L’ultimo Pasolini, la nevrosi di un poeta che voleva raccontare il Potere
 











-Ho iniziato un libro che mi impegnerà per anni, forse per il resto della mia vita. Non voglio parlarne, però: basti sapere che è una specie di "summa" di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie». Il libro al quale Pasolini si riferisce in questa lettera indirizzata a Moravia nel gennaio 1975 è un’opera anomala. Si tratta di un romanzo destinato però a rimanere incompiuto, nonostante le intenzioni dell’autore.
Petrolio è infatti l’ultima opera alla quale Pasolini avrà modo di lavorare prima di essere assassinato in quello stesso anno, il 2 novembre. Quando mette l’amico Moravia al corrente del suo progetto, lo scrittore è consapevole che quel romanzo sarà il laboratorio definitivo di una ricerca che lo impegna già da anni. Petrolio non è solo un romanzo sul Potere - inteso in maniera più ampia del semplice potere istituzionale e politico del Palazzo - ma è anche un esperimento linguistico ed espressivo, un romanzo sul romanzo, per cosìdire, che rivolge esplicitamente al lettore la questione se sia ancora possibile, in questa epoca, scrivere una storia in grado di esprimere la realtà. «È un romanzo - spiega lo stesso Pasolini - ma non è scritto come sono scritti i romanzi veri: la sua lingua è quella che si adopera per la saggistica, per certi articoli giornalistici, per le recensioni, per le lettere private o anche per la poesia». La realtà che il poeta ha davanti agli occhi è quella di un presente percepito come orrendo e totalitario, di uno stile di vita borghese che attraverso il consumismo ha annientato ogni cultura popolare precedente. E’ un mondo indicibile dal quale lo scrittore si sente toccato esistenzialmente, nella propria persona in carne e ossa, nel proprio corpo, al punto da sperimentare il fallimento della propria scrittura, senza però poter fare altro che riprodurre incessantemente lo scacco dei propri tentativi.
Sta qui il «segreto dell’ultimo Pasolini», come acutamente scrive Pasquale Voza nelsuo nuovo lavoro (La meta-scrittura dell’ultimo Pasolini, Liguori Editore, pp. 104, euro 13,99): «il suo mettere al centro il problema ossessivo di una scrittura che riflette sull’impossibilità della scrittura: il problema ossessivo di un io poetico, che si avvertiva gettato nemmeno più semplicemente in una condizione di esiliato e di superstite, ma in quella di una vera e propria frantumazione». La chiave di volta per comprendere il lavoro di Pasolini negli ultimi dieci anni della sua vita è l’intreccio tra una determinata lettura della realtà e del Potere, da un lato, e l’effetto di frantumazione che il nuovo mondo del consumismo produce sull’identità stessa del poeta e della sua scrittura. L’avventura nevrotica comincia con la vicenda compositiva della Divina Mimesis, un romanzo il cui primo progetto risale al ’63. E’ in questa fase che Pasolini si sente costretto a constatare il fallimento di quel "realismo integrale" praticato in Ragazzi di vita e Una vita violenta. Qualcosaimpedisce di poter raccontare il mondo come prima. «La peculiare mimesi regressiva del suo realismo narrativo era come impedita dal "complicarsi" della realtà - scrive Voza - dallo sfigurarsi dei suoi "inferni" nell’indistinzione opaca, se pur ribollente, del magma della modernità. Inizia da qui l’avventura nevrotica, ora oscura, ora chiara, dell’auctor Pasolini, la nevrotizzazione continua di una poetica e la sua vorticosa, in-terminata messa in scena». Suscita quasi un esito autoironico l’insistenza sul dramma che il poeta inscena su se stesso. L’autore non riesce a compiere il viaggio dall’inferno al paradiso, dal magma ribollente della realtà a una qualche sua forza sublimata e idealizzata. «Solo, vinto dai nemici - scrive l’autore-Pasolini - noioso superstite per gli amici, personaggio estraneo a me stesso, arrancavo verso quella nuova assurda strada, arrampicandomi per la china come un bambino che non ha più casa, un soldato disperso».
E’ però con la stesura di Petrolio che ildiscorso poetico dell’ultimo Pasolini conquista un aspetto monumentale, ma lo fa nella forma paradossale di un romanzo che si compie nella sua incompiutezza. Alla forma classica e tradizionale del romanzo (una storia dotata di trama univoca e con uno stile omogeneo) subentra una forma-romanzo frantumata, quindi adeguata all’epoca contemporanea. Nel frattempo Pasolini affina la sua lettura della realtà neocapitalistica. Ne fornisce un ritratto lucido e metaforico nel celebre articolo pubblicato sul Corriere della Sera il primo febbraio 1975 - quindi nello stesso periodo in cui è impegnato nella stesura di Petrolio - conosciuto come l’articolo sulla Scomparsa delle lucciole. E’ la testimonianza di una solitudine. «Gli intellettuali, anche i più avanzati e critici, non si sono accorti che le lucciole stavano scomparendo». La tesi è che un nuovo fascismo, molto più insidioso del fascismo mussoliniano - «un fascismo radicalmente, totalmente, imprevedibilmente nuovo» - abbia contagiato lasocietà italiana, provocando un «genocidio culturale», una catastrofe antropologica. «Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta». Quel che gli intellettuali progressisti, con le loro certezze laiche, non hanno visto sono gli effetti della «tolleranza repressiva» - concetto condiviso da Pasolini con Marcuse - l’omologazione degli stili di vita a opera di un consumismo che riduce tutto a misura di piccola borghesia. La stessa critica che viene rivolta agli studenti sessantottini, incapaci di vedere che la propria contestazione si svolge dentro e non contro il sistema. «Pasolini - scrive Voza -vedeva la lotta degli studenti come una lotta condotta contro la poesia della tradizione, contro il valore del passato che in essa si conserva, contro l’unica forza radicalmente antagonista al sistema, che non a caso tendeva a sbarazzarsene, nel suo sempre più totalitario processo di omologazione, americanizzazione, presentificazione». «E così - versi di Pasolini - capirai di aver servito il mondo/ contro cui con zelo portasti avanti la lotta».
Nella stesura di Petrolio tutto si riduce alla percezione di un’unica «crisi cosmica» che consiste nella sparizione dell’umanità e nel «passaggio dal ciclo naturale delle stagioni al ciclo industriale della produzione e del consumo». E’ il punto in cui la poetica pasoliniana più si espone al rischio di fraintendimenti.
Di volta in volta Pasolini sarà accusato d’essere ora un nostalgico per le forme di vita passate, ora un apocalittico incapace di vedere attorno a sé le forme di resistenza, ora un poeta tutto ripiegato sulla propriadisperazione privata. Giudizi fuorvianti o ingenerosi. «Più che angosciosa nostalgia di un mondo passato - precisa Voza - era intollerabile sgomento per un presente totalitario e immobile [...] nel quale si stava consumando uno sconvolgente genocidio culturale». Né tantomeno l’ultimo Pasolini intende trasformare la poesia in azione e performance, in ossequio a una sorta di impurità postmoderna, in cui la persona dell’autore è coinvolta come persona in carne e ossa. La nevrosi di Pasolini nasce, all’opposto, dal rifiuto di abbandonare la scrittura e, tutto sommato, dalla fiducia nella parola. Di una parola che provi ancora a testimoniare e segnalare il male in un mondo in decomposizione. Tonino Bucci









   
 



 
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