La fine del secolo americano
 











L’accordo sul debito americano siglato lunedì è l’ennesima debacle del Presidente Obama, simbolo perfetto della fine dell’egemonia americana. La sua campagna elettorale era stata disegnata su un manifesto politico di notevole coraggio, un cambiamento di pagina in coincidenza con la grande crisi finanziaria che era e rimane soprattutto una crisi del capitalismo americano. Ci si era illusi che la sua elezione potesse rappresentare una svolta, l’ennesima prova della dinamicità del capitale e dell’America che aveva saputo superare gravi prove come la crisi del ’29 e degli anni Settanta. Le idee su riforma sanitaria e finanziaria lasciavano sperare che si fosse intuita la natura della crisi del 2007, nata da una eccessiva polarizzazione del reddito che aveva costretto larghi strati della popolazione ad indebitarsi rendendo così le banche il fulcro del sistema non solo economico ma anche politico, in quanto creatori di reddito (fittizio) attraverso ilcredito. La riforma finanziaria avrebbe dunque dovuto ridurre il peso economico e politico degli istituti di credito, mentre la riforma sanitaria avrebbe dovuto essere il punto di partenza di un nuovo patto sociale, spostando risorse dal capitale verso il lavoro attraverso una tassazione più progressiva. Entrambe le riforme sono state un clamoroso flop ed ora, con l’accordo sul debito, Obama ha definitivamente calato le brache. La situazione era difficile, con la Camera in mano ai Repubblicani e il Senato ai Democratici, e dunque con la necessità di un accordo bipartisan per aumentare il tetto del debito (in America deciso per legge) e per produrre un programma economico in grado di riassestare i conti pubblici e rilanciare l’economia. Da una parte, i Repubblicani, guidati dal Tea Party, chiedevano tagli alle spese pubbliche (dunque, principalmente, ai trasferimenti sociali e proprio alla sanità), mentre i Democratici volevano aumentare le tasse sui redditi più alti, in un momento incui la tassazione in America è ai suoi minimi storici, mai così bassa dai tempi di Truman. Ebbene, il compromesso raggiunto dal Presidente sul filo di lana è basato su due capisaldi: no all’aumento delle tasse, sì ai tagli alla spesa pubblica. Un capolavoro. Tanto valeva che venisse accettato fin dall’inizio il piano dei Repubblicani che certo non hanno vinto le presidenziali nel 2008 ma hanno sempre e comunque imposto le loro politiche (grazie anche ad una consistente fetta di Democratici) ad un presidente incapace di giocare sulle divisioni comunque presenti nel campo Repubblicano, dove il partito tradizionale mal sopporta l’avanzata dei talebani del Tea Party.
Certo la politica è anche compromesso, ma governare significa assumersi delle responsabilità che Obama, invece, evita. La sua arrendevolezza ha lasciato che il Tea Party ricattasse il governo, quando era chiarissimo che davanti ad una posizione netta del Presidente la business community non avrebbe accettato un default eavrebbe costretto la parte ragionevole dei Repubblicani ad accettare il piano presidenziale.
Questo accordo è un disastro sociale che fa pagare l’aumento del debito ai lavoratori e alla middle class come se fossero stati loro a creare il buco nei conti dello stato e non, invece, le banche e le riduzioni fiscali ai super-ricchi che Obama ha rinnovato qualche mese fa: un errore strategico drammatico che ha dato la possibilità alla destra di ricattare l’amministrazione sul debito. Ma l’accordo è anche e soprattutto una catastrofe dal punto di vista economico, il segnale più chiaro dell’incapacità del capitalismo americano di rinnovarsi. Le ricette economiche sono la riproposizione, in versione addirittura estremista, di quelle che hanno generato la crisi del 2007: poche tasse per i ricchi, disparità di reddito rampante, l’esatto opposto del programma iniziale di Obama. Per di più, in un periodo in cui la crescita rimane assai deficitaria, il nuovo piano economico prevede oltre 2000miliardi di tagli che affosseranno il Pil ed avvieranno l’economia americana verso una nuova recessione, tant’è che pure la reazione dei mercati finanziari all’accordo è stata all’insegna del pessimismo. Ci si avvia così verso la fine dell’impero americano, che si avvita in una crisi di sistema senza idee e privo di leadership, ostaggio di una banda di assatanati come il Tea Party che addirittura l’Economist ha definito pigmei della politica. Pigmei che dettano l’agenda della Casa Bianca. Una ricetta perfetta per il disastro. Nicola Melloni









   
 



 
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