La vicenda della ExxonMobil in Iraq è uno spaccato significativo delle tensioni che dividono il Paese, abbandonato neanche 4 mesi fa dall’ultimo militare Usa. Il colosso petrolifero statunitense si è trovato in mezzo all’accesa diatriba tra il governo di Baghdad, guidato dallo sciita Nuri al Maliki, e la regione semi-autonoma del Kurdistan iracheno. Questa regione settentrionale è una delle più ricche e tranquille dell’Iraq, grazie ai giacimenti di petrolio e a una discreta autonomia garantita dalla Costituzione del 2005. Lo scorso anno la Exxon ha firmato un accordo con Irbil, capitale del Kurdistan, per avviare lavori esplorativi in sei zone della regione. Un’iniziativa che ha fatto infuriare il governo centrale di Baghdad, che ci tiene a gestire interamente tutti i rapporti con le compagnie petrolifere straniere. Oltre al fatto che alcune di queste zone si trovano in province contese tra Baghdad e Irbil. Da mesi, quindi, sono in corso serratetrattative tra la Exxon, Baghdad e il Kurdistan iracheno per risolvere la questione. Il problema è piuttosto delicato per tutti gli attori interessati e rischia di mettere in crisi l’unità stessa dell’Iraq. Nelle scorse settimane il governo iracheno ha deciso di escludere la compagnia petrolifera da ogni altro affare nel Paese se non avesse tagliato tutti i rapporti con Irbil. Una minaccia pesante, considerando che la Exxon ha importanti attività anche nel sud del Paese, nel grande giacimento di West Qurna-1, poco a nord di Bassora. Davanti a questa sorta di ricatto – o il Kurdistan o West Qurna – i dirigenti statunitensi hanno preso tempo e alla fine hanno deciso di congelare momentaneamente gli investimenti nel nord, in attesa magari di una legislazione più chiara in materia. Il tentativo del 2007 di varare una legge sugli idrocarburi che stabilisca le modalità di divisione dei proventi tra le diverse regioni produttrici, infatti, si è arenato a causa delle tensioni politichetra il premier al Maliki e le opposizioni sunnite. Oltre che per le rivendicazioni curde. Attualmente il Kurdistan esporta il petrolio attraverso un oleodotto controllato dal governo centrale. In cambio il Baghdad si impegna a ridistribuire i proventi del petrolio, pagando con essi le compagnie straniere che lavorano nella regione semi-autonoma. Ma ultimamente Irbil ha accusato Baghdad di non aver rispettato i pagamenti, minacciando di interrompere le esportazioni. Per tutta risposta, il governo centrale ha accusato i curdi di “contrabbandare” il petrolio all’estero attraverso la Turchia e l’Iran, intascandosi direttamente i proventi. In mezzo a questo vuoto legislativo si muovono le compagnie petrolifere, alle quali Baghdad ha intimato di non stringere rapporti separati con Irbil (che tra l’altro sembra stia offrendo condizioni migliori) e viceversa. Un divieto che vale specialmente nella zona intorno alla città di Kirkuk, particolarmente ricca di petrolio e sulla quale i curdirivendicano dei diritti che il governo centrale non ha intenzione di concedere. Ma la questione non riguarda solo i colossi petroliferi stranieri che rischiano di dover scegliere tra i giacimenti del sud o del nord, o le piccole compagnie che ignorano i diktat di Baghdad e trattano direttamente con Irbil. A Baghdad temono che un’eventuale gestione autonoma dei proventi del petrolio possa galvanizzare le spinte autonomiste del Kurdistan. A questo proposito il presidente del Kurdistan iracheno Massoud Barzani ha già strizzato l’occhio ai curdi siriani – oltre che turchi e iraniani – alludendo a un nuovo avvento della nazione curda. Inoltre l’esempio del Kurdistan potrebbe creare un precedente per altre regioni, in primis il governatorato di Bassora, nel quale viene prodotto il 70% del greggio iracheno. Se a questo si aggiungono le recenti rivendicazioni autonomiste avanzate dalle province sunnite di Anbar (ovest), Salah al-Din (centro) e più recentemente Dyala (est), si può capireperché il governo di al Maliki ci tenga tanto a mantenere il controllo sulle esportazioni di greggio.Ferdinando Calda
|