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C’è da fidarsi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità? Le sue decisioni, le sue scelte sono fatte in difesa e nell’interesse della salute della popolazione? Oppure no? Oggi, mentre è in discussione la riforma dell’OMS , l’argomento cruciale riguarda la sua indipendenza, e in ultima analisi la sua credibilità come istituzione pubblica internazionale. Il problema naturalmente non è di oggi e bisogna risalire a trent’anni indietro per trovare le prime tracce del conflitto tra OMS e interessi “esterni”, ovvero dell’attacco alla sua indipendenza. Siamo agli inizi degli anni 80 del secolo scorso (che coincide con l’avvio dei processi di globalizzazione) e l’OMS, sotto la guida di Halfdan Mahler, lancia due iniziative: 1.“International Code on Breast Milk Substitutes” che riguarda la promozione dell’allattamento al seno e la regolamentazione dell’uso del latte in polvere.2.“Essential Drugs Programme” finalizzato all’uso appropriato dei farmaci e all’introduzione dei “generici” a basso costo. Halfdan Mahler Entrambe le iniziative toccano interessi vitali delle grandi compagnie multinazionali e le reazioni non si fanno attendere. Mahler viene sostituito alla direzione generale con una figura grigia e ininfluente e i finanziamenti diventano sempre più razionati e condizionati. Inizia l’era del doppio finanziamento dell’OMS: da una parte il “budget ordinario” proveniente dai singoli stati e destinato alle attività istituzionali dell’organizzazione, e dall’altra l’”extra-budget”, rappresentato da fondi “volontari” provenienti da singoli stati, da varie istituzioni ( Banca Mondiale) e da “donatori” privati, finalizzato alla realizzazione di specifici programmi (generalmente riguardanti singole malattie o specifici interventi, vaccinazioni) e sul quale il controllo dell’OMS è quasi sempre marginale. Col tempo la componente “extra-budget” si dilata progressivamente, a scapito del “budget ordinario”. Il bilancio OMS per il biennio 2012-2013 è di 3.959 milioni di dollari dei quali solo 944 milioni (24%) appartengono al “budget ordinario”. Rispetto al biennio precedente c’è stato un taglio di 600 milioni di dollari e ciò ha comportato una riduzione del 12% del personale nella sede centrale di Ginevra (circa 600 persone), mettendo in serio pericolo il funzionamento di settori strategici, come quello dei “Farmaci essenziali”. Ma prima ancora della bancarotta finanziaria, ciò che preoccupa maggiormente è il rischio di bancarotta politica dell’istituzione, ovvero il fallimento della sua missione nell’arena della salute globale ( “WHO is the directing and coordinating authority for health within the United Nations system. It is responsible for providing leadership on global health matters, shaping the health research agenda, setting norms and standards, articulating evidence-based policy options, providing technical support to countries and monitoring and assessing health trends”). Come trent’anni fa, sono i settori del cibo (e delle bevande) e dei farmaci (e dei vaccini) su cui si gioca l’indipendenza dell’Istituzione e la credibilità del suo Direttore Generale. L’opaca gestione dell’epidemia suina H1N1 e l’incapacità di porre un argine al dilagare dell’industria del fast-food e all’esportazione incontrollata di modelli alimentari altamente nocivi per la salute sono lì a dimostrare che alcuni potenti interessi riescono a condizionare le politiche e le decisioni dell’OMS e degli Stati. “Oggi - ammette Margaret Chan, Direttore Generale dell’OMS – molte delle minacce che contribuiscono alla diffusione delle malattie croniche provengono dalle compagnie multinazionali che sono grandi, ricche e potenti, guidate da interessi commerciali e assai poco interessate alla salute della popolazione”. Ma rispetto a trent’anni è cambiato qualcosa: è cambiata la governance e sono mutati i rapporti di forza. Se allora erano i governi che intervenivano per conto e in difesa delle industrie, oggi le compagnie multinazionali si muovono in proprio, sono all’interno della governance dell’OMS, attraverso il meccanismo dei partenariati pubblico-privato (Global Health