Prenderò come punto di partenza quegli appelli che, in quanto `europei', ci arrivano dagli Stati Uniti d'America e più in particolare dagli intellettuali americani liberal. La cosa ci lusinga ma allo stesso tempo ci preoccupa. Vediamo in essi la prova che esistiamo, e temiamo l'equivoco. Voci d'America Nonostante le loro divergenze, visto che le politiche cui fanno riferimento vanno dal socialismo al neo-repubblicanesimo, i professori universitari o gli scrittori che si rivolgono a noi mettono in primo piano i medesimi principi: il carattere inalienabile dei diritti civili e giuridici dell'individuo, la responsabilità dei governi di fronte al popolo, la sottomissione del potere militare al potere civile, la difesa del diritto internazionale. Chiedono all'Europa di pesare sulla politica americana, sia nel proprio interesse che in quello dell'America e della democrazia. L'appello che cilanciano è quello di una minoranza critica verso il proprio paese e comunque verso scelte imposte dai rappresentanti della maggioranza, che potrebbero avere conseguenze drammatiche per tutti. Nella sostanza, esso parte dal principio `multilateralista' in base al quale, in un mondo globalizzato, anche la più grande potenza non può tutelarsi da sola ma può invece, e a maggior ragione, perdersi insieme a tutti… Di questi appelli ho raccolto qui quattro esempi: le loro incertezze riguardo al genere di aiuto che si aspettano ci interessano almeno quanto la forza dell'appello che essi lanciano. Primo esempio: Bruce Ackerman, eminente costituzionalista e filosofo politico di Yale, si presenta come un civil libertarian. Nella «London Review of Books» dello scorso 7 febbraio, sotto il titolo Don't Panic, profetizza una serie di avvenimenti simili all'undici settembre, e nota che «se la reazione americana deve dare l'esempio, c'è un urgente bisogno di riesaminare la garanzia costituzionaledelle libertà civili […], altrimenti quattro o cinque attacchi dello stesso tipo basteranno a distruggere le libertà civili in meno di mezzo secolo» 2. Tuttavia, a suo parere, i liberal non sarebbero in grado di porre i diritti come assoluti intoccabili: non solo entrerebbero in conflitto con il sentimento collettivo e le esigenze della sicurezza, ma lascerebbero senza risposta i problemi costituzionali che ogni situazione di grave crisi solleva. In particolare, Ackerman teme la manipolazione delle angosce collettive volta ad attaccare in modo durevole le libertà pubbliche. La nozione di una «guerra senza una prevedibile fine» contro il terrorismo, minaccia tanto le libertà degli americani quanto quelle degli stranieri, mettendo in pericolo l'equilibrio costituzionale dei poteri tra il governo, il Congresso e il potere giudiziario. A suo avviso, l'unico rimedio è la definizione di uno `stato di emergenza' accuratamente delimitato in cui la sospensione della normale legalità rimangasotto il controllo dei `difensori della libertà', nazionali o stranieri. Ed ecco il suo appello finale: L'Europa influenza già politicamente questa dinamica. Rifiutando di consegnare persone sospettate al governo Bush, gli spagnoli hanno raffreddato il suo entusiasmo per i tribunali militari eccezionali. La nazionalità francese di Zacarias Moussaoui, sospettato di essere il ventesimo terrorista dell'undici settembre, ha costretto l'Attorney General (John Ashcroft) a mandarlo davanti a un tribunale civile […] Ma nel futuro non basterà resistere in questo modo alle minacce contro le libertà. È necessario che gli europei prendano l'iniziativa per soluzioni attive […] prima che Londra o Parigi non vengano, esse stesse, prese a bersaglio […] Ogni grande Stato europeo che adotterà una legge costituzionale che inquadri rigorosamente lo stato d'emergenza le conferirà per ciò stesso una portata mondiale e mostrerà la `guerra senza fine' sotto la sua vera luce, quella di una soluzione falsae delirante per un problema reale. È un testo sorprendente, pur tenendo conto del fatto che sia stato pubblicato su un giornale inglese. Suggerisce che alcune delle nostre tradizioni giuridiche possano costituire un polo di resistenza alla militarizzazione della politica che minaccia, fuori e dentro gli Stati Uniti, di distruggere i valori nel nome dei quali è stata dichiarata la `guerra al terrorismo'. Chiede all'Europa di farsi baluardo del diritto internazionale per impedire la corruzione dei principi costituzionali, in particolare il principio della divisione dei poteri, evitando in tal modo che la democrazia sprofondi nello stato di emergenza o nel colpo di Stato permanente. Secondo esempio: Immanuel Wallerstein, teorico del «sistema-mondo» e fondatore del Fernand Braudel Center. Nella sua conferenza del 5 dicembre 2001 L'America e il mondo: le Twin Towers come metafora 3, lancia anche lui un appello agli europei, o meglio un appello agli americani perché ascoltino glieuropei. Ricordando che gli Stati Uniti hanno sempre cercato di confrontarsi col mondo intero per convincersi della propria superiorità, egli mostra che la sfida lanciata da al Qaeda non ha precedenti perché materializza, per la prima volta, sentimenti anti-americani ampiamente diffusi in un attacco cui gli americani si rivelano tanto impreparati perché si scatena proprio sul loro territorio. Anche per Wallerstein la `guerra totale' anti-terrorista che ne scaturisce è in grado di attentare in modo duraturo alle istituzioni americane. In quale misura? Questo dipenderà dal modo in cui gli americani stessi riusciranno a comprendere appieno le fragilità – di cui all'improvviso scoprono l'esistenza – della propria potenza. Dalla fine del loro dominio incontrastato sull'economia-mondo, gli Stati Uniti hanno usato diverse strategie per eliminare i propri rivali: containment, neutralizzazione, interventi o incoraggiamenti alla sovversione, politiche di non proliferazione… Gli Stati uniti «siconsiderano affidabili per quanto riguarda l'uso delle armi di distruzione di massa al servizio della libertà», supponendo invece che qualsiasi altra potenza possa usarle contro di loro (senza che qui si possa notare una differenza tra `libertà' e `interesse nazionale americano'). Quanto a me, aggiunge, «nessun governo mi rassicura su un uso saggio delle armi di distruzione di massa e preferirei vederle vietate in tutto il mondo, ma nell'attuale sistema interstatale non credo esista la possibilità di riuscirci. Perciò mi astengo dal tirare in ballo la morale in tale questione…». Wallerstein esprime il timore che, per ristabilire l'egemonia simboleggiata dalle torri del World Trade Center, gli Stati Uniti sacrifichino gli ideali di libertà e di universalità che erano connessi con quella egemonia. Perché le cose procedano in un altra direzione sarebbe necessario che gli americani fossero capaci di rinunciare alla promessa illusoria di ristabilire il dominio delle certezze e dellesicurezze incrollabili, e affrontassero il rischio del confronto col mondo esterno, alla ricerca di una civiltà di cui essi non sarebbero più gli alfieri esclusivi. Di qui l'urgenza di favorire il «dialogo tra eguali» tra l'America e l'Europa (ma anche il Canada, il Messico, il Giappone, «gli alleati e gli amici più vicini» degli Stati uniti, che per loro rappresentano in qualche modo il resto del mondo) per uscire dal cerchio della sfida mortale tra terrorismo e anti-terrorismo. Questa posizione cerca di rifondare l'universalismo. Essa assume la forma della difesa del multilateralismo contro il tentativo degli Stati Uniti di mascherare il proprio declino economico relativo con un'egemonia militare senza eguali, benché essa stessa