Dieci anni dopo Genova, è fin troppo facile dire che i movimenti avevano ragione. Quando, nel luglio 2001, centinaia di migliaia di persone gridarono a Genova che un altro mondo era possibile, si inserivano nella rottura del tabù liberista che aveva dominato il trentennio di fine ‘900 e si intrecciavano con le lotte che a livello mondiale - dal Chiapas messicano a Seattle, dalla guerra dell’acqua di Cochabamba al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre - avevano deciso, dopo anni di accumulazione di analisi e proposte alternative, di porre il tema dell’illegittimità a decidere dei grandi istituti finanziari internazionali, dei poteri economici e militari e dei governi loro asserviti. Una nuova generazione era scesa in campo e metteva in discussione un modello che avrebbe portato alla catastrofe economica e sociale, alla devastazione ambientale e alla sottrazione di diritti e democrazia. Fu quella capacità visionaria e il consenso socialecostruito intorno ad essa a spaventare il potere e a farlo agire con la più brutale repressione. Quel movimento e quella generazione, appena affacciatisi nello spazio pubblico della democrazia, furono costretti a perdere immediatamente la propria innocenza dietro l’omicidio di un ragazzo, le violenze di piazza, il massacro della scuola Diaz e le torture della caserma di Bolzaneto. Ma intanto quel movimento aveva iniziato a seminare consapevolezza di come il mondo fosse mutato dentro una globalizzazione dei mercati che privava dei diritti le persone e dentro uno scenario di guerra globale che intendeva disciplinare il pianeta per consentirne il diretto saccheggio. In quella prima fase, il movimento dei movimenti riuscì a rendere chiara la nuova dislocazione dei poteri, previde il futuro crollo finanziario e la crisi ecologico-climatica, pose un enorme problema di democrazia. Ma fu anche un movimento ancora quasi tutto di opinione, capace di emergere dentro manifestazionioceaniche, ma ancora incapace di tradurre nel linguaggio di tutti i giorni, nei territori e nei posti di lavoro, le conseguenze e gli effetti di quel modello e le proposte alternative elaborate. Con l’invasione dell’Irak nel marzo 2003, quel movimento sperimentò la sconfitta di quella prima fase, insieme alla propria insufficienza ad affrontare la relazione con la politica istituzionale sulle basi di una matura autonomia, come il disastroso esito del successivo governo Prodi renderà palese. Ma con la chiusura di quella prima fase, se ne aprì una seconda: migliaia di attivisti tornarono a casa per provare esattamente a tradurre nelle lotte territoriali lo stesso bisogno di cambiamento e di contrasto alla dittatura dei mercati che metteva l’intera vita delle persone a valorizzazione finanziaria. Si aprì così la stagione dei conflitti ambientali, dalle lotte contro la privatizzazione dell’acqua a quelle contro le grandi opere, da quelle contro le centrali energivore e inquinanti aquelle contro gli inceneritori, determinando un proliferare di conflittualità territoriali, pur se fra loro ancora molto frammentate, capaci di costruire il nuovo linguaggio dei beni comuni, della loro riappropriazione sociale, della loro gestione partecipativa. Le lotte dei metalmeccanici contro il modello Marchionne, i movimenti degli studenti e delle donne sono tutte esperienze che, nella partecipazione popolare diretta, indicano i possibili passi dell’alternativa. Ma è soprattutto l’esperienza del movimento per l’acqua quella che, forse per prima, riesce a riconnettere la fortissima reticolarità territoriale dentro una grande vertenza nazionale per la ripubblicizzazione dell’acqua, capace di imporsi all’agenda politica e di vincere, dopo una straordinaria campagna di partecipazione dal basso, i referendum dello scorso giugno. Dieci anni dopo Genova, le politiche liberiste sono state per la prima volta sconfitte da un voto democratico e popolare e la democrazia rappresentativa- divenuta nel tempo luogo degli interessi particolaristici e di clan - è stata soppiantata da una esperienza di partecipazione diretta senza precedenti. Il voto referendario di giugno è il frutto migliore dei semi piantati dieci anni fa a Genova. Ora occorre moltiplicarne la quantità e la qualità. Perché il futuro ci appartiene e non può che essere fuori da un modello disumano e insostenibile. Marco Bersani
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