Partnerships). Il filantropo Bill Gates (Microsoft) con la sua Fondazione è – con la donazione di 220 milioni di dollari (2012-2013) – il secondo maggiore finanziatore dell’OMS (dopo gli USA). Le aree di intervento della Fondazione sono molteplici: dai vaccini alla salute materno-infantile, dal micro-credito allo sviluppo agricolo. Molteplici anche i sostenitori della sua Fondazione, attraverso un groviglio di partecipazioni (e di conflitti d’interesse) : MacDonalds, Coca Cola, Nestle, Sanofi-Aventis, etc., etc. Alla fine di maggio a Ginevra si terrà l’ annuale Assemblea Mondiale dell’OMS. Si parlerà di riforma dell’Istituzione e anche di come preservarne indipendenza e credibilità. “La riforma – ha scritto Nicoletta Dentico – può fungere da passaggio critico per ripristinare la legittimità dell’agenzia, debilitata nell’ultimo decennio dalla irrefrenabile ed incontrollata proliferazione di nuove iniziative pubblico-private”. A tenere alta l’attenzione su questi temi a Ginevra ci saranno rappresentanti della società civile come il movimento People’s Health Movement (PHM – rete globale per il diritto alla salute), che ha organizzato un’attività di monitoraggio (vedi l’annuncio WHO watch – monitoraggio OMS: cercasi nuovi watchers!). Di tutto ciò Saluteinternazionale.info non mancherà di tenere aggiornati i lettori. Gavino Maciocco. Università di Firenze Pandemia, interessi e conflitto di interessi A pandemia appena conclusa si pone la questione cruciale del conflitto di interessi attribuito all’OMS, secondo cui le decisioni assunte in occasione dell’evento pandemico sarebbero state condizionate dagli interessi economici dell’industriafarmaceutica produttrice di vaccini e farmaci antivirali. È stato recentemente pubblicato l’annuncio di Margaret Chan, Direttore Generale dell’OMS, della fine della pandemia da virus dell’influenza suina H1N1 [1], che chiude con un bilancio in termini di salute di circa 18.500 decessi notificati e una stima di circa 300 milioni di persone vaccinate nel mondo. Cala così il sipario su una delle più dibattute questioni di sanità pubblica degli ultimi decenni, in bilico fra verità e fantasia, tra segreti ed esternazioni di trasparenza, certamente tra molti dubbi e poche certezze. Negli ultimi mesi una delle espressioni più spesso evocate a proposito della condotta tenuta dall’OMS nel corso della pandemia è stata “conflitto di interessi”, e anche i mass-media non hanno perso l’occasione di denunciare supposte compartecipazioni di interesse fra gli stretti consiglieri del Direttore Generale in tema di emergenze biologiche e l’industria farmaceutica produttrice di vaccini e farmaci antivirali. In un pungente editoriale del 3 giugno scorso , Fiona Godlee, editore capo del BMJ, presenta un lungo articolo, casualmente in concomitanza con l’anniversario della dichiarazione di pandemia dell’11 giugno 2009, che riporta una vera e propria indagine investigativa condotta da un membro della redazione del BMJ e da un giornalista dell’Ente di Giornalismo Investigativo di Londra . Tale indagine fa la sua uscita a poca distanza di tempo da un’inchiesta del Consiglio d’Europa, attualmente ancora in corso, che denuncia senza mezzi termini il comportamento poco trasparente dell’OMS durante la crisi provocata dall’influenza suina . Nelle pagine dell’articolo viene apertamente messo sotto accusa l’operato dell’OMS in merito a due sostanziali aspetti: il non avere provveduto in alcun modo ad esplicitare se i membri delle commissioni coinvolte nella strategia decisionale avessero o meno conflitti di interesse con le case farmaceutiche; il non aver chiarito quali provvedimenti sarebbero stati presi nel caso che tale problematica fosse venuta alla luce. Ma cominciamo dall’inizio. Il primo documento ufficiale in cui l’OMS affronta il tema della preparazione a una prossima inevitabile pandemia “Influenza Pandemic preparedness plan: the Role of WHO and Guidelines for National and Regional Planning” del 1999, è firmato da alcuni membri di un importante organo di consulenza dell’OMS, l’European Scientific Working Group on Influenza (ESWI), senza riportare alcuna dichiarazione sul fatto che l’ESWI è