Saviano: ritorno a Occupy
 











Roberto Saviano

L’anno scorso, nel momento più caldo della protesta anti Wall Street, fu invitato a Zuccotti Park per parlare di mafia e crisi. Oggi l’autore di “Gomorra” è andato a vedere da vicino che cosa quel movimento è diventato. E scommette sul suo futuro: «L’unico possibile per la democrazia»
Mark Bray, addetto stampa di Occupy Wall Street, ha le idee chiare sul movimento un anno dopo: «Il passaggio fondamentale è stato partire dal tentativo di attirare l’attenzione per approdare alla totale re-immaginazione dei metodi di resistenza». Un anno fa, il 17 settembre 2011, aveva inizio l’occupazione di Zuccotti Park: «Abbiamo in qualche modo contribuito a scuotere - dice Mark - la coscienza dell’America, riportando temi come ineguaglianza e ingiustizia economica nel dibattito nazionale. Persino dopo uno dei peggiori crimini finanziari della nostra storia, le persone si mostravano incapaci di affrontare questi problemi seriamente, rassegnate al fatto che ibanchieri non fossero ritenuti responsabili delle proprie azioni. Ma dopo OWS molto è cambiato su ciò che è politicamente accettabile e su ciò che si può fare per affrontare problemi che sembravano troppo grandi non solo per essere risolti, ma addirittura per essere affrontati».
Il movimento, partendo da Wall Street, dice alla finanza che le sue regole non sono regole universali, immutabili. Non chiede l’eliminazione del capitalismo, la distruzione della proprietà privata, dei mezzi di produzione. È un’officina di riflessioni il movimento OWS, non da uniche risposte. Pone riflessioni si interroga molto e di volta in volta arriva a delle analisi e le comunica. La finanza è parte della vita privata delle persone è il primo e forte messaggio che è passato a milioni di persone. La finanza può cambiare, deve cambiare, e questo cambiamento può essere determinato non solo da esigenze di mercato, ma anche dalle singole volontà che esprimono disagio, desideri, ambizioni. «Inizialmente,agivamo per ricevere attenzione. Una volta ottenuta attenzione, nell’autunno del 2011, abbiamo iniziato a ottimizzare i risultati. Quando la copertura mediatica che nei primi due mesi era stata alta e costante iniziò a diminuire, pensammo a delle campagne per fare resistenza. Un tema centrale ci era sembrato quello dei debiti degli studenti. Altri gruppi hanno lavorato con gli inquilini che scioperavano contro gli affitti a Sunset Park, a Brooklyn: la resistenza contro i pignoramenti insieme a “Occupy Our Homes” è diventata un punto centrale e molti pignoramenti sono stati fermati, in tutto il Paese. L’idea era ed è provare a usare parte di questo slancio per migliorare le vite degli individui. È un obiettivo difficile ma stiamo facendo i primi passi».
Il 17 settembre Occupy Wall Street ha compiuto un anno. Cos’è accaduto al movimento? Cos’è rimasto oggi di OWS? Il movimento era nato come reazione alla crisi economica esplosa nel 2008 e si basava sull’assunto che l’1% dellapopolazione statunitense possedesse le ricchezze che avrebbero dovuto essere invece distribuite al restante 99%. Il motto era «Noi siamo il 99%» e il dato più significativo, ciò che è veramente rimasto di OWS, è che questo 99% era composto da una miriade di persone talmente diverse tra loro che mai si sarebbe immaginato potessero manifestare insieme, tralasciando le diversità, nella consapevolezza di essere parte di quel 99% che doveva far sentire le proprie ragioni. La scintilla fu il diverso trattamento riservato ai debiti delle grandi finanziarie rispetto a quelli dei cittadini che chiedevano lavoro, un’equa distribuzione della ricchezza, riforme bancarie e la diminuzione dell’influenza delle aziende sulla politica. Questo era l’obiettivo che accomunava i manifestanti, non il colore della pelle, non la fede politica (alcuni erano liberali, altri indipendenti, altri anarchici, socialisti, libertari, ambientalisti, alcuni democratici, qualcuno anche repubblicano), né la fede religiosa(c’erano musulmani, ebrei e cristiani), né l’età (la base era formata da ventenni, ma tanti erano più vecchi). Tra loro molti studenti e molti disoccupati, ma la maggior parte aveva un lavoro: insegnanti, consulenti finanziari insoddisfatti, infermieri. Quando mi hanno invitato a Zuccotti Park, mi ha sorpreso la capacità di tenere insieme, di far convivere, questa molteplicità. Non c’era una sola visione del mondo condivisa, ma potevi scorgere il punto di contatto di diverse visioni del mondo.
