Saviano: ’Io, la politica, i partiti’
 











Roberto Saviano

-Non ho mai voluto candidarmi a parlamentare, mai ambito a nessuna carica politica, né di sindaco, né di ministro, nonostante abbia avuto molte proposte. Non intendo in nessun modo costruire liste, non intendo dare appoggi esterni, non intendo costruire consenso in modo da dirottare voti. Il mio ruolo e il mio lavoro li ho sempre visti da una prospettiva diversa: sono un narratore. Ragionerò, discuterò, farò il mio lavoro di raccontatore, reporter, scrittore, ma nulla che abbia a che fare con campagne elettorali-.
Ancora una volta si trova protagonista, nella veste meno gradita: alfiere di un partito, schierato a sostegno del centrosinistra. Una discesa in campo proclamata da ripetuti articoli, da intere prime pagine, con tanto di vignetta che lo raffigura come un novello Lenin alla guida dell’assalto al Palazzo d’Inverno. E ancora una volta Roberto Saviano si scopre icona ignara: leader a sua insaputa di una formazione elettorale.
Un po’ comefece Silvio Berlusconi quando nel primo incontro con Saviano rimase stupito per il look sgarrupato e ordinò al suo assistente di comprargli un paio di scarpe nuove. Ma nei sei anni trascorsi dal successo di "Gomorra" gli approcci dei partiti nei suoi confronti sono stati tanti. Silvio Berlusconi nel primo incontro con Saviano rimase stupito per il look sgarrupato e ordinò al suo assistente di comprargli un paio di scarpe nuove. Alcuni hanno fatto leva sulla sintonia nella lotta antimafia. Come quando nel 2006 Fausto Bertinotti, presidente nella Camera, lo accompagnò sul palco di Casal di Principe per il discorso che provocò la prima bordata di minacce e l’inizio della vita blindata. O come quando una sua intervista in cui parlava dell’impegno anti-camorra del vecchio Movimento Sociale, ricordando che Paolo Borsellino si riconosceva nella sua area, lo rese improvvisamente simpatico ad An: da Gianfranco Fini a Giorgia Meloni corsero a offrire una casacca. Persino la Lega, con il sindacodi Treviso Gianpaolo Gobbo, ipotizzò di candidarlo alle Europee. Più altalenante il corteggiamento del Pd. Massimo D’Alema gli prospettò un’investitura e un avvertimento: «Diventa sindaco di Napoli, ma se entri nella scena nazionale ti farai male...». Nella sfortunata campagna del 2008, Walter Veltroni a pochi giorni dal voto affrontò la terra dei casalesi. Ma lo scrittore disertò il palco e rispose con una lettera aperta chiedendo «più coraggio e più fatti».
Ne abbiamo parlato con lo stesso Saviano, in un’ampia intervista in edicola sul nuovo numero dell’Espresso, di cui qui anticipamo ampi stralci.
Di tante proposte avanzate negli scorsi anni nessuna l’ha mai tentata?
«In realtà non le ho avvertite come vere e proprie proposte, più come un modo per capire quali fossero le mie intenzioni. Per potersi tranquillizzare o eventualmente correre ai ripari».
Ma prima di questa campagna sulla "Lista Saviano" qualcuno l’avrà contattata per chiederle conferma...
«Mai nessuno. Nonmi hanno cercato né i politici con cui sarei schierato, né i giornalisti che ne hanno scritto. Sarebbe bastato mandarmi una mail e aspettare la mia risposta. Ma nessuno l’ha fatto, perché una mia risposta avrebbe obbligato a essere netti, chiari, a non avanzare ipotesi. E hanno naturalmente ignorato le mie smentite, mandate alle agenzie di stampa e pubblicate anche su "l’Espresso"».
Eppure la questione sembra avere fatto presa anche tra i social network, dove ha un milione mezzo di fan su Facebook e 200 mila follower su Twitter. Persino in questa colossale arena virtuale di persone reali le sue smentite sono state accolte con perplessità.
«Lì la campagna sulla fantomatica "Lista Saviano" ha rafforzato una visione perversa che considera la politica sinonimo di schifezza: un coacervo indistinto di corruzione e faccendieri. Sono proprio i social network a dare il metro di quanto siano screditati non solo i partiti ma tutta la sfera della politica. Annunciare la mia presuntacandidatura diventa strumento di diffamazione: una carica pubblica che dovrebbe essere ambita, voluta e autorevole, viene invece percepita come diffamante».
Qual è la sua idea di politica? Crede nel ruolo dei partiti?