totalmente finanziato dalla Roche e da altre industrie del settore. In particolare due di loro, il Prof Karl Nicholson della Leicester University e il Prof. Abe Osterhaus della Erasmus University avevano in quel periodo firmato come autori uno studio randomizzato controllato, pubblicato su Lancet, risultato essere fra i pochi a indicare una forte efficacia dell’oseltamivir, il principale farmaco antivirale; l’elemento interessante è che tale studio era statointeramente finanziato da Roche, casa produttrice dello stesso . Negli anni successivi l’ESWI, pur proclamandosi sempre organo accademico indipendente, adotta fra le proprie linee di programma una vera e propria attività di marketing nei confronti dei governi, chiamati con forza a sostenere l’industria nella ricerca e sviluppo di nuovi farmaci/vaccini in previsione di una futura pandemia. L’articolo del BMJ ricostruisce il percorso di approvazione, avvenuto fra il 1999 e il 2002 in Europa e negli Stati Uniti, dei farmaci antivirali oseltamivir (Roche) e zanamivir (GlaxoSmithKline). Il percorso ha attraversato fasi alterne, da un primo rifiuto per assenza di dati sufficienti a dimostrarne inequivocabilmente l’efficacia, a una successiva rielaborazione che, con il contributo di esperti coinvolti a vario titolo in attività finanziate dalla Roche, hanno avuto come esito l’approvazione da parte delle due principali agenzie regolatorie, l’European Medicine Agency (EMEA) per l’Europa e la Food and Drug Administration (FDA) per gli USA. Efficacia ancora oggi difficile da provare per questi due farmaci, in termini di reali benefici anche nella prevenzione di severe complicanze della malattia influenzale, a sentire le conclusioni riportate da una recente revisione sistematica della Cochrane Collaboration . Nell’ottobre 2002 l’OMS organizza un convegno finalizzato allo sviluppo di linee guida sull’uso di vaccini e antivirali in pandemia influenzale. Tale documento, pubblicato nel 2004 , annovera fra le sue conclusioni la necessità che i governi considerino l’opportunità di effettuare scorte di antivirali, per scongiurare il pericolo di una carenza di fornitura nel momento in cui si verificherebbe un enorme aumento della richiesta. La redazione di alcuni capitoli di questo documento viene affidata ad alcuni emeriti professori, di cui alcune pubblicazioni precedenti su riviste importanti, come BMJ e Lancet , avevano riportato la dichiarazione di avere ricevuto sovvenzioni da parte di diverse industrie, come GlaxoSmithKline e Roche. Stupisce il fatto, sottolineano gli Autori dell’indagine BMJ, che in calce ai capitoli del documento linee guida a firma degli esperti citati non fosse presente invece alcuna dichiarazione di conflitto di interesse, come se l’OMS, quando anche le avesse raccolte dai rispettivi autori, non avesse ritenuto rilevante renderle pubbliche. In realtà l’atteggiamento dell’OMS sulla questione si rivela quantomeno contraddittorio, dal momento che in una pubblicazione dell’anno prima, il 2003, la stessa OMS aveva dettato regole precise per la tutela della trasparenza scientifica nei documenti linee guida, definendo anche i metodi per la gestione dei conflitti di interesse a carico degli autori. Infatti in tale documento viene fatto preciso riferimento all’assoluta necessità sia di esigere dichiarazioni di assenza di conflitto di interesse, sia di trattare il problema, ad esempio, escludendo da dibattiti con finalità decisionali inun determinato settore i consulenti che avessero ammesso legami finanziari con l’industria produttrice in quel settore . La questione non è certo di facile soluzione. La maggior parte dei consulenti di alto profilo scientifico collabora con l’industria in quanto essa, in molti casi, garantisce la continuità della ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci: il nesso fra chi decide e chi è aggiornato sulle ricerche in corso sembra inevitabile. Inoltre, può non essere sempre agevole appurare il tipo di legame finanziario intercorso, e ancora di più l’entità dell’influenza di detto legame sull’onestà dei singoli professionisti. In ogni caso l’OMS, a detta di molti, dovrebbe escludere dalle fasi di consultazione