Il movimento promuoveva una protesta pacifica, faceva della non violenza l’istanza cardine per poter manifestare in strada, per poter legittimamente avanzare pretese, per poter sperare di essere ascoltato e attirare attenzione e consenso di chi da casa, in televisione o attraverso i social network, osservava e seguiva cosa stava accadendo a New York. La consapevolezza era che l’uso della violenza poteva solo essere controproducente per la causa: «Non siate violenti o eccessivamente aggressivi.Qualsiasi accenno di violenza sarebbe una scusa per bloccare la protesta e arrestare tutti. Stiamo usando la tattica della Primavera Araba per raggiungere i nostri obiettivi e incoraggiare l’uso della non-violenza per garantire la sicurezza di tutti i partecipanti». E dai 12 consigli su come manifestare, postati sul sito di OWS da un dimostrante egiziano il 12 ottobre 2011, si è passati a corsi di addestramento in comunicazione non-violenta, che regolarmente si tenevano a Zuccotti Park.
Il risultato furono empatia e consenso. Ispirati dal movimento di New York, manifestazioni simili, sotto il nome di “Movimento Occupy” si sono tenute in altre 70 metropoli e più di 600 comunità negli Usa e sabato 15 ottobre 2011 sono state organizzate manifestazioni in 900 città in tutto il mondo (tra cui Oakland, Sydney, Hong Kong, Taipei, Tokyo, San Paolo, Parigi, Madrid, Berlino, Amburgo, Lipsia e Roma). A due mesi dalla nascita del movimento, sul sito  “Occupy Together” che raccoglieva tuttii movimenti Occupy si contavano 2.604 comunità di manifestanti (in continua crescita) e tutte si stavano organizzando per una grande manifestazione studentesca il 17 novembre 2011 per protestare contro l’aumento dei costi della formazione universitaria e la diminuzione della qualità dell’educazione.
Il 17 novembre, il “Day of Action” avrebbe dovuto essere il giorno della resa di conti, il momento in cui gli occupanti finalmente avrebbero bloccato Wall Street. La protesta da New York arrivò a Los Angeles e Portland ma le forze dell’ordine questa volta, allertate dall’organizzazione che da giorni ferveva sul web, si mostrarono tutt’altro che impreparate. Zuccotti Park era stato sgomberato due giorni prima e si faceva attenzione a non occuparla di nuovo per evitare nuovi scontri inutili con la polizia che avrebbero distratto forze dall’obiettivo principale. Quindi niente più tende, niente più coperte, niente più cucina che forniva pasti gratuiti, niente più punti informazione, bidoniper la spazzatura differenziata, biblioteca, niente più punto “oggetti smarriti”, centro di primo soccorso, punto di igiene per l’organizzazione delle pulizie, niente più media center dove era possibile usare il proprio laptop e attaccarsi a una presa di corrente. C’era solo l’obiettivo di fermare Wall Street, che però subito fallì. Si passò allora a una sorta di piano B: occupare il ponte di Brooklyn, tentativo estremo di riprendersi simbolicamente il ponte dove un mese prima erano state arrestate 700 persone e mandare in tilt il traffico di New York. Ma anche qui la polizia era già pronta a respingere l’occupazione, e benché non fosse dubbia la natura pacifica della manifestazione - la foto dell’ottantaduenne di Seattle col volto ustionato dal gas urticante diceva molto sul grado di empatia che le persone di ogni età provavano verso il movimento - gli arresti tra i manifestanti non si contavano. E nemmeno si contavano quelli tra i giornalisti.
Cominciarono così gli scontri, e ilmovimento rispose con quell’“occupazione mobile” che diventò immediatamente la nuova parola d’ordine: a due mesi dal primo giorno di occupazione, era Occupy caos. Ma Ows è sopravvissuto all’uragano. E la forza in gran parte risiede in questo: il movimento ha rinunciato a leader e portavoce, che inevitabilmente diventerebbero leader. Il leader presto o tardi viene smontato, usurato, fatto a pezzi. E cadendo lui, cade l’intero movimento. Ma qui tutto è diverso. Non possono esserci leader perché non c’è un’unica posizione. Il movimento parla con le istanze particolari che produce, ne è simbolo la modalità con cui ha risolto, durante gli interventi pubblici, un problema tecnico fondamentale, che avrebbe potuto bloccare tutto sin dall’inizio. Nella città di New York per il suono amplificato, inclusi i megafoni, è necessario un permesso e Occupy Wall Street non era una manifestazione autorizzata. I contestatori trovarono un loro personalissimo mezzo di comunicazione: il “microfono umano”. Inpratica la persona che stava tenendo un discorso faceva pause frequenti, nelle quali le sue parole venivano ripetute all’unisono dal pubblico in modo che tutti potessero sentire. Le tue parole diventavano le parole di tutti e questo produceva un incredibile effetto aggregante per la folla. Questo faceva sì che chiunque partecipasse al microfono umano si sentisse in qualche modo coautore del messaggio che stava, con la sua voce, contribuendo ad amplificare e diffondere.