«Non mi sono mai schierato in un gruppo o in un partito, il che non significa aver mantenuto una posizione di equidistanza. Non credo nella partitocrazia. Credo ovviamente in quello che i partiti significano, ovvero cittadini che si uniscono e si organizzano per dare il loro contributo alla costruzione democratica di un Paese. In questo momento la parola "partito" è una parola perdente. Nessun gruppo politico può più pensare che con il termine "partito" - inteso come brand - possa oggi parlare alle persone: "partito" ormai coincide con corruzione. Su Facebook tutto è istinto, tutto è immediato, spesso si legge un post e la risposta arriva fulminea: "Non fare politica perché è una schifezza", "Sono tutti sporchi". Ormai non si riesce più a distinguere tra politici, eanche se è ingiusto e demagogico generalizzare, la politica ha davanti a sé un’unica strada: deve repentinamente, imperativamente, immediatamente cambiare rotta. Anche chi non si ritiene colpevole, deve capire che è il momento di spalancare le porte alle nuove generazioni. E’ necessario che nuove persone abbiano la possibilità di mettersi in gioco. Ci vorrà tempo per imparare le regole, si potrà sbagliare, ma almeno avranno sbagliato persone e storie diverse. Inizierà una sperimentazione e la credibilità dei partiti, ora in caduta libera, potrebbe risollevarsi. Benjamin Franklin diceva che quando le persone, gli elettori, percepiscono chiaramente una mancanza di etica nella classe politica e un’eccessiva presenza di moralismo vuoto e di facciata, si convincono di potersi sostituire a essa. Franklin temeva l’oclocrazia, il governo delle masse, senza selezione, senza riflessione e senza merito, ponte naturale tra degenerazione della democrazia e oligarchia. E’ una riflessione che vedoattualissima perché scorgo il pericolo, di fronte allo smarrimento politico che stiamo vivendo, che il luogo comune diventi un punto di riferimento».
Oggi i campioni dell’astensionismo sono i giovani. E lei è forse l’unica figura che riesce a dialogare con loro. Anche per questo Saviano fa paura?
«L’astensionismo è dovuto al fatto che molti della mia generazione - ma credo che si astengano elettori di tutte le fasce d’età - credano che il loro impegno non faccia la differenza. Oltre a un sistema elettorale iniquo voluto dal governo Berlusconi, ma che fa comodo a quasi tutti i partiti, ciò che ha contribuito ad allontanare gli elettori dalla politica è la constatazione che la comunicazione politica sia diventata essenzialmente gossip».
Perché nell’intero panorama dei partiti non c’è un solo trentenne con un ruolo da protagonista?
«E’ il sistema paese che non dà spazio ai giovani, che non vengono visti come risorse ma come concorrenti cui tagliare le gambe. Anche il "faregavetta" si è trasformato in qualcosa che può risultare intollerabile. Gavetta non è impegno maggiore nello studio o nel lavoro, ma significa "servire", "stare dietro qualcuno". L’anzianità è considerata una dote a prescindere. Il Paese è vecchio, nelle redazioni dei media i trentenni fanno una fatica immensa a farsi ascoltare e spesso sono proprio loro ad aver più cose da dire. La mia è una generazione di emigranti che non viene a patti. Ciò significa andare in Olanda, in Francia, in Belgio, in Gran Bretagna, negli Usa, ovunque, piuttosto che stare qui a mal sopportare. Quello che in Italia bisognerebbe comprendere è che lo spazio che si può e si deve dare ai giovani è lo spazio che si può e si deve dare al talento».
Il premier Monti la scorsa settimana ha chiesto sacrifici per fare spazio ai giovani, registrando l’egoismo generazionale di altre categorie. Cosa serve alla sua generazione per potersi imporre?
«Forse un po’ di fiducia in più in se stessi: prendersela anzichéaspettare ci venga data e forse più coesione. Sta accadendo che in una situazione di incertezza e precariato si è in guerra, la guerra di tutti contro tutti. Piuttosto che supportarci e sostenerci, spesso ci si disprezza e i toni finiscono per essere violenti. Invece la dote dei trentenni è di essere meno ideologizzati rispetto ad altre generazioni e saper pensare l’Italia all’interno di uno scacchiere internazionale. La mia è la generazione di quella formidabile rivoluzione che è stato il Progetto Erasmus: è stata la prima ad aver potuto studiare in Europa, leggere quotidiani stranieri e rendersi conto che quasi ovunque le prime pagine sono di politica estera e non sempre soltanto di politica interna. La dote dei trentenni di oggi è sentire di avere cittadinanza europea e mondiale di pensare la propria vita e la vita italiana come un capitolo del mondo»...  Gianluca Di Feo









   
 



 
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