immediatamente precedenti le scelte coloro che hanno ammesso finanziamenti dall’industria. Trovare consulenti del tutto indipendenti può rivelarsi un’impresa, ma è urgente dotarsi di strumenti idonei alla soluzione del problema, come ad esempio una legislazione sulla gestione del conflitto di interessi, presente negli Stati Uniti (Sunshine ACT) ma ancora assente in Europa. Negli anni successivi al 2004 l’OMS pubblica altri importanti documenti di orientamento e guida nella preparazione a un eventuale evento pandemico, in particolare il WHO Global Influenza Preparedness Plan del 2005, il piano completo di preparazione alla pandemia, nel quale ancora una volta l’OMS omette di pubblicare le dichiarazioni di eventuale conflitto di interesse da parte degli autori. Ma un altro avvenimento rilevante si inserisce nella successione delle tappe che hanno scandito la storia di questa pandemia. Nell’anno precedente la comparsa nel mondo dei primi casi di influenza suina viene istituito per volontà del Direttore Generale dell’OMS uno specifico Comitato per le Emergenze, formato da una ristretta cerchia di 16 esperti, scelti fra le personalità scientifiche di consolidata fama ed esperienza nel campo delle malattie infettive, e in particolare dell’influenza. Tale commissione ha il compito di supportare il Direttore stesso nelle decisioni chiave inerenti la strategia di contrasto alla pandemia, in particolare riguardo alla tempistica delle fasi di allerta che corrispondono ai diversi livelli di rischio su base di popolazione (dalla fase 1, rischio molto basso, alla fase 6, rischio massimo e pandemia conclamata). L’identità dei membri di tale Comitato è stata sempre tenuta segreta allo scopo, a detta della stessa OMS interpellata più volte in proposito, di tutelarne la delicata attività dalle numerose influenze esterne. Ciò contrariamente a quanto previsto per altri gruppi di consulenza strategica, come ad esempio il Strategic Advisory Group of Experts on Immunization (SAGE ), che pure ha svolto un ruolo cruciale nell’emergenza pandemica e che, essendo formato da esperti pubblicamente dichiarati, si è trovato in non poca difficoltà quando si è trattato di gestire il carico di responsabilità, scaturito dal forte impatto mediatico che la pandemia avevascatenato. Tale segretezza ha sollevato nell’opinione di molti il dubbio che l’industria possa aver introdotto qualche suo adepto nel gruppo, allo scopo di orientare le decisioni soprattutto in merito alla dichiarazione di pandemia, evento dal quale è in massima parte dipesa la corsa ai contratti per la fornitura del vaccino. Del tutto recentemente l’OMS ha tuttavia abolito il segreto di identità, rendendo pubblici sul proprio sito, nella prima metà di agosto, i nomi dei membri del Comitato . In calce alla lista è riportata la dichiarazione da parte di alcuni di loro di aver effettuato dietro pagamento consulenze, seminari o conferenze o di aver ricevuto finanziamenti per la ricerca sullo sviluppo di vaccini contro l’influenza. Come la stessa Margaret Chan ha affermato in una lettera pubblicata lo scorso giugno in risposta agli articoli del BMJ, sarebbe stato possibile rivelare le identità dei membri solo al termine dell’attività, come da procedura fissata preventivamente, ed effettivamente è quello che si è verificato . In tale lettera la Chan respinge con fermezza tutte le accuse affermando che “mai, nemmeno per un secondo le mie decisioni sono state mosse da interessi commerciali”. Al di là dei toni molto accesi delle tante discussioni che hanno accompagnato la pandemia appena trascorsa, e del panorama inquietante suggerito dagli autori dell’indagine pubblicata sul BMJ, è evidente un fatto inconfutabile. Il clamore suscitato intorno al tema dell’insufficiente trasparenza della condotta decisionale dell’OMS in occasione del rischio pandemico, ha aperto una breccia e avviato un percorso di chiarezza dal quale sarà difficile tornare indietro. Come giustamente sottolinea un editoriale di Lancet , adesso è necessario adoperarsi per tener fede a un obiettivo essenziale: impedire che, in nome di un qualche interesse, venga sacrificato uno dei valori fondanti di