Siamo proprio sicuri che Silvio Berlusconi sia fuori dai giochi? Che il suo allontanamento da Palazzo Chigi a suon di fischi e lazzi abbia sancito la sua definitiva uscita di scena? Gli ultimi eventi fanno pensare il contrario. Il voto alla Camera sulla responsabilità personale dei magistrati che ha ricompattato la vecchia maggioranza forzaleghista e la levigata intervista al "Financial Times", quel giornale che lo aveva trattato come uno Schettino alla rovescia ingiungendogli un "Scenda da quella nave, per diana!", ha riportato il Cavaliere alla centralità perduta. Il suo partito, pur diviso in mille cricche e attraversato da odi feroci, non è ancora sull’orlo dell’implosione. Soprattutto, non sta decomponendosi nella direzione prevista, e da molti auspicata: chi minaccia di fare le valigie non sono i moderati filo-governativi bensì gli ex An e qualche altro "descamisado" senza etichetta. Se questi propositi bellicosi si concretizzassero,salterebbe l’assetto bipolare del sistema (che tuttora tiene) e andremmo a una tripartizione dello spazio politico. E cioè, ammesso che la sinistra rimanga nella fissa nella sua configurazione attuale, vi sarebbe una nuova componente "radicale" di destra (ex-An e Lega) e un corpaccione moderato, con un Berlusconi in versione rotonda e benpensante pronto a riannodare i fili con il centro e persino con Fini. Ecco perché Berlusconi è così accomodante con il governo, così responsabile e dialogico. Il sostegno a Monti, esplicito a parole e contrattato nei corridoi, produce anche ottimi risultati. Grazie alle pressioni del PdL le liberalizzazioni, partite con grandi squilli di tromba, si sono ridotte a una fotocopia in sedicesimo di quanto fecero Prodi e Bersani nel 2006. I veti incrociati delle mille lobby hanno trovato audience e comprensione da parte del Pdl che ha così riannodato i fili con quei settori della società civile che lo avevano abbandonato alla fine dello scorso anno. Ancheil tema dell’equità, grande ed esaltante novità della discesa in campo del governo tecnico, è scomparso sotto la neve. E’ rimasta, e per fortuna, la martellante campagna anti-evasione. Ma vedremo quanto resisterà all’offensiva contro lo "stato di polizia tributaria" già innescata dalla destra. Infine, a dimostrazione di quanto sensibile si sia dimostrato il governo di fronte alla difesa degli interessi primari del Cavaliere - le tv, ovviamente - da Palazzo Chigi e dintorni non è venuta una parola sulle nomine di marca forzaleghista in Rai. Ora, entra nella fase finale la discussione sul mercato del lavoro. Nel governo non aleggia un clima pro-labour. Anzi, stupisce sentir ripetere la litania dell’articolo 18 come fattore inibente degli investimenti, quando contano ben più l’assenza dello Stato in intere regioni del Mezzogiorno, la lentezza della giustizia civile, il costo delle infrastrutture, i vincoli burocratici. Come dimostrano i giuslavoristi non politicizzati, illicenziamento per motivi economici è perfettamente possibile in Italia: non è invece possibile gettare sulla strada uno solo perché antipatico e di idee politiche diverse. In un paese con una classe imprenditoriale ben più rozza di quanto non appaia ai piani alti delle rappresentanze confindustriali (vogliamo ricordare la prassi delle lettere di dimissioni firmate in bianco imposte alle giovani dipendenti a rischio maternità, proibite per legge dal governo Prodi e riammesse da Berlusconi?) dobbiamo augurarci che "queste" garanzie non solo rimangano ma vengano estese. Perché se si ritiene che licenziare "senza giusta causa" sia giusto, allora rassegniamoci ad avere un governo, certo perbene e serio, ma di destra, a trazione Pdl. Con il risultato che il Pdl centra tre obiettivi: si riqualifica come un partito responsabile presso quell’opinione pubblica moderata che lo aveva lasciato; riprende contatto con il suo serbatoio elettorale di riferimento dimostrando che è in grado diaddolcire la medicina delle liberalizzazioni e dell’equità fiscale, e di mettere all’angolo i sindacati; mette alle corde il Pd che si è speso per Monti senza aver ottenuto nulla. Piero Ignazi-l’espresso
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