sia apparsa vulnerabile. Il compito dei progressisti è quindi di resistere contemporaneamente al `Behemoth' e al `Leviatano', ovvero alle forze della sovversione nutrita di integralismo religioso e, simmetricamente, alla violenza legittima monopolizzata suscala mondiale da un'unica superpotenza. Si deve lavorare alla ricostituzione di un equilibrio multipolare tra le forze mondiali, siano esse di carattere nazionale o post-nazionale. Per questo, nel suo intervento alla `conferenza anti-globalizzazione' di Porto Alegre nel gennaio del 2002, Wallerstein ha preso posizione a favore dell'Unione europea: pur trattandosi ancora di una potenza `imperialista', che sfrutta una parte del mondo (l'Africa in particolare…), essa non di meno rappresenta la possibilità di tenere testa alla superpotenza americana 4. Perché, come diceva Mao, c'è contraddizione (principale) e contraddizione (secondaria)… Terzo esempio: Timothy Garton Ash, lo storico inglese specialista dell'Europa dell'Est, direttore del Centro di studi europei di Oxford e ricercatore alla Hoover Institutions di Stanford. In un articolo del «New York Times», intitolato precisamente Il pericolo dell'eccesso di potere (The Peril of too much Power), egli nota che la domanda che ci si poneoggi nel mondo non è più, come nel ventesimo secolo, di sapere che cosa bisogna pensare della Russia ma che cosa bisogna pensare dell'America 5. Respingendo l'immagine «caricaturale» dell'America come un concentrato degli elementi imperialisti del capitalismo, tanto più se le si contrappone una Europa virtuosa, egli sostiene innanzitutto la sua diversità e le sue contraddizioni. Evocando la potenza universale dell'immaginario americano («pur essendo cresciuti a Bilbao, a Pechino o a Bombay, tutti in testa abbiamo New York»), egli suggerisce che l'esistenza di una cultura americana sia indiscutibile, mentre l'esistenza di una cultura europea è molto più problematica. Prendendo come esempio la politica americana in Medio Oriente, in Iraq come anche in Israele-Palestina, Garton Ash sostiene che il problema è costituito dall'eccesso di potenza militare degli americani nel mondo, dal quale – decidano o meno di servirsene – non può venire nulla di buono... Se si vuole evitare che diventidistruttivo, ogni potere esige un contro-potere. Ora, i contro-poteri interni nel nostro caso non bastano più. «Chi può quindi bilanciare la potenza americana? Le Nazioni Unite, le organizzazioni non governative hanno delle possibilità ma neanche loro bastano. Secondo me, c'è solo l'Europa – una potenza economica uguale a quella degli Stati Uniti, aggregazione di Stati che godono di una lunga esperienza diplomatica e militare, l'Unione europea […] sta progressivamente acquistando la consistenza cui ambisce». Eppure un ostacolo c'è: «l'abisso tra la capacità militare europea e quella degli Stati uniti è sempre più profondo». Di qui il difficile compito che attende gli europei: rifare dell'Europa una potenza militare, accrescere la sua autonomia senza per questo sviluppare l'anti-americanismo ma cercando la concertazione (partnership) invece della rivalità… Secondo Garton Ash, gli americani non hanno nessun autentico interesse ad assumere, da soli, il ruolo dell'iper-potenza. Ultimoesempio: Edward Said. È noto che il professore della Columbia di origine palestinese, autore dei bestseller Orientalismo (1978) e Cultura e imperialismo a (1993), è anche un cronista assiduo della stampa inglese, egiziana e americana. In uno dei suoi ultimi articoli, Europa o America, registra una serie di sorprendenti differenze tra gli Stati Uniti e l'Europa scoperte durante i suoi soggiorni in Inghilterra, non prive di implicazioni politiche. In particolare, il carattere molto più radicato del fondamentalismo cristiano negli Stati uniti 6. «Negli Stati Uniti, i cristiani fanatici formano il cuore dell'elettorato di George Bush, un blocco senza eguali di 60 milioni di elettori». È dalla convergenza tra questo fondamentalismo e il neo-conservatorismo dei `valori americani' consolidato all'epoca della guerra fredda che derivano oggi la buona coscienza `unilateralista', la politica intimidatoria che minaccia il mondo intero e la pretesa di portare avanti una missione divina, che,paradossalmente, alimenta tanto il profondo antisemitismo quanto la ricerca di uno scontro con il mondo arabo nemico di Israele. Nulla di tutto questo – secondo Said – esisterebbe con la stessa intensità in Europa, dove il potere reale, meno corrotto, sarebbe anche relativamente meglio controllato dai cittadini. Per questo l'Europa, e in particolare la sinistra europea, avrebbe una visione del mondo meno manichea degli americani, tranne nei casi in cui cerca di diventare ancora più americana degli americani (è il caso «sconcertante» di Tony Blair, che, tuttavia, costituisce, secondo Said, agli occhi di molti dei suoi compatrioti un'aberrazione, «un europeo che ha deciso di cambiare identità»…). «Tuttavia – conclude Said – mi piacerebbe proprio sapere quando l'Europa prenderà coscienza di se stessa e si deciderà ad assumere il ruolo di contrappeso che le impongono la sua statura e la sua storia. Nel frattempo, la guerra si avvicina inesorabilmente.» Illusioni e contraddizioni Nonpossiamo restare insensibili a questo appello all'Europa che ci arriva dagli intellettuali americani (e da altre parti del mondo, anche se non esattamente negli stessi termini). Esso tocca infatti il nostro comune interesse. Vediamo anche che, a dispetto della diversità di schieramento dei loro autori, tutti questi testi hanno come `un'aria di famiglia'. È necessario tuttavia domandarsi se le loro richieste non siano contraddittorie e se non abbiano sostituito all'Europa reale un'Europa immaginaria. Non insisterò su quel che è evidente, vale a dire che alcuni liberal americani si preoccupano soprattutto del futuro della democrazia americana, mentre altri adottano un punto di vista più `globale' (arrivando a sostenere che dal modo in cui gli Stati Uniti trattano i valori democratici nel resto del mondo dipende la loro capacità a farli vivere a casa loro). Più sorprendente è il modo in cui queste voci si collocano, e ci collocano, rispetto alle grandi divisioni del mondo del dopoguerra fredda. Mentre gli uni ci chiedono di essere completamente `occidentali', gli altri ci chiedono di colmare la differenza tra l'occidentalismo americano e l'identità europea. Altri ancora vedono nell'Europa il potenziale intermediario di una grande trattativa a cui un giorno bisognerà arrivare: quella che metterà faccia a faccia l'impero americano e i suoi `altri' autentici, i popoli e le culture del Sud e dell'Est, del Mediterraneo, del Terzo Mondo. Sono differenze notevoli, se non contraddizioni, che trovano corrispondenze anche fra noi. Più singolare ancora è la tensione presente in questi discorsi tra due modi di formulare l'appello all'Europa: come richiesta di ri-equilibrio e di contrappeso alla potenza americana o come richiesta di mediazione nel `conflitto di civiltà' cui ormai l'America ha deciso di consacrarsi. La prima formulazione si inscrive in una logica `strategica' di rapporti di forze, che tende a trovare la sua ultima ratio nel rapporto tra le forze militari.La ragione per cui essa si rivolge all'Europa più che alla Russia, al Giappone o alla Cina, sta senza dubbio nel fatto che i suoi autori attuano una specie di transfert dell'America sull'Europa: contano virtualmente su di essa per ritrovare quella combinazione ideale della forza e del diritto da cui l'America sembra allontanarsi. La seconda formulazione si inscrive in una logica