qualsiasi società civile, e cioè la credibilità e la fiducia della gente nelle istituzioni di riferimento. Carla Perria, medico, lavora presso Laziosanità-Agenzia di Sanità Pubblica, Roma(...) Nazioni Unite e malattie croniche. Un’opportunità mancata per la salute globale La Riunione delle Nazioni Unite sulle malattie croniche non ha prodotto risultati concreti. Il ruolo delle industrie dell’alcol, cibo, tabacco e farmaci… La Riunione delle Nazioni Unite sulle malattie croniche non ha prodotto risultati concreti. Il documento finale non contiene alcun impegno temporale; non assegna risorse finanziarie alla prevenzione e al controllo; e non include nessun riferimento agli interventi di natura regolatoria e fiscale. Il ruolo delle industrie dell’alcol, cibo, tabacco e farmaci. Il 19 e 20 settembre 2011, nell’ambito della 66° assemblea generale delle Nazioni Unite, si è tenuta a New York una Riunione di alto livello sulle malattie non trasmissibili (UN High-level Meeting on Non-communicable Diseases – NCD), a cuihanno preso parte capi di Stato e rappresentanti ministeriali degli Stati membri dell’ONU. Si è trattato della seconda volta in cui un tema di salute globale sia stato affrontato dall’assemblea generale dell’ONU, a 10 anni di distanza dalla sessione speciale sull’AIDS, tenutasi il 25-27 giugno 2001, a cui fece seguito la Dichiarazione d’Intenti sull’HIV che ha guidato la formulazione delle politiche per la prevenzione il contrasto dell’epidemia da HIV negli ultimi anni a livello internazionale. Obiettivi della Riunione erano sensibilizzare la popolazione sul problema delle malattie non trasmissibili (o croniche – di seguito useremo tali termine), assicurare l’impegno da parte dei capi di Governo per avviare una risposta globale al problema, e adottare una dichiarazione politica – simile a quella del 2001 per l’HIV – che definisse le strategie di politica sanitaria da seguire per il contrasto di queste condizioni di salute. L’accordo unanime da parte degli Stati membri rispetto alla necessità di dibattere il tema delle malattie non trasmissibili, sancito dalla risoluzione numero 64/265 del 13 maggio 2010 dell’Assemblea Generale dell’ONU, ha finalmente acceso i riflettori dell’opinione pubblica e dei media su quella che da tempo è riconosciuta come una crescente emergenza sanitaria a livello globale. Ciò nonostante, i risultati della Riunione non sono stati convincenti. In particolare, il ruolo giocato dalle grandi corporation dell’industria alimentare, dell’alcol, del tabacco e del farmaco nel produrre una dichiarazione che – come riportato in un editoriale pubblicato da Lancet Oncology il 23 settembre 2011[2] – “manca di ambizione, e appare più come una dichiarazione politically correct che una dichiarazione politica di guerra”, è evidente. La Dichiarazione d’intenti, rilasciata il 20 settembre scorso, riconosce l’impatto economico e la scala epidemica del fenomeno. Identifica, inoltre, la presenza di fattori di rischio chiave per le malattie croniche (fumo, alcol, sedentarietà, alimentazione) e considera la prevenzione il fondamento della risposta globale a queste condizioni. Con la Dichiarazione, i Governi si impegnano quindi allo sviluppo di politiche intersettoriali nazionali e internazionali per controllare e prevenire le malattie non trasmissibili, partendo da precedenti accordi internazionali, quali la Convenzione quadro dell’OMS per il controllo del tabacco, la Strategia globale dell’OMS su alimentazione, attività fisica e salute, e la Strategia globale OMS per la riduzione dell’uso dannoso di alcol. Come strategie di politica sanitaria da adottare per il controllo delle malattie croniche, la dichiarazione promuove la diagnosi precoce e lo screening, l’aumento dell’accesso ai vaccini per tumori o condizioni croniche che possono essere ricondotte ad un’origine di natura infettiva e per cui esistono vaccini efficaci in commercio (es. vaccini anti-HPV e anti-HBV rispettivamente i tumori del collo dell’uteroe del fegato), e il miglioramento dell’accesso alle cure palliative. Secondo l’editoriale di Lancet Oncology, questi impegni rappresentano un buon punto d’inizio per affrontare