità garantita in questi anni agli imprenditori che si sono resi responsabili digravissimi infortuni sul lavoro, abbia mai generato apprensione o «incertezza del diritto» nel padronato italiano. Questa angoscia che morde la vocazione imprenditoriale, sino a rischiare di comprometterne la propensione all’investimento, sarebbe invece provocata dall’applicazione, inconsueta quanto rigorosa, della Costituzione. La quale prescrive che l’iniziativa imprenditoriale non debba porsi in contrasto con la libertà, la sicurezza, la dignità dei cittadini. Se incertezza del diritto vi è sin qui stata e vi è, essa ha riguardato e riguarda le molteplici, colpevolissime amnesie con cui si continuano a tollerare condizioni di lavoro inaccettabili, subìte da lavoratori non in grado di opporvisi e che costituiscono una modalità ordinaria della prestazione di lavoro di tante persone. Ci chiediamo inoltre se le scuse in cui si è profuso Giampaolo Galli siano anche riferite alle parole, non meno inquietanti, che Emma Marcegaglia ha pronunciato, in perfetta sintonia con umori e istintidella platea in visibilio per Hespenhahn. Ci chiediamo cioè se, depurato dalle scuse, rimanga fermo l’attacco frontale all’esemplare inchiesta condotta dal procuratore Raffaele Guariniello e alla sentenza di condanna pronunciata dai giudici torinesi; se, cioè, nel nome della libertà di impresa si possa continuare a sacrificare l’incolumità fisica di chi in fabbrica ci va per vendere la propria forza lavoro, ma non la propria vita. Perché questa è la madre di tutte le questioni: il resto sono chiacchiere. Dunque quell’applauso, egregio direttore di Confindustria, non va affatto «capito», va soltanto condannato. E il pronunciamento del tribunale di Torino deve essere salutato come un sussulto di civiltà, un punto fermo, di non ritorno, nell’edificazione di una società in cui il valore del lavoro sovrasti quello del (vostro) denaro.









   
 



 
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