di influenze morali e sociali che non esclude le considerazioni di potenza ma le subordina a un processo più generale di trasformazione sociale. Qui, il fatto che l'Europa sia separata dagli Stati Uniti da uno squilibrio di potenza militare apparentemente invalicabile non è necessariamente un handicap, ma il problema che si pone è sapere se essa rappresenti davvero questa alternativa a cui si aspira. In queste due prospettive, `multilateralismo' non vuol dire esattamente la stessa cosa. Mentre la prima è compatibile con un confronto tra `isolazionismi' inversi, la seconda suppone che la possibilità stessadell'isolamento sia oggi anacronistica, sia tra alleati che tra nemici: la realtà non è un `diritto di ingerenza' ma un `fatto dell'ingerenza' o dell'interpenetrazione di cui a noi spetta soltanto di organizzare le modalità e cercare di dirigere gli effetti. Sarebbe interessante parlare del modo in cui alcune voci europee, ufficiali o meno, hanno `risposto' a queste richieste. Ancora più interessante però è soffermarsi sul modo in cui, proprio in America, esse sono state prontamente screditate. Il testo che colpisce di più in questo senso è lo studio pubblicato dall'esperto del Carnegie Endowment for International Peace, Robert Kagan, a cui la stampa di entrambe le parti dell'Atlantico hanno dato ampia eco 7. Prendendo a bersaglio un'opinione europea le cui posizioni corrisponderebbero precisamente a ciò che i liberal americani invocano, Kagan scrive che «gli europei credono di essersi incamminati verso il superamento dei rapporti di potenza in un mondo autosufficiente di leggi e diregolamenti, di negoziati e di cooperazioni transnazionali». L'Europa sarebbe entrata con il pensiero in un «paradiso post-moderno», realizzazione del sogno kantiano della `pace perpetua'. Al contrario «gli Stati Uniti continuano ad annaspare nel fango della storia terrestre, esercitando la loro potenza nel mondo hobbesiano della guerra di tutti contro tutti in cui non ci si può mai affidare alle regole internazionali, in cui la sicurezza e l'istituzione di un ordine liberale continuano a dipendere dall'uso della forza militare». Da dove proverrebbe l'avversione europea all'uso della forza quale mezzo per regolare i conflitti internazionali? Non, secondo Kagan, da una specifica identità degli europei, che ne hanno fatto per primi abbondantemente uso nei secoli passati quando la loro potenza dominava il mondo, ma semplicemente dal fatto che si sono indeboliti e non hanno più le risorse della politica di potenza. L'Europa e l'America hanno in qualche modo così scambiato le loro `culture'politiche: sono gli europei che hanno ripreso il sogno wilsoniano di una società delle nazioni che metta fine alle guerre e alla Machtpolitik di cui hanno subito le conseguenze sulla propria pelle. L'unica cosa che gli europei non prendono in considerazione è che, in realtà, il loro pacifismo morale ha, come condizione della propria esistenza, la potenza militare americana. «Joschka Fischer e altri sono stati obbligati a riconoscerlo, sono gli Stati Uniti che hanno reso possibile la nuova Europa, portando alla vittoria la coalizione democratica nella seconda guerra mondiale e nella guerra fredda, permettendo così la soluzione del problema tedesco. Anche oggi il rifiuto della politica di potenza da parte degli europei si tiene in piedi solo per via della disponibilità americana a usare la forza ovunque nel mondo contro quelli che, da parte loro, nella forza non hanno mai smesso di credere.» Gli europei possono concedersi il lusso di essere kantiani perché gli Stati uniti sono semprehobbesiani… «Gli europei, per la maggior parte, non si rendono conto di aver avuto la possibilità di passare alla post-storia solo perché non ci sono passati gli Stati uniti». Di qui la «traiettoria di reciproca collisione» sulla quale gli europei e gli americani, restando sempre formalmente alleati, ora si collocano nel momento in cui i primi vedono nei secondi un mostro pericoloso e i secondi nei primi degli obiettori e dei traditori potenziali. E Robert Kagan pone la domanda: è meglio prendere atto della separazione o tentare di riempire l'abisso culturale? Non è necessario forzare l'interpretazione del suo testo per fargli dire che il punto di vista `europeo', quello della «religione del diritto», è al tempo stesso impotente, illegittimo e infine auto-distruttivo. All'idea che gli americani sarebbero diventati «troppo potenti», Kagan oppone l'idea che gli europei, ahimé, non lo sono più «abbastanza». Il problema che si pone è duplice: c'è quello della `potenza' europea; c'èquello della sua `capacità politica' nel mondo di oggi, soprattutto nella risoluzione dei conflitti, e di conseguenza della nozione di politica a partire dalla quale quella capacità viene definita. A questo proposito sosterrò la seguente doppia tesi: è vero che in un certo senso l'Europa non esiste come soggetto politico, ovvero come soggetto di una potenza politica, e sotto questo aspetto la richiesta che le viene fatta di pesare sul corso delle cose o di `fare da contrappeso' è puramente illusoria. D'altro canto però, l'idea di mediazione non si riduce, o si riduce sempre meno, all'alternativa tra la potenza (in fin dei conti la forza militare) e l'impotenza (che si traveste da politica morale), pur essendo vero che essa debba tradursi sul piano diplomatico e istituzionale. Quindi il problema che si pone è sapere come si dovrebbe pensare l'eventualità di una mutazione nei rapporti fra la politica e la potenza, o meglio nella nozione stessa di potenza. È sicuro che la capacitàpolitica europea, condizione della propria esistenza come forza autonoma, da un certo punto di vista non supera l'esame. Il `peso' economico è un argomento debole, soprattutto in un'economia globalizzata: anche se cristallizzato in una moneta comune, rappresenta solo un aggregato statistico che oscillerà a lungo finché non gli corrisponderà, appunto, una `volontà' strategica o, se si preferisce, `una politica economica', e quindi sociale, indipendente. Se si prende come esempio il recente scontro alle Nazioni Unite sulla questione se gli Stati uniti avessero la libertà di scatenare una guerra preventiva contro l'Iraq oppure dovessero passare attraverso una procedura internazionale che, almeno in teoria, dà al regime iracheno la possibilità di dimostrare la sua buona fede – scontro che nel momento in cui parlo è finito con un compromesso (che non pregiudica il seguito) – risulta chiaro che non è `l'Europa' ad avere, per quel poco, equilibrato la potenza americana 8. Ma è la convergenzamomentanea e fragile degli sforzi di poche potenze medie per non essere `emarginate' nelle relazioni internazionali: la Francia, la Germania, la Russia, la Cina, il Messico, che, da una parte, non formano tutta l'Europa e, dall'altra, la oltrepassano. Forse hanno pesato gli avvertimenti discreti di alcuni paesi arabi dei quali gli Stati Uniti hanno bisogno per le basi militari e le forniture di petrolio. E pesano, non dimentichiamolo, alcune divisioni, se non addirittura alcuni conflitti di interesse, interni alla potenza americana stessa. Ma, soprattutto, l'argomento decisivo è quello dell'incapacità dell'Europa a risolvere i suoi stessi problemi senza `l'aiuto' degli americani. Siamo esattamente nello schema inverso di quel che i liberal desiderano. A questo proposito ci sono esempi recenti e drammatici e la loro lista non è esaustiva. L'Europa non è capace di risolvere il problema irlandese in cui sono coinvolte due delle sue vecchie nazioni. Non è stata capace di ostacolare laguerra civile