l’impatto delle malattie non trasmissibili, ma il documento manca di alcuni elementi essenziali. Primo fra tutti, la definizione di target specifici per misurare il progresso delle strategie di contrasto alle malattie croniche, alcuni dei quali sono stati addirittura cancellati dalla bozza di risoluzione circolante fra gli Stati membri prima della Riunione: è successo, in particolare, al target di riduzione dell’introito giornaliero di sale a 5g. La Dichiarazione non ha neanche adottato il target proposto dalla Union for International Cancer Control (UICC) di ridurre entro il 2025 le morti evitabili dovute alla malattie non trasmissibili del 25%, valore considerato raggiungibile anche dall’OMS. Per misurare il progresso nella lotta alla diffusione delle malattie croniche, la Dichiarazione si limita a chiedere all’OMS di sviluppare entro il 2012 un sistema di monitoraggio e di sviluppare raccomandazioni per dei target globali, il cui raggiungimento non viene però considerato obbligatorio, ma volontario da parte degli stati membri. Inoltre, come giustamente sottolineato da David Stuckler, Sanjay Basu e Martin MvKee in un commento pubblicato sul BMJ alle soglie della Riunione di alto livello[3], “la bozza della Dichiarazione non ha nessun impegno temporale; non assegna risorse finanziarie alla prevenzione e al controllo delle malattie non trasmissibili; e non include nessun riferimento agli interventi di natura regolatoria e fiscale” . Secondo quanto raccontato dai tre autori, a un meeting preparatorio della Riunione di Alto livello tenutosi a New York a giugno 2011, rappresentanti degli USA, Europa e altri alleati chiave dell’Occidente avrebbero bloccato il raggiungimento di un consenso sulle azioni da intraprendere contro le malattie croniche a seguito delle attività di lobby delle industrie dell’alcol, cibo, tabacco e farmaci, conducendo di fatto a uno stallo delle negoziazioni sulla Dichiarazione politica finale. In un’analisi pubblicata sul BMJ da sull’influenza esercitata dalle industrie nella Riunione[4], Deborah Cohen evidenzia come le stesse industrie del cibo e dell’alcol abbiano partecipato in qualità di rappresentanti della “società civile”al meeting preparatorio di giugno, in cui molti dei relatori erano provenienti da gruppi rappresentanti dalle stesse industrie o da queste sponsorizzati. Secondo quanto riportato dal BMJ, rappresentanti della Glaxo-Smith Kline, Sanofi-Aventis e della Global Alcohol Consumers Group erano inclusi nella delegazione ufficiale degli Stati Uniti che ha partecipato alla Riunione di alto livello, mentre le compagnie di bevande Diageo e SABMiller vi hanno preso parte con la delegazione del Regno Unito. La Dichiarazione riconosce il conflitto d’interessi esistente fra l’industria del tabacco e la sanità pubblica, eproprio per questo nessun rappresentante di questo settore ha preso parte alla riunione. Fallisce però nel riconoscere un ruolo altrettanto importante dell’industria alimentare e delle bevande alcoliche. In particolare, per quanto riguarda l’alcol, tutti i riferimenti agli interventi efficaci e basati sull’evidenza per ridurre il consumo dell’alcol (controllo dei prezzi, tassazione, marketing) sono stati rimossi dalla Dichiarazione e sostituiti con raccomandazioni molto più generiche, più favorevoli alle industrie (partnership, azioni comunitarie, promozione della salute). Purtroppo,anche per quanto riguarda il tabacco, la Dichiarazione ha in realtà perso di forza: alcuni paesi produttori di tabacco del G77 (in particolare Cuba e Indonesia), secondo quanto riferito dalla Cohen, hanno infatti rifiutato di includere nel documento che tale conflitto d’interessi fosse “fondamentale e inconciliabile”. Altri Paesi, in particolare UE, USA, Canada, hanno fatto resistenza a riferimenti specifici sulla tassazione. Infine, l’influenza della Big Pharma non è mancata neanche in questa occasione: la stessa Non-communicable Diseases Alliance (NDA) – gruppo composto dalla World Heart Federation, la International Diabetes Federation, la Union for International Cancer Control, e la International Union against Tuberculosis and Lung Disease, fra i maggiori promotori della