Ricordo che sabato 19 novembre a mezzogiorno fui accolto a Zuccotti Park e le mie parole, il mio racconto di come le mafie stanno traendo vantaggio da questa crisi economica si è diffuso sulle labbra di decine e decine di persone. In quel momento mi sono sentito parte di una moltitudine. Una moltitudine che mi aveva chiesto di parlare di mafie come declinazione della finanza, come cancro da affrontare urgentemente, non come un problema di periferie difficili, di margini fastidiosi, di mobster invadenti. Mafie comefinanzia in grado di mutare il codice genetico delle democrazie, come stanno facendo banche, agenzie di rating, corruzione.
Lì a Zuccotti Park, senza voler fare facili semplificazioni, ho avvertito la democrazia funzionare, ho sentito che chiunque abbia qualcosa da dire che risulti interessante può farlo, qualunque sia la sua religione, il suo lavoro, il suo stipendio, il suo orientamento politico, il colore della sua pelle. Ecco, quella mattina, in piedi su una panchina, a migliaia di chilometri dal mio Paese, circondato da poliziotti e volti sconosciuti, mentre parlavo una lingua che non è la mia, mentre mi coprivo da un freddo invernale cui non ero abituato, mi sono sentito davvero a casa. E se l’anno scorso, a parte qualche eccezione, l’appoggio della politica al movimento fu unanime, il movimento non si sente rappresentato dalle forze politiche e sulle presidenziali è molto critico. Mark dice: «La nostra posizione è che sia il Partito Democratico sia il Partito Repubblicanoabbiano sentimenti di gratitudine verso banche e corporazioni, e che la democrazia non ha senso in questa società stratificata. Ciascuno di noi voterà o non voterà per chi vuole, ma insieme siamo un movimento sociale indipendente che prende le distanze dalla politica elettorale». Occupy quindi non rientra nel dibattito elettorale, si tiene fuori non dando orientamento. Vuole sensibilizzare, far comprendere le dinamiche.
I ragazzi di Occupy sapevano benissimo sin dall’inizio come funziona la sintassi dei media. La sfida, infatti, non era far accendere i riflettori ma mantenerli accesi. Il percorso è sempre identico: la notizia viene data, la protesta viene seguita con decine di servizi e di interviste da centinaia di telegiornali in tutto il mondo. Poi c’è la fase successiva, in cui a fare notizia è qualunque elemento negativo sulla protesta, episodi di violenza, arresti, defezioni, critiche interne. Mark, che da organizzatore e ufficio stampa del Movimento Occupy ha vissuto questedinamiche dall’interno, lo dice chiaramente: «La durata del ciclo di notizie per tv e social media è di 24 ore, non è quindi una sorpresa che dopo diversi mesi di interesse costante, entrando nel 2012 la copertura sia calata. La durata dell’attenzione dei media è molto corta. Hanno iniziato a chiederci se OWS avesse ottenuto qualcosa quando ancora non era trascorso un mese dall’inizio delle nostre attività. Sono così abituati a pensare in termini di elezioni e di sondaggi d’opinione immediati che sono incapaci di paragonare il nostro movimento ad altri che spesso hanno impiegato decenni prima di avere consenso pubblico e copertura mediatica». Tuttavia, l’interesse dei media si sta riaccendendo con il primo anniversario.
Chiedo a Mark in maniera secca come veda il futuro di Occupy. «All’inizio l’obiettivo era far circolare un messaggio semplice, ovvero che ci trovavamo in una situazione di crisi. Un bambino su cinque negli Stati Uniti vive in povertà, migliaia di persone vengonosfrattate dalle loro case come conseguenza dei crimini finanziari dei banchieri, l’ambiente è sull’orlo del disastro e stiamo buttando milioni di dollari nell’acqua. È stato un campanello d’allarme che è risuonato per tutto il Paese e oltre i suoi confini. Ottenuta l’attenzione della società civile, abbiamo cercato di spiegare che non possiamo risolvere nessuno di questi problemi se non affrontando prima la relazione che esiste tra economia e politica. Ora dobbiamo organizzare le nostre comunità. Abbiamo ribaltato l’ordine consueto dell’azione politica ottenendo enorme visibilità senza esserci organizzati nel modo che di solito precede questa attenzione. Ora dobbiamo fare qualche passo indietro e creare connessioni concrete sul territorio, in modo che sempre più persone possano passare dal consenso astratto al nostro messaggio a essere parte attiva del movimento del 99%. Quali forme questa organizzazione prenderà resta da vedere, ma per me è l’unico cammino che possiamo intraprendereper proporre una visione condivisa d’una società giusta».
Può suonare romantico, eppure credo profondamente che la strada di Occupy se non porterà alla costruzione di un nuovo mondo, potrà sicuramente trovare tracce secanti di mondi che di volta in volta si uniscono per prendere coscienza e trovare soluzioni a problemi comuni. Credo che questa sia la strada nuova, l’unica che la democrazia può intraprendere per non implodere.
Roberto Saviano. D repubblica









   
 



 
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