nella ex Jugoslavia, che ha dato luogo ai peggiori crimini contro l'umanità dall'epoca del nazismo, né offrendo alle comunità coinvolte una prospettiva di sviluppo e di coesistenza nell'ambito europeo, né intervenendo militarmente in modo efficace – finché non è stata la Nato a direzione americana a procedere nell'intervento (in forme e con risultati più che discutibili). Così gli americani hanno buon gioco nello stabilire una continuità con il loro sbarco in Europa che ha messo fine allo scatenamento della barbarie nel corso di due guerre mondiali (anche se nel medesimo contesto tendono a dimenticare la resistenza sovietica al nazismo, che invece non era sfuggita ai contemporanei, per i quali Omaha Beach andava insieme a Stalingrado). Quel che forma una costante della storia del ventesimo secolo non è la mediazione europea nei conflitti in cui l'America è parte interessata, ma piuttosto è la mediazione americana nei conflitti che dilaniano l'Europa e dimostrano la suaincapacità di tradurre in atti politici l'identità storica e morale di cui si vanta. Ciò vale anche per il modo in cui si comporta l'Europa di fronte alle situazioni di violenza estrema collocate alle sue `frontiere', nelle quali è implicata sotto il riguardo delle cause passate, degli effetti attuali e delle conseguenze future, e che formano una sorta di lunga serie di abdicazioni collettive: Algeria, Palestina/Israele, Cecenia… Ogni volta secondo modalità differenti che rimandano alla storia e alla geografia, si tratti di un retaggio coloniale o dell'eredità delle sue divisioni etniche e religiose, l'Europa è, almeno in parte, all'origine di conflitti `insolubili' che senza il suo impegno non possono trovare una via d'uscita e il cui aggravarsi minaccia contemporaneamente la sua stessa pace civile e la sua personalità morale. Ora, la storia dimostra che un'entità politica non può esistere senza una `Idea' che raccolga le sue forze materiali in un progetto universale. Invece divoler ricolonizzare il mondo – visto che la storia non si ricomincia e il prezzo sarebbe inaccettabile –, invece di volerlo rivoluzionare attraverso l'esempio messianico della creazione di un `uomo nuovo', secondo il modello cristiano o comunista, l'Europa di fatto può solo voler cercare di esercitare al suo interno un'influenza civilizzatrice; altrimenti si troverà a distruggere le condizioni morali della sua stessa costruzione. Abbandonando i ceceni alla guerra totale che la Russia post-sovietica conduce contro di loro, essa non perpetua soltanto l'eterna viltà delle nazioni di fronte ai genocidi, ma nega anche il carattere europeo della Russia. Che facciano quello che vogliono, visto che non sono candidati a entrare nell'Unione europea… Andando a rimorchio dell'alleanza americano-israeliana in Medio Oriente, se si eccettua qualche progetto umanitario che non basta né a proteggere i palestinesi dalla colonizzazione e dalla repressione né ad allontanarli completamente dal terrorismo,l'Europa favorisce sul proprio suolo e nel mondo l'antisemitismo moderno (allo stesso tempo giudeofobo e arabofobo). Sommando la condiscendenza nei confronti della dittatura algerina e degli altri regimi di polizia nel Nord Africa con la discriminazione razziale e religiosa nei confronti delle sue stesse popolazioni immigrate di origine maghrebina, essa condanna l'`Euromediterraneo' a un disastroso aborto. Ma forse c'è un altro modo di interpretare questi dati, tentando di metterci deliberatamente nella nuova congiuntura della globalizzazione e nelle alternative che essa racchiude. È vero che tutte le divisioni culturali e i conflitti di interesse che dilaniano oggi il mondo attraversano ugualmente l'Europa, dove possono assumere forme violente. È vero che l'Europa e l'America non costituiscono degli insiemi distinti, quanto meno non più dell'Europa e l'Eurasia, o dell'Europa e il Medio Oriente – alcuni paesi in questo caso costituiscono, per via della loro storia e della lorodemografia, delle `transizioni' naturali che sarebbe inutile voler collocare a tutti i costi da una parte o dall'altra di una `frontiera di civiltà'. È vero infine che l'Europa non ha i mezzi per costituirsi in un `grande spazio' continentale, imponendo al Vecchio Mondo l'equivalente di quel che fu la `dottrina Monroe' per il Nuovo. Tutto questo però lo si può leggere in senso inverso. Se non esiste un'identità europea contrapponibile alle altre identità del mondo è perché tra lo spazio europeo, storicamente e culturalmente costituito, e gli spazi che lo avvolgono non ci sono delle frontiere assolute. E se non ci sono le frontiere dell'Europa è perché l'Europa è essa stessa una frontiera, o più esattamente una sovrapposizione di frontiere e quindi di relazioni tra le storie e le culture del mondo (o almeno di una grande parte di esse) che essa riflette al suo interno. Un recente studio di Thierry de Montbrial, direttore dell'Istituto francese di relazioni internazionali e presidentedell'Accademia di scienze morali e politiche, pubblicato con il titolo: Europa: la dialettica interno-esterno può aiutarci a precisare le conseguenze di una tale constatazione 9. Montbrial trae la lezione dagli avvenimenti recenti: anch'egli nota la sproporzione tra il `peso' dell'Europa nei negoziati internazionali e la sua prosperità economica, l'abissale sproporzione militare che automaticamente conferisce agli Stati Uniti il compito di decidere sulla sicurezza, l'impotenza dell'Europa nel definire una politica estera comune, e mette in evidenza la «forte richiesta di Europa» che gli sembra percepire dall'ex impero sovietico fino all'America Latina. Montbrial cita una «personalità» brasiliana secondo la quale «l'insufficienza dell'offerta» dipenderebbe «dal fatto che essa [l'Europa] non ha smesso di vergognarsi della autodistruzione di se stessa compiuta nella prima metà del ventesimo secolo». La sua stessa risposta assume la forma di un capovolgimento dialettico. Nella storia dellaformazione degli Stati, egli spiega, è la preesistenza di una forte unità (nazionale) e di conseguenza di una identità o di un sentimento di appartenenza che ha reso possibile la mobilitazione di risorse materiali e umane al servizio delle ambizioni internazionali. Ma nel caso della costruzione europea è vero il contrario, e l'emergere di una `Europa europea' non può venire che dall'influenza esercitata dalla politica estera sulla politica interna. Di qui «in mancanza di una politica estera e della sicurezza davvero comuni, che non è alle viste», la sua proposta di organizzare l'intervento concertato dei paesi europei nei «grandi affari» mondiali a partire da una «triplice intesa» delle tre potenze europee principali (Gran Bretagna, Francia e Germania) e da una procedura di consultazione delle altre. Questa idea di «dialettica interno-esterno» è ben definita, ma la sua applicazione racchiude una petizione di principio. Per quale motivo sarebbe più facile fare emergere una `volontàcomune' dalle tre grandi potenze europee (di fatto medie) invece che dall'insieme dei paesi dell'Unione o dallo sviluppo di una corrente maggioritaria nelle loro opinioni pubbliche? Potrebbe anche essere il contrario. Ma quel che conta soprattutto è che il rovesciamento di metodo proposto non è abbastanza radicale per portarci al livello della congiuntura in cui siamo entrati. Proporrei dunque di dedurre tutte le conseguenze dal fatto che l'Europa è una frontiera piuttosto che non ha (o non avrà in futuro) delle frontiere, ridefinendo completamente i rapporti tra `strategia', `potenza' e `soggettività' in modo da privilegiare l'azione