Riunione di alto livello- è , infatti, sponsorizzata da diverse case farmaceutiche e del settore tecnomedicale (fra queste, Roche, Medtronic, Sanofi-Aventis, Novo Nordisk, Takeda, Eli Lilly, Johnson & Johnson, e Pfizer). Non sorprende, quindi, che fra le raccomandazioni della Dichiarazione vi sia quella di sviluppare nuovi farmaci, vaccini e tecnologie mediche. Iona Heath, sempre sul BMJ[5], considera anche rischiosa l’enfasi posta nella Dichiarazione sulla realizzazione di programmi di screening, che, a suo avviso, “rischiano di mandare in bancarotta i sistemi sanitari pubblici dei paesi ricchi, immaginiamoci quelli dei paesi a risorse limitate, e di dirottare risorse dalle persone malate a quelle sane, e dai poveri ai ricchi”. La Riunione di alto livello, e la Dichiarazione politica da essa scaturita, nonostante abbiano portato le malattie croniche nell’agenda politica internazionale, non si sono dunque rivelate efficaci, rappresentando un’opportunità mancata per la salute globale. L’assenza di una forte base di “advocacy”, come quella osservata per la lotta contro l’HIV, ha condotto ad una mancata enfasi sulle questioni di giustizia sociale e disuguaglianza, e non ha trasmesso il senso dell’urgenza nell’agire. Come sostenuto da Stuckler e colleghi, in questo vuoto di “advocacy”, gli interessi forti hanno preso il sopravvento nel definire l’agenda delle malattie non trasmissibili. Un maggiore coinvolgimento della società civile potrebbe limitare il ruolo delle industrie in questo settore. Per compiere dei reali passi in avanti nel contrasto alle malattie nontrasmissibili, come suggerisce Lancet Oncology, i Governi dovranno accelerare la loro risposta al problema, senza attendere la lenta tabella di marcia proposta dalle Nazioni Unite. Annalisa Rosso. Istituto Nazionale per la Promozione della Salute delle Popolazioni Migranti ed il Contrasto delle Malattie della Povertà (INMP), Roma8...) Il sale della vita “La riduzione di sodio è importante – afferma la ditta di zuppe Campbell – ma dobbiamo occuparci anche di altre cose come il gusto e gli aspetti culinari”. Il paradigma del sale sta cambiando. Da elemento essenziale e sicuro per conservare il cibo, al centro del commercio mondiale già in epoche antiche, è oggi un additivo alimentare abbondante e senza restrizione, quasi onnipresente. Di conseguenza viene spesso consumato inavvertitamente, nascosto in cibi lavorati e confezionati e assunto in eccesso. L’eccessivo introito di sale fa parte, insieme al consumo di tabacco e alcol e all’inattività fisica, dei principali fattori di rischio delle Non-Communicable Diseases (NCD) in continuo aumento nei paesi a medio e basso reddito. Come priorità di intervento per combattere le NCD la riduzione del sale è seconda solo al controllo del tabacco. Si stima che una riduzione del 15% del quantitativo di sale assunto giornalmente possa evitare 8,5 milioni di morti in 10 anni in tutto il mondo L’obiettivo della World Health Organization è di ridurre l’assunzione a meno di 5 g (2000 mg di sodio) al giorno entro il 2025. Nell’Odissea, Ulisse peregrinerà, secondo la profezia di Tiresia, fino a quando non incontrerà gente che non conosce il mare, che non condisce il cibo con il sale e non sa usare il remo (Odissea, XXIII libro). Per un popolo come i greci, il mare e salare il cibo hanno lo stesso carattere di universalità. Quest’aspetto viene conservato anche per sottrazione: la riduzione dell’assunzione di sale è efficace nell’abbassare la pressione ematica sia negli uomini che nelle donne, in tutti i gruppi etnici, in tutte le fasce di età e da qualsiasi livello di pressione partano. La pressione alta è la maggiore causa di morte e disabilità nel mondo, a cui si deve circa il 50% delle morti per malattia coronarica e più del 60% degli ictus. Una modifica del comportamento o delle scelte a livello individuale non è un’opzione realistica ed efficace quando il sale viene aggiunto prima ancora che l’alimento venga venduto. L’aggiunta di sale è un trend globale che fa parte delle modifiche dell’economia mondiale del cibo. La relazione fra assunzione di sale con la dieta e pressione sanguigna fa sì che anche