All’indomani delle indiscrezioni sulle presunte pressioni del presidente egiziano al suo omologo iraniano Mahmud Ahmadinejad, per convincerlo a mettere fine alla sua alleanza con Damasco così da facilitare la fine del conflitto, Mohamed Morsi torna a parlare in prima persona della crisi siriana e, come era prevedibile, lo fa puntando il dito contro Bashar al Assad e il suo governo. “Non c’è posto per un presidente che uccide il suo popolo (...) Crediamo vi sia bisogno di un cambio di regime”, ha affermato il capo di Stato del Paese nordafricano che proprio come i leader delle monarchie sunnite del Golfo e dei Paesi occidentali chiede “la fine del bagno di sangue” in Siria, senza tuttavia commentare o condannare gli attentati compiuti dalle forze ribelli legate alle opposizioni estere. Opposizioni che sono guidate proprio dai Fratelli musulmani, movimento islamico sunnita al quale appartiene lo stesso Morsi. Le dichiarazioni del presidenteegiziano non possono quindi stupire e tantomeno avere un peso rilevante vista la loro palese parzialità. A destare scalpore nella giornata di ieri sono state invece le parole del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov che, durante un’intervista al giornale International Affairs, ha rivelato l’esistenza di una nuova iniziativa occidentale in seno alle Nazioni Unite volta a far approvare una risoluzione che preveda, fra le altre cose, il ricorso a un intervento armato contro la Siria. “Alcuni Paesi stanno cercando di far passare una risoluzione che conterrebbe il capitolo 7 della Carta Onu, che prevede misure di forza contro i Paesi inadempienti”, ha affermato il responsabile della diplomazia del Cremlino, sottolineando che per il governo di Mosca invece “non ci sono ragioni per interferire in un conflitto interno a favore di una delle parti”. “Abbiamo proposto di approvare il comunicato di Ginevra al Consiglio di Sicurezza Onu – ha poi proseguito Lavrov facendo riferimentoal testo approvato dal gruppo di contatto sulla Siria voluto dall’ormai ex inviato speciale Kofi Annan - ma gli americani hanno rifiutato perché non conteneva minacce, giudizi unilaterali e sanzioni contro il regime. Conteneva un approccio equilibrato inteso a mettere fine al bagno di sangue”. Parole pesanti che rappresentano il secondo duro affondo del ministro degli Esteri russo contro gli Stati Uniti, e i Paesi occidentali in generale, negli ultimi due giorni. Mercoledì scorso, infatti, il responsabile della diplomazia di Mosca aveva accusato l’Occidente di accettare gli attacchi terroristici quando sono “politicamente convenienti”. Una critica mossa dopo l’ennesimo attentato contro le autorità siriane che Usa e alleati non solo non hanno condannato, ma hanno al contrario sostenuto, definendolo “una fase molto avanzata nell’azione per il cambiamento di regime in Siria”. Posizioni evidentemente contrastanti quelle della Russia e dei Paesi occidentali su ogni aspetto del conflittoin atto, sia per quanto riguarda la responsabilità del suo aggravamento, sia in relazione alla strada da percorre per riportare il Paese arabo alla calma. Un divario al momento incolmabile che porterà certamente a un’altro stallo delle Nazioni Unite se la bozza di risoluzione occidentale dovesse arrivare sul tavolo del Consiglio di Sicurezza. Un dato di fatto che ridimensiona anche la missione del nuovo inviato speciale per la Siria di Onu e Lega araba, Lakhdar Brahimi, giunto ieri a Damasco per una visita di tre giorni nel corso della quale incontrerà le massime cariche del Paese, compreso il presidente Bashar al Assad. È una realtà, infatti, che senza il consenso dei partner esteri delle opposizioni nessuna mediazione è possibile, Poiché sono propri questi ultimi a gettare benzina sul fuoco di un conflitto che altrimenti non sarebbe mai scoppiato.Matteo Bernabei
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