in rapporto all'identità e uscire dal circolo vizioso di una strategia che presupporrebbe la potenza autonoma del soggetto che la concepisce e la realizza, mentre si tratta precisamente di modificare il modo in cui sono calcolati, imputati e istituzionalizzati i rapporti di potenza su scala mondiale. Per una `anti-strategia' dell'Europa Solo unariconsiderazione del modo di concepire la nozione di politica – che dovrebbe combinare esigenze tanto opposte tra loro quanto lo sono l'incremento del ruolo specifico di alcune `idee europee' da un lato, e, dall'altro, la rinuncia dell'Europa ai miti della chiusura e dell'identità esclusiva, alla cosiddetta `Fortezza Europa', che ha molte possibilità di essere solo un miraggio – può permetterci tendenzialmente di sfuggire alle aporie che colpiscono l'idea di una `politica europea' e di dare un contenuto reale a un progetto di `mediazione europea' nel mondo di oggi. È veramente possibile dare individualità all'Europa e dis-identificarla, o de-sostanzializzarla? Secondo me è possibile solo sottomettendo a una critica radicale il `teorema' che soggiace alla maggior parte dei ragionamenti esistenti a proposito dei rapporti fra politica e potenza. Questo teorema vuole che l'azione efficace abbia luogo se, e solo se, essa mette in campo delle risorse preesistenti che le appartengono inmodo esclusivo, e se questa messa in campo è il fatto di un soggetto unificato, il più `sovrano' possibile, dotato di una identità stabile e riconosciuta sia all'interno che all'esterno. Quel che propongo è la necessità di esplorare una via radicalmente altra, nella quale la potenza non preceda l'azione ma piuttosto ne derivi, secondo delle modalità che dipendono dagli obiettivi scelti. L'azione crea la potenza o almeno la intensifica, la concentra, la ridistribuisce e la moltiplica. L'azione, come diceva Michel Foucault, è «potere che agisce su altri poteri», in altre parole è un uso della potenza degli altri che tiene conto dei loro orientamenti. Per la stessa ragione l'identità collettiva non è un presupposto da considerarsi come dato, e ancor meno un'immagine mitica della quale si tenterebbe di `forzare' l'adeguamento alla realtà attraverso questo o quel criterio più o meno determinato (per esempio `l'Europa cristiana'). Essa è una qualità dell'azione collettiva, chiamata acambiare forma e contenuto man mano che si presentino delle sfide storiche, che nuovi attori entrino in scena e che si creino solidarietà inedite tra coloro che solo ieri si ignoravano, o magari si opponevano l'un contro l'altro. Lezioni di storia Forse non sarà inutile ricordare qui come si possano trarre lezioni dalle esperienze storiche da cui è emersa la configurazione attuale dell'Europa, in particolare nel corso del secolo passato. Queste lezioni possono senz'altro essere interpretate in modo divergente, ma ormai sono inscritte in una memoria collettiva, in elaborazioni intellettuali continue e in realtà istituzionali. Una prima lezione, che si può definire tragica poiché riguarda le guerre civili che dilaniarono la comunità dei popoli europei, appare in primo luogo essenzialmente negativa. Eppure è questa che dà le origini profonde a un `ordine pubblico transnazionale' che ricusa l'equivalenza `clausewitziana' tra i mezzi della guerra e quelli della politica 10. Nellaprospettiva storica, le guerre nazionali e interstatali che hanno scandito la storia dei rapporti di potenza tra i `popoli' e hanno portato agli stermini di massa delle due guerre `mondiali' non sono che un aspetto particolare di una conflittualità più generale nella quale rientrano anche le guerre e le guerriglie di classe, di religione, di ideologia. La lezione della `guerra civile europea' è che non c'è `soluzione finale', eliminazione o neutralizzazione definitiva del nemico che non esiga la continua riproduzione delle condizioni della distruzione e dell'auto-distruzione. Il mutuo sterminio in quanto tale non prevede fine, ovvero la `fine' può venire soltanto da una radicale delegittimazione accompagnata dall'emergere di un contro-potere istituzionale e collettivo. Questa lezione comunque è incompleta e, sotto certi aspetti, è anche cieca. Essa infatti tende a prendere in considerazione il problema della violenza solo in un ambito `metropolitano'. È solo da poco tempo, e congran fatica, che in Europa si sta sviluppando la coscienza del fatto che la `barbarie' sia circolata tra spazi estranei all'orizzonte definito dal centro dominante e dalla periferia dominata. Perché ciò accadesse c'è stato bisogno del lavoro incompiuto di rievocazione e critica a cui diedero luogo la decolonizzazione e, opera a cui comunque essa non è certo estranea, la presenza via via più massiccia e via via più legittima, nonostante le discriminazioni che esse subiscono, delle popolazioni di origine coloniale in seno alle ex madrepatrie. Questa coscienza disturba gli schemi di pensiero eurocentrici basati sull'opposizione tra nazioni `civili' e nazioni `barbare': le più barbare non sono state quelle che si credeva, ma, d'altra parte, la pratica dello sterminio non è un monopolio degli Stati più potenti, non è un invenzione imperialista. Soprattutto, essa ha la sua contropartita positiva in un fenomeno esplosivo e irreversibile di `meticciato' umano e culturale, che passa primaattraverso legami particolari tra le ex madrepatrie e le ex colonie, ma sempre di più si stabilisce direttamente tra lo spazio europeo e il suo esterno. Questo meticciato è fonte, lo sappiamo, di tensioni e violenze (di nuovi razzismi), ma anche di energie sociali `minoritarie' che sono potenti fattori di una civiltà adeguata all'epoca della globalizzazione. Alla lezione del ruolo del pubblico che si ricava dalla storia europea se ne aggiunge quindi un'altra che potremmo chiamare lezione di alterità, o un riconoscimento da parte dell'Europa dell'alterità come componente indispensabile della sua stessa identità, della sua stessa potenzialità, ovvero della sua stessa `potenza'. Credo infine che una terza lezione della storia europea debba essere elaborata e rivolta alla stessa Europa. Quest'ultima viene indebolita dalla globalizzazione o, più che altro, si trova di fronte a un dilemma man mano che la globalizzazione costringe gli Stati nazionali sulla difensiva, ne blocca le capacitàdi invenzione, e pone con insistenza – senza però risolverlo – il problema della costituzione di una nuova `cittadinanza' in Europa. Essa riguarda la possibilità di neutralizzare la violenza dei conflitti sociali, o meglio di trasformarla tendenzialmente in capacità politica collettiva, organizzando la rappresentanza degli interessi antagonisti nello Stato, la distribuzione delle istanze di controllo sociale tra il `pubblico' e il `privato', e infine la progressiva definizione di nuovi `diritti fondamentali', aggiungendo ai diritti individuali libertà `positive' o `capacità' supplementari, riconosciute come componenti necessarie della cittadinanza. Sembra che, nel mondo contemporaneo, l'Europa goda sotto questo aspetto di una situazione non privilegiata ma singolare. Non ha il monopolio dell'idea della democrazia pluralista e della rappresentanza. È stata condotta però dalla storia dei suoi movimenti sociali (ovvero dalle violente lotte di classe che vi si sono svolte) a un livellodi riconoscimento istituzionale dei diritti sociali senza eguali nel mondo, ma contemporaneamente ben distinto dalle forme `ultra-liberali' e `totalitarie' o `populiste'. Non ha neanche il monopolio della tolleranza religiosa ma dalla storia dei suoi scismi, delle eresie e delle guerre di religione