una piccola diminuzione della sua distribuzione renda possibile una riduzione del livello di pressione ematica. Una riduzione di 4,6 g nella dieta giornaliera (equivalente a 1840 mg di riduzione di sodio) riduce la pressione ematica di circa 5,0/2,7 mm Hg in persone ipertese e di 2,0/1,0 mm Hg nei normotesi. Diversi trial randomizzatihanno mostrato un consistente effetto dose risposta. Nonostante tutte queste evidenze a giugno il colosso Americano delle zuppe, la Campbell, ha annunciato l’innalzamento dei livelli di sodio, dai 480 mg fino ai 650 mg. Al precedente limite si era arrivati grazie a una politica di riduzione di contenuto del sale, ma le politiche di mercato hanno reso necessario il cambiamento “La riduzione di sodio è importante – ha commentato il nuovo amministratore delegato Denise Morrison – ma dobbiamo occuparci anche di altre cose come il gusto e gli aspetti culinari”. D’altronde il sale è la fonte più comune per dare sapore nei cibi processati e soprattutto la più economica. Il contrasto di interessi tra salute pubblica e industria del cibo era già ben espresso in un editoriale del 1996 del BMJ che denunciava il rifiuto da parte dei produttori degli alimenti di cooperare e riformulare i loro prodotti e il tentativo di manipolare i risultati degli studi che mostravano il chiaro legame tra assunzione di sale e ipertensione. La campagna è stata anche combattuta, come spesso accade in questi casi, sulle testate giornalistiche: nell’agosto del 1994 dalle pagine del Daily Telegraph e del Sunday Telegraph una review sui disturbi cardiovascolari che mostra lo stretto legame con l’eccessiva assunzione di sale viene screditata ancora prima di essere pubblicata e bollata come opera di un gruppo di attivisti del cibo sinistrorsi. A questo seguì nel maggio del 1995 il rifiuto da parte dei rappresentanti dell’industria a partecipare alla discussione con una task forse governativa su come ridurre il contenuto di sale negli alimenti. Una battaglia simile era già stata portata avanti dalla Sugar Association negli Stati Uniti e dal Sugar Bureau nel Regno Unito per contrastare il legame con obesità e carie dei denti. Il Regno Unito sembra però essere riuscito nel suo intento. Nel 2004 il governo britannico attraverso la Food Standards Agency, ha messo a punto un programma che comprendeva campagne di informazione per la popolazione e coinvolgimento dell’industria alimentare, che poteva scegliere di diminuire volontariamente il contenuto di sale o, in caso di rifiuto, subire un intervento ministeriale. Come risultato l’assunzione di sale nella popolazione è passato da 9,5 g del 2001 a 8,6 g del 2008. Buoni risultati, anche se non confrontabili con chi, come la Finlandia, ha iniziato la sua battaglia presto. La campagna, cominciata negli anni settanta, è riuscita a ridurre l’introito giornaliero di sale di un terzo (arrivando a 6 g al giorno), la pressione ematica di 10 mm Hg e ad abbassare del 75-80% la mortalità per stroke e malattia coronarica con un incremento da 5 a 6 anni nell’aspettativa di vita. Gli esempi che arrivano da tutto il mondo (Tabella 1 – PDF: 100 Kb) mostrano come la società civile, i governi, l’accademia e le organizzazione della salute siano tutte coinvolte. La base per una politica comune per regolarel’assunzione di sale dovrebbe essere composta da 4 aspetti fondamentali: Stabilire una comunicazione e valutare le campagne di informazione per il pubblico Riformulare il contenuto in sale negli alimenti esistenti e coinvolgere l’industria nello stabilire standard per i nuovi alimenti prodotti. Monitorare l’assunzione di sale nella popolazione, i progressi ottenuti dalla riformulazione e l’efficacia della comunicazione. Regolazione e coinvolgimento dell’industria, prestando attenzione al non creare svantaggi per le aziende maggiormente coinvolte. Negare o rimandare il problema, avvertono gli esperti, avrà un costo sia in termine di spese sanitaria che di malattia evitabile. Domitilla Di Thiene. Specializzanda in Igiene e Medicina preventiva, Sapienza Università di Roma – Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica
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