E’ un tormentone, ormai. I giornali sembrano bollettini borsistici e in televisione persino i programmi d’intrattenimento non disdegnano di fare la telecronaca dello spread minuto per minuto. Bot, btp e bund sono gergo quotidiano. Dal discorso pubblico è scomparsa l’economia reale. Si parla di indicatori finanziari a prescindere dalla relazione con le strategie industriali e gli assetti produttivi di un paese. Qual è la mappa del capitalismo italiano oggi? E quale ruolo occupa il nostro paese nella divisione del lavoro internazionale? Esiste una politica industriale? A eccezione di Finmeccanica in Italia è scomparso il polo pubblico della grande impresa che in passato orientava investimenti e ricerca nei settori strategici. Per quanto riguarda l’ultima grande impresa privata, la Fiat, tira aria di smobilitazione. Rimane il nord-est e quello che, fino a pochi anni fa, veniva celebrato come il miracolo dei distretti e del made in Italy. Ma la crisi ha dimostrato i limiti delle piccole e medie imprese. Quel che abbiamo di fronte è sempre più un paese che per assetti produttivi si pone in Europa ai livelli più bassi di qualità tecnologica. A un sistema industriale in via d’estinzione corrisponde un modello di relazioni sindacali arretrato. L’unico margine di redditività per una classe imprenditoriale priva di strategie, qual è quella italiana, è la riduzione del costo del lavoro, la compressione delle retribuzioni e dei diritti sindacali. Abbiamo chiesto un parere al sociologo Luciano Gallino. Siamo ormai un paese postindustriale? Non ricordo più quanti articoli ho scritto sui danni e le conseguenze della mancanza di una politica industriale nel nostro paese. Ho pubblicato un saggio nel 2003 su La scomparsa dell’Italia industriale, una sorta di censimento dei settori che già allora si erano estinti o erano in via d’estinzione, dall’informatica alle macchine per ufficio, dalla chimica all’industria dell’auto.Negli anni successivi è andata ancora peggio. E’ mancata una politica industriale, non solo nel parlamento, ma anche all’interno dei partiti e dei loro luoghi di studio. Qualche anno fa avevamo ancora un certo numero di industrie di peso, soprattutto nel manifatturiero. Oggi siamo rimasti con una grande impresa e mezza, Finmeccanica e Fiat. Non ce ne sono altre. Gli elettrodomestici sono malmessi, la Fincantieri è un dramma, l’industria ferroviaria è in declino. Finmeccanica si regge soprattutto sull’industria bellica e minaccia di chiudere i cantieri di Trieste, di Monfalcone e quelli liguri. Eravamo campioni europei di elettrodomestici. Dove sono finiti? Prima li hanno comprati gli svedesi lasciando la produzione in Italia, poi l’hanno spostata in Polonia. Non c’è più un settore industriale, tra quelli che hanno un futuro, che abbia radici solide in Italia. La stiamo pagando cara. Quanto pesa l’assenza di un polo pubblico della grande impresa? Anche paesi senzaproprietà pubblica possono fare politica industriale. Gli Stati Uniti l’hanno fatta - intendiamoci, lasciando affondare interi settori. Se Internet ha avuto lo sviluppo che conosciamo, è perché - prima che divenisse una tecnologia pubblica per iniziativa del Cern - c’è stata negli Usa una politica industriale in quella direzione. Se la Volkswagen vent’anni fa era poco più avanti della Fiat, mentre oggi produce nel proprio paese dieci volte tanto, è perché la Germania ha fatto una politica industriale di orientamento e di sostegno, pur in assenza di una proprietà pubblica diretta. Noi abbiamo sbagliato molte cose, a cominciare dalle privatizzazioni dei primi anni 90. Sono state fatte troppo in fretta e a prezzi al ribasso. C’erano aziende di pregio che potevano essere salvate e rilanciate. L’Ansaldo, per esempio, aveva dei problemi, ma era uno dei tre giganti dell’elettrotecnica esistenti in Europa. E’ stata fatta letteralmente a pezzi e i risultati si sono visti. Avevamo punte dieccellenza nell’industria ferroviaria di Savigliano, produttrice del Pendolino ed esportatrice in tutta Europa. Poi la Fiat l’ha venduta al suo peggior concorrente, alla Alstom. Quello che era rimasto nell’Ansaldo e nella Breda è andato via via decadendo. Oggi perdiamo gli ultimi pezzi. Questo è il risultato degli errori della politica, degli imprenditori e dei manager pubblici. E che fine ha fatto, invece, il miracolo del Nord-est e dei famosi distretti? Ce la possono fare da sole le piccole e medie imprese o sono destinate a vivere al traino delle industrie tedesche? Forse ci sono settori indipendenti. Ma il famoso motto "piccolo è bello" è stato micidiale. Abbiamo una percentuale di piccolissime aziende con quattro-cinque addetti sicuramente superiore a quella della Germania o della Francia o di altri. Ma per quanto possano creare lavoro, le piccole imprese hanno un limite invalicabile: non possono fare ricerca sul serio. Per farlo, dovrebbero spendere moltimilioni di euro. La ricerca può farla solo la grande impresa o lo Stato, ma la ricerca pubblica è stata lasciata deperire. Le piccole imprese non possono fare neppure formazione. Ed è, questo, anche il motivo per cui le piccole imprese hanno mostrato tutti i loro limiti con la concorrenza cinese, indiana o filippina - che poi è stata creata dalle stesse imprese americane ed europee. Tra l’altro, dal Nord-est è partita negli anni scorsi anche una massiccia ondata di delocalizzazione che ha portato via una decina di migliaia di posti di lavoro. Su un’azienda, poniamo, di cinquanta dipendenti, quindici restavano in Italia, il resto veniva reclutato in Romania. Le relazioni sindacali sono al minimo storico. Ma oltre che dalla debolezza politica del mondo del lavoro, i diktat di Pomigliano e Mirafiori non dipenderanno dalla mancanza di strategie industriali e di governo dell’economia? L’interpretazione è corretta. L’Italia è agli ultimi posti tra i paesi Ocse quanto ainvestimenti in ricerca e sviluppo, sia nel privato che nel pubblico. Siamo in coda anche per numero di brevetti depositati in Europa. Senza contare che una parte significativa di essi ha un contenuto tecnologico scarso. Possiamo pure inventarci nuovi tipi di pentole ma con queste non si conquistano i mercati. Scarsi investimenti in ricerca significa scarso valore aggiunto per unità di capitale e per unità di lavoro. E allora bisogna produrre tanti pezzi e comprimere quanto più possibile il costo del lavoro per avere redditività. Anche il made in Italy che a uno sguardo superficiale sembrerebbe un fenomeno gigantesco, è fatto in realtà per l’ottanta per cento in India e dintorni. Le etichette rimangono italiane, ma il lavoro si è spostato altrove. Finché ci limitiamo a costruire la Panda la nostra industria dell’auto non può competere con quella tedesca... In Europa quelli che ne escono meglio sono i tedeschi. Le loro retribuzioni nei settori avanzati come lametalmeccanica - nella Volkswagen, nella Siemens, nella Mercedes - sono all’incirca il doppio di quelle italiane. Questo si deve agli enormi investimenti in ricerca e sviluppo che hanno costantemente fatto e di cui ora mietono i frutti. Non che il caso tedesco sia tutto oro colato. Anche in Germania ci sono sacche di povertà e i minijobs, cinque milioni di persone con un reddito mensile di circa cinquecento euro per orari settimanali di quindici ore o giù di lì. Sta di fatto, però, che hanno un formidabile apparato industriale. Anche in periodo di crisi molte industrie tedesche hanno registrato bilanci notevoli. Grazie ai patti con i sindacati, che sono presenti nei consigli di sorveglianza delle grandi aziende con il cinquanta per cento dei rappresentanti, sono riusciti a limitare al minimo sia la perdita di posti di lavoro sia il ricorso alla cassa integrazione riducendo gli orari. Queste politiche gli hanno permesso di mantenere l’ossatura industriale del paese. È laprova che da una buona politica industriale è più facile che nascano relazioni sindacali avanzate, no? Non è tutto rose e fiori, ma a ogni modo hanno licenziato pochissimo. La Siemens, uno o due anni fa, ha firmato un accordo che riguardava oltre duecentomila lavoratori in cui si impegnava a non licenziare nessuno fino a tutto il 2013. Ci sarà pure un’insufficienza culturale degli imprenditori italiani, una loro incapacità a elaborare una straegia industriale, non crede? La classe imprenditoriale e manageriale ha enormi responsabilità. In passato mi capitava spesso di incontrare manager pubblici di tutto rispetto nelle imprese a partecipazione statale. Oggi non abbiamo più gli Olivetti, i Pirelli, i Piaggio. Si è guastato qualcosa nel processo di riproduzione culturale del grande imprenditore o del grande manager. Abbiamo importato il cattivo modello del manager che costruisce buoni bilanci senza sapere quello che produce. La sua unica competenza deveessere quella di far salire il valore delle azioni. In Italia, più che altrove, è facile trovare il manager che prima dirigeva un’azienda nel settore metalmeccanico e poi diventa gestore di grandi alberghi o di compagnie aeree. Vanno da un settore all’altro e in nessuno di questi ci capiscono qualcosa. Alla fine è ovvio che anche i bilanci risultino disastrosi. Non si può gestire un’azienda senza capire quello che materialmente produce. Intendiamoci, è un modello mondiale, ma in Italia è stato applicato in modo particolarmente fallimentare. Questi manager da non so quanti milioni l’anno, vengono reclutati per far salire il valore delle azioni. E poi si scopre non solo che non sanno fabbricare nulla, ma non riescono neppure a fare gli interessi degli azionisti. Tonino Bucci
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