è stata portata a un regime di `laicità' o di `secolarizzazione' (a seconda delle configurazioni nazionali) che va al di là della tolleranza, e permette di riconoscere le appartenenze religiose in quanto contributi storici alla formazione della `società', escludendo la loro incorporazione ufficiale nello Stato, ma anche la loro proliferazione secondo una logica di `mercato di beni salvifici' puramente concorrenziale. Questa lezione sembra consistere quindi in una elaborazione originale dell'idea di democrazia conflittuale a cui contribuiscono diversi principi altrimenti opposti tra loro: quello della democrazia giuridica o formale, senza la quale gli individui non possono esserericonosciuti come detentori o rivendicatori ultimi dei diritti; quello della democrazia sociale o sostanziale, senza il quale le ineguaglianze e i conflitti di interesse non possono essere presi in considerazione, il che riporta la libertà giuridica alla concorrenza, e la concorrenza all'eliminazione dei deboli da parte dei forti; infine quello della democrazia espansiva (secondo l'espressione di Gramsci) o dell'invenzione democratica (secondo l'espressione di Claude Lefort), ovvero la continua apertura a nuovi contenuti che formano la `parte comune' dell'esperienza umana, apertura quindi alla sua stessa storicità, escludendo ogni rappresentazione della `fine della storia'. Senza dubbio, nessuna di queste lezioni deve essere considerata come irreversibile né come univoca. Soffrono tutte di fragilità e di ambiguità. La propria esperienza dello sterminio porta l'Europa a percepirsi come detentrice dei principi del diritto internazionale, quando è essa stessa a non applicarlo. La suacoscienza dell'alterità non impedisce il fatto che essa pratichi sistematicamente l'esclusione, intrecciando i criteri della cultura (per non dire della razza) e della discriminazione economica. Peggio per i `poveri scuri di pelle', nuovi paria che possono scegliere solo tra diverse modalità di sovrasfruttamento e di insicurezza! L'invenzione della laicità in un contesto di dominanza del cristianesimo si trasforma in chiusura rafforzata contro grandi universalismi religiosi opposti, e in protezione dei culti `domestici'. Essa forma anche un sistema di resistenza al multiculturalismo propriamente detto ovvero diventa paradossalmente essa stessa il mezzo di una quasi-religione della `cultura occidentale'. Infine la `concezione europea' della democrazia conflittuale volge (ritorna?) al puro e semplice corporativismo nel momento in cui la deregulation e la globalizzazione dell'economia la privano dei mezzi per `proteggere' i suoi cittadini dai rischi del mercato dei beni collettivi e dellaforza lavoro. Ma queste evidenti contraddizioni fanno parte della dinamica che porta a tentare di rinnovare l'esperienza politica europea inscrivendola ormai in un progetto di trasformazione delle relazioni internazionali che, reggendosi su alcune forze, le une `interne' le altre `esterne', non dipende dalla politica di potenza. Un progetto siffatto non consiste tanto nel far emergere una nuova (super)potenza quanto nel far entrare in gioco un nuovo regime di potenza di cui nessuno potrà esserne considerato il portatore o il proprietario esclusivo. Poiché una tale potenza è essenzialmente relazionale, si manifesta attraverso un'evoluzione tendenziale delle strutture e dei rapporti di forze o attraverso la solidità delle resistenze e delle alternative al corso dominante. Per questo l'ho indicata ipoteticamente come una `anti-strategia'. Questo non vuol dire che essa possa fare a meno di iniziative, orientamenti, o addirittura di parole d'ordine. Parlare di un progetto ditrasformazione delle relazioni internazionali non vuol dire propriamente definire un programma. Anche se esso dovrà estendersi su una lunghissima durata, nel corso della quale non mancheranno né i passi indietro, né gli aggiornamenti, né le catastrofi, è tuttavia necessario delinearne alcune componenti, delle quali quelle che seguono, in particolare, mi sembrano strettamente legate tra loro. Protezione o fortificazione? Una politica di trasformazione delle relazioni internazionali presuppone un modello di sicurezza collettiva, che apre una questione su come affrontare `terrorismi' e `contro-terrorismi'. La nozione di sicurezza collettiva non può accontentarsi di reclamare che, conformemente alla Carta delle Nazioni Unite, il ricorso alla forza militare si attui nelle forme (restrittive) previste dal diritto internazionale. È necessario determinare una politica, il che implica quindi delle prese di posizione. La linea di demarcazione passa chiaramente, secondo me, tra ilnecessario riconoscimento della complessità e della gravità delle cause oggettive che alimentano ovunque nel mondo la violenza e l'adesione alle predicazioni terroriste, e l'accettazione irresponsabile di questa stessa violenza come `risposta' allo sfruttamento e alla dominazione. Questa risposta non è né legittima né efficace, distrugge la causa che essa crede di, o vuole, difendere. La sicurezza collettiva implica di respingere tanto il transfert fallace che fa delle principali vittime dell'insicurezza nel mondo i suoi responsabili ultimi, quanto la demonizzazione profetica del `sistema capitalista' che vede in esso la fonte occulta e unica della violenza e dei conflitti, compresi quelli che disturbano il suo stesso sviluppo. Un modello di sicurezza collettiva valido deve quindi rendere possibili sia le effettive politiche di lotta contro l'ingiustizia che il coordinamento dei servizi di polizia, sotto il controllo delle istituzioni giudiziarie nazionali e internazionali, e losmantellamento concertato delle reti terroriste di cui l'esistenza sia certa. Secondo me non ci sono dubbi che, da questo punto di vista, la condizione delle condizioni consiste nella democratizzazione dei regimi politici nel mondo `arabo-islamico', la quale non può essere imposta dall'esterno ma può essere incoraggiata e deve prima di tutto essere semplicemente accettata, in modo che essi stessi contribuiscano alla lotta contro il terrorismo. Se è vero, come dobbiamo ammettere, che oggi esiste un particolare rischio che il terrorismo si ispiri a un'ideologia islamica fondamentalista, ne deve conseguire che la sua eliminazione venga innanzitutto dall'interno delle società e degli Stati per i quali l'Islam costituisce il principale riferimento culturale e religioso. Bisogna quindi evitare di sostituire agli obiettivi di sicurezza nazionale e internazionale obiettivi di egemonia regionale o di intimidazione simbolica, come succede quando una guerra imperialista viene intrapresa alposto di una operazione di polizia troppo difficile o troppo compromettente per coloro che la portano avanti. Che i due obiettivi siano distinti, se non contraddittori, è stato in parte messo in luce nel corso della campagna elettorale americana dell'autunno del 2002 dall'ex vice presidente Al Gore quando, senza ammettere repliche, ha accusato l'Amministrazione Bush di trascurare la lotta contro il terrorismo a vantaggio del suo regolamento di conti con Saddam Hussein e il resto dell'`asse del male'. Si potrebbe dire altrettanto della ripresa del programma delle `guerre stellari'. Ma la politica di sicurezza collettiva deve soprattutto impegnarsi nell'eliminazione sistematica dei fattori che favoriscono la congiunzione delle violenze `dall'alto' e delle violenze `dal basso', la sovrapposizione o la simmetria dei `fondamentalismi `ideologici e degli interessi economici. Chi disarma chi? Questa politica risulta priva di significato se all'ordine del