La storia dell’umanità è fatta da coloro che riescono ad incidere sul mondo sia con proprie compiute opere o già solo suscitando quella scintilla che, attraverso la genialità d’altri, genererà fuochi calorosi ed illuminanti. Ed è quest’ultimo il ruolo più significativo svolto nella storia della musica da John Field, compositore e pianista irlandese, nato a Dublino il 26 luglio 1782, figlio di Robert, pastore protestante e suonatore di violino, e nipote di nonno John, che gli darà le prime lezioni di pianoforte. All’età di dieci anni, con la famiglia, si trasferisce a Londra. Qui avrà modo di studiare con Muzio Clementi. Sarà poi a Vienna e Parigi, fino ad approdare in Russia, dove si sposerà ed acquisterà una sua fama di artista. Girerà per l’Europa, sarà anche a Napoli. Finirà i suoi giorni a Mosca, il 23 gennaio 1837. È autore di ben sette concerti per pianoforte ed orchestra, sonate, fantasie, rondò, studi, danze, variazioni, masoprattutto diciotto notturni per pianoforte, forma musicale che a lui deve precipua paternità, sostanzialmente composizioni brevi, dal tono lirico, dove una melodia toccante e cantabile è sostenuta da un accompagnamento sommesso a suscitare proprio un’atmosfera di raccoglimento intimo serotino. Una forma musicale che stimolerà la creatività di insigni epigoni come Chopin, Scriabin, Fauré o Satie, con noti, gradevolissimi risultati. Oggi i notturni di John Field vanno quindi ascoltati anche per il loro valore documentario, chiarificatore degli sviluppi che questo genere avrà poi nella storia ed esaltatore delle meraviglie che attraverso l’ingegno altrui saprà suscitare. L’atmosfera di questa sorta di composizione è sognante ed incantata, la sonorità del pianoforte inclina ad innalzarsi al di sopra della sua terrena fisicità meccanica fatta di brevi suoni di percussione per nobilitarsi, attraverso la sapiente distribuzione dei suoni dell’accompagnamento ed il prezioso effetto dipersistenza di questi nell’aria anche, in virtù dell’uso del pedale destro, dopo che il dito ha lasciato il tasto, in impalpabilità estatica, quasi sovrannaturale. E se il risultato emotivo delle pagine dell’irlandese non è altrettanto pregno, magico, toccante, intimamente comunicativo, meravigliosamente ineffabile come quello dei notturni di Chopin (si confronti già solo il primo, l’op. 9 n. 1, del compositore polacco), il merito di John Field resta incontestabilmente tutto in quell’intuizione estetica, autentica profezia artistica che ha preziosamente offerto l’humus nutriente e solido in cui il genio di Żelazowa Wola seppe poi affondare abbaglianti, ispiratissime radici.
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