giorno non viene rimessa laquestione che è all'origine della creazione degli organismi internazionali di sicurezza collettiva: quella del disarmo generale e controllato. È qui che di fatto si trova la base del `multilateralismo', e non è possibile sottrarvisi appena ci si ponga esplicitamente la domanda sul come e perché `disarmare' uno o molti Stati i cui armamenti, per livello e natura, vengono presentati come un pericolo per tutta l'umanità. Questo per definizione vale per tutti, poiché è la popolazione civile a fare le spese delle operazioni di `punizione' o di `restaurazione della democrazia' dirette contro i fautori di guerre specifiche ed è più che abbondantemente provato che la fonte di armi di distruzione di massa e la loro proliferazione, più in generale il continuo aumento del livello degli armamenti nel mondo, è da ricercare nei paesi dei loro produttori, che sono le stesse grandi potenze. Un multilateralismo della guerra, ovvero la corsa agli armamenti, è impossibile. Un multilateralismo del disarmoè irto di difficoltà, ma pensabile. Non solo: di conseguenza, e contrariamente a quel che sostengono le numerose menti che agitano lo spettro di Monaco, l'Europa deve respingere la proposta che le viene fatta di entrare in un nuovo ciclo di accrescimento delle proprie capacità militari (in particolare delle sue capacità di `proiezione' all'esterno, a titolo complementare o sostitutivo delle operazioni condotte dall'esercito americano), ma deve rilanciare l'esigenza di una riduzione generale degli armamenti sotto un mutuo controllo, che riguardi contemporaneamente i `nuovi' e i `vecchi' detentori di armi, la proliferazione in tutto il mondo e la concentrazione in arsenali dominanti, compresi i propri. Una prospettiva di questo genere si scontra con evidenti difficoltà che la esporranno alla critica di inattuabilità. Essa contrasta frontalmente gli interessi pubblici e privati del commercio delle armi, che costituiscono un continuum di mezzi di insicurezza di ogni tipo e dimensioneche è sottostante alla militarizzazione della vita sociale in un gran numero di regioni del mondo, se non alla loro trasformazione in zone di endemica morte violenta. In un certo senso, essa suppone risolto il problema stesso che bisogna risolvere, ovvero quello della scambievole fiducia di società eterogenee, che non hanno avuto le stesse esperienze storiche e non hanno la stessa concezione del diritto e della politica, alcune dominanti altre dominate, alcune ricche altre povere, ecc. Per questo è chiaro che il rilancio del disarmo non si può separare da numerose altre trasformazioni nei rapporti sociali e politici su scala mondiale. Sempre per la stessa ragione, essa non può essere confusa con un pacifismo, non è esclusivo di politiche di difesa nazionale o sovranazionale modernizzate, ma deve comportare delle `conversioni' di capacità di attacco in capacità di difesa. Infine, è proprio per questi motivi che soprattutto essa suppone che `il mondo' o alcune parti `del mondo', tra cuil'Europa, concertandosi tra loro, possano offrire al popolo americano delle prospettive e delle garanzie di sicurezza che alla lunga appaiano superiori a quelle che risiedono nella instaurazione di un regime di isolamento, di rafforzamento e di contro-terrorismo su scala mondiale. Nell'attuale stato delle cose, non può esistere disarmo generale perché alcuni Stati o alcune forze devono essere disarmati mentre altre si incaricano di disarmarli e quindi non possono per definizione essere controllati; e questa è una espressione a malapena diversa dalla pretesa di sovranità assoluta. In pratica questa pretesa viene sostenuta soltanto da un'unica potenza: gli Stati Uniti. Tale, senza dubbio, è la difficoltà maggiore che grava sulla credibilità dell'idea di disarmo generale, pur se progressivo e negoziato. Ma il paradosso (forse inerente alla nozione stessa di sovranità) è che la sovranità interna del popolo americano diminuisce quanto più si afferma o cerca di imporsi la sovranitàesterna dello Stato imperiale americano. Questo paradosso maschera temporaneamente una fondamentale realtà: il fatto che in fin dei conti solo il popolo americano potrà disarmare la superpotenza americana non appena ne percepirà con abbastanza forza la necessità e l'utilità. È questa, se si vuole, la sua `responsabilità' e la sua `capacità' estreme. Ma né tale capacità né tale responsabilità possono essere esercitate senza un aumento continuo del livello di comunicazione con gli altri popoli del mondo. La sovranità presuppone la solitudine, il negoziato invece presuppone lo scambio. Responsabili e mediatori Il correlato dell'idea di sicurezza collettiva e di rilancio del disarmo, di cui tento qui di perorare la causa, non è un principio di `non-intervento' nei conflitti violenti che oggi costituiscono una parte crescente della politica mondiale. Deve essere, al contrario, un principio di intervento, non solo `umanitario' ma rigido attraverso i mezzi che oggi fornisconol'interpenetrazione di processi economici, tecnologici e culturali, senza escludere le `forze di interposizione' quando le condizioni della loro presenza siano verificate. Ma sembra che l'Europa potrebbe trarre dalla propria esperienza e dal suo stesso progetto di costruzione l'idea di un rovesciamento sistematico delle relazioni tra il `locale' e il `globale' nella procedura di risoluzione dei conflitti armati che mettono l'una di fronte all'altra comunità etniche, culturali o religiose allo stesso tempo profondamente ineguali ma connesse le une con le altre. A tal proposito, il caso del conflitto israelo-palestinese è esemplare. Senza dubbio, e oggi tutti ne sono coscienti, il cosiddetto `processo di pace' basato sugli Accordi di Oslo era gravido di un micidiale raddoppiamento delle ostilità, per via della voluta imprecisione su alcuni punti fondamentali e della manipolazione di cui è stato immediatamente fatto oggetto sia da parte del governo israeliano che dell'Autoritàpalestinese. Tuttavia, esso aveva almeno il vantaggio di stabilire che, in presenza e con l'aiuto di una mediazione esterna, la risoluzione del conflitto doveva essere opera degli stessi nemici, mentre la tesi inversa, oggi dominante, causa un innalzamento continuo del livello della violenza e rende le distruzioni materiali e morali sempre più irreversibili. Una `anti-strategia', nel senso in cui cerco di precisare l'accezione del termine, è quindi anche un modo di privilegiare le determinazioni locali, sia perché esse corrispondono a specificità storiche e geografiche che contengono le radici del conflitto, e quindi le premesse alla sua soluzione, sia perché permettono di assegnare delle responsabilità, facendo prevalere l'attività sulla passività: una passività che oggi assume la forma della convinzione che il processo `globale' comanda tutto, o permette tutto. Non si tratta dunque di negare la globalizzazione né di farne un destino, ma di mettere in pratica le possibilità cheessa offre di attuare `interventi' multilaterali che aiutino gli attori del conflitto a costruire uno spazio di coesistenza in presenza di osservatori, di garanti e di mediatori, essi stessi responsabili. La scena della violenza globalizzata comporta oggi innumerevoli attori più o meno potenti e pericolosi e un solo `giudice di ultima istanza' super potente e per questo altrettanto pericoloso quanto gli altri messi insieme. Tuttavia, riportata a un intrecciarsi di spazi di conflittualità locale in cui ognuno ha la propria specificità, questa scena comporta anche numerosi potenziali `mediatori'. L'Europa è uno di questi, ma non il solo. Spesso, del resto, non per caso si tratta anche di insiemi transnazionali emergenti o virtuali, come in Estremo Oriente, nel Cono Sud dell'America latina o in Africa australe e come potrebbe esserlo una `Lega Araba' rinnovata, democratizzata e liberata dalle fantasie della `nazione araba', per non parlare della `nazione islamica'. Sono forse queste leautentiche'forze antisistemiche', per dirla con Wallerstein, visto che l'idea di `disconnessione' ha perso ogni significato. Incontro di civiltà: un modello `Mediterraneo'? Possiamo però tentare di essere più precisi, prendendo posizione in modo critico sul grande dibattito lanciato dalla pubblicazione delle tesi di Huntington sullo `scontro di civiltà'. L'idea di riportare anti-strategicamente i conflitti dalla loro determinazione globale alla loro determinazione locale, o almeno di far prevalere la prima sulla seconda nel rapporto costitutivo delle due, non ha senso se non si può definire un quadro aperto, non esclusivo, ma sufficientemente circoscritto geograficamente e culturalmente, perché i conflitti che vi si svolgono appaiano virtualmente come `guerre civili', il cui carattere irrimediabile obbliga la comunità a ricercare le vie e i mezzi per una `pace civile', offrendo alle parti in causa la possibilità di quel riconoscimento simultaneo che soltanto può consentire illoro riconoscimento reciproco. Quale `comunità', ci si chiederà? Non, di nuovo, una comunità preesistente ma una comunità di alleanza che si costituisca in vista di un tale riconoscimento. Sembra si possa stabilire che l'insieme euro-mediterraneo, la cui progressiva costruzione è essa stessa un modo per l'Europa di affermare la propria originalità – in un certo senso mettendosi `fuori di sé' o associando strettamente affermazione di una identità propria e accettazione di quella altrui – costituisce per eccellenza un quadro di questo tipo. Il suo sviluppo viene costantemente annunciato, e insieme ritardato, da ostacoli oggettivi e da fobie represse che rimandano ai molti secoli di scontro, prima e dopo l'epoca della colonizzazione imperialista propriamente detta. È qui che mi sembra la teoria di Huntington ci possa aiutare in senso inverso: il concetto centrale del suo libro sullo `scontro di civiltà' è quello di frontiera-mondo intesa come una `linea di rottura' o una `linea difaglia' (fault line) 11. La tesi di Huntington è che è impossibile, per definizione, ridurre fratture simili e che di conseguenza bisogna cercare di strutturare «l'ordine mondiale» intorno alla competizione, o addirittura all'incompatibilità, delle «civiltà» separate da tali fratture. Questa tesi è di ascendenza chiaramente schmittiana, e torna ad applicare in un ambito sovranazionale la famosa distinzione `amico-nemico' che il giurista tedesco del secolo scorso rendeva criterio del `politico'. Ma si vede anche bene che l'idea dell'insieme euro-mediterreneo riposa sul postulato inverso: non che le fratture siano inesistenti o che non comportino dimensione di ostilità, ma che lo spazio dell'istituzione politica e della civiltà si costruisce precisamente prendendole come punto di incontro e di elaborazione degli interessi comuni, che in qualche modo mostrano, secondo l'espressione che l'antropologa francese Germaine Tillion applicava ai popoli in lotta nella guerra d'Algeria, la«complementarità dei nemici». Le recenti polemiche sull'eventuale entrata della Turchia nell'Unione Europea, suscitate dalla vittoria alle elezioni turche del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) così come dalle conseguenti dichiarazioni di Giscard d'Estaing – che affermava il carattere «non europeo» della Turchia e avvertiva l'Europa del rischio di crollo che la sua adesione avrebbe portato con sé – avranno avuto almeno il merito di far emergere una realtà che non appartiene all'utopia ma al futuro prossimo: quali che siano le formule istituzionali (ed è probabile che esse copriranno tutta una gamma che va dall'integrazione alle diverse forme di associazione), il caso della Turchia non rimarrà isolato: è tutto il Sud del Mediterraneo a essere chiamato a costruire un insieme interdipendente con l'Europa, un crogiuolo di nuove relazioni tra paesi `sviluppati' e `in via di sviluppo' tra culture impregnate di tradizioni religiose monoteiste antitetiche. Un insiemesiffatto, man mano che acquisterà consistenza, costituirà in una volta sola un fattore di livellamento delle capacità di sviluppo, un scatto dell'azione politica degli europei negli affari del mondo e un potente stimolo alla democratizzazione dei regimi del mondo arabo. Esso costituisce il vero modo di superare gli schemi inveterati dell'opposizione tra `Occidente' e `Oriente', che sono soltanto un modo tra molti altri di leggere la storia culturale dell'umanità. È superfluo insistere a lungo sul ruolo che esso potrà rivestire nell'imprimere un progresso positivo a questioni come quelle della sicurezza collettiva o dell'attivazione di istituzioni internazionali – a meno che, come si può temere, la logica `globale' dell'incendio delle frontiere non abbia la meglio per una durata indeterminata. Lancio queste proposte nel dibattito come il contributo di un intellettuale, con i mezzi propri alla mia condizione: quelli della storia delle idee e dell'analisi del pensiero. Della`traduzione' nel senso più generale del termine. L'intellettuale che spesso viene percepito in ritardo sugli avvenimenti, può assumersi il rischio di essere anche un po' avanti, o meglio in un equilibrio instabile. Quel che è sicuro è che non può, se non rinnegando il proprio nome, tapparsi le orecchie e chiudere la bocca. Ci si `romperà il muso', come diceva Althusser? Senz'altro, ma è il rischio che si deve correre per conservare una funzione sociale di cui molti dei nostri contemporanei hanno finito per dubitare.
note: 1 Il testo è una versione ridotta della «George L. Mosse Lecture» che ho pronunciato all'Università Humboldt di Berlino il 21 novembre 2002. 2 «London Review of Books», XXIX, 3, 7 febbraio 2002. 3 America and the World: the TwinTowers as Metaphor, Charles R. Lawrence II Memorial Lecture, Brooklyn College, 5 dicembre 2001, testo bilingue inglese e francese in «Transeuropéennes», n. 22, primavera-estate 2002 (Parigi). 4 Immanuel Wallerstein on the World Movement facing the Capitalist Domination, Fsm Porto Alegre II, febbraio 2002: vedi: http://www.attac.org/fsm2002/indexen.html. 5 T. Garton Ash, The Peril of too much Power, Op. ed. «The New York Times», 9 Aprile 2002. a Trad. it.: Orientalismo, Feltrinelli 1999; tr. it.: Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell'Occidente, Gamberetti, 1998. 6 Europe versus America, pubblicato al Cairo in «Al-Ahram Weekly» del 14-20 novembre 2002. 7 Il saggio originale di Kagan è stato pubblicato nel n.113 (giugno-luglio 2002) di «Policy Review». 8 Vedi la Risoluzione 1441 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (8 novembre 2002). 9 «Le Monde», del 19 novembre 2002. Vedi anche il suo libro L'action et le système du monde, Presses Universitaire de France, Parigi 2002. 10 Monique Chemillier-Gendreau, Contre l'ordre impériale, un ordre public démocratique et universel, «Le Monde Diplomatique», XLIX, 585, Dicembre 2002, pp. 22-23; cfr l'ed. italiana, Contro il disordine imperiale, un ordine pubblico democratico e universale, «Le Monde Diplomatique - il manifesto», dicembre 2002. 11 The Clash of Civilizations. Remaking the World Order, 1996; tr. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta, Garzanti 20002.
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