Trent’anni dopo. L’urlo dei palestinesi di Sabra e Chatila
 











Alla periferia di Beirut, nel campo profughi palestinese di Sabra e Chatila, la vita è un inferno. Il sobborgo è in piedi dal 1952 ma pochi sanno della sua esistenza.
Pochi sanno che in quelle vie strette dove non passa la luce a causa dei fili elettrici intricati ed appesi tra una casa e l’altra, vivono dei rifugiati palestinesi, che dopo l’occupazione israeliana, hanno perso la loro casa, il loro lavoro, ma soprattutto la loro terra.
Non è piacevole entrarci, ma è necessario. Necessario per capire la deportazione di un popolo, quello palestinese, che da più di cinquant’anni vive isolato, dimenticato, lontano dalla sua madrepatria. Le condizioni di vita degli abitanti sono pietose, le immagini di quei luoghi sono agghiaccianti.
A Sabra e Chatila, le mura hanno ancora i segni dei proiettili, le case non hanno né porte né finestre, le famiglie vivono buttate per terra, nella sporcizia, dove passano intere nottate. A Sabra e Chatila legiornate sono lunghe, l’odore dell’immondizia è asfissiante, le donne velate passeggiano con le buste piene di panni sporchi, i bambini invadono le strade che tra un sorriso e due calci al pallone cercano, nella miseria più totale, disperatamente, un briciolo di felicità. Qui, cibo, acqua ed elettricità sono insufficienti, ma la vita continua, tutti i giorni, inesorabilmente, nella solidarietà tra generazioni. Molti rifugiati del luogo sono morti per la causa palestinese, e sono stati sepolti nel cimitero musulmano, a pochi passi dal quartiere. Li chiamano “martiri” e le loro fotografie sono appese ovunque, nelle strade, nei locali, nelle case, spesso, accanto al volto di Yasser Arafat.
Ahmed, un palestinese musulmano che trascorre le sue giornate nel suo supermercato, davanti alla piccola moschea del sobborgo ci racconta serenamente e con gli occhi lucidi la sua esperienza: “Sono nato e cresciuto qua, i miei genitori sono di Haifa, oggi in mano agli israeliani, poi però sono statideportati qui, nella periferia di Beirut. La mia vita è un inferno, qui non si guadagna. Io sono un ingegnere qualificato, ho studiato, ma visto che sono palestinese non posso lavorare fuori da queste mura e sono condannato a gestire questo piccolo commercio. In Palestina non mi fanno entrare, è impossibile, e il governo libanese, essendo palestinese, non mi fa lavorare”. Perché nonostante il governo libanese sostenga la causa anti-sionista, impedisce comunque ai rifugiati palestinesi di acquisire il diritto al lavoro (anche se di recente è stata approvata in Parlamento una legge che cerca di trovare una soluzione a questa esclusione, ndr) e quello alla proprietà. La chiave è la concessione della nazionalità libanese e la possibilità, potendo acquistare delle proprietà, di installarsi definitivamente nel territorio. Qualcosa che Beirut non vuole. “Gli unici solidali con noi sono i vertici di Hizbollah, il partito islamico di resistenza – confessa Ahmed – i quali settimanalmente, ciriforniscono di acqua e cibo, e ci distribuiscono piccole somme di denaro per sopravvivere”. La gente del posto non ama gli stranieri, come non ama essere fotografata, poiché nella misera più totale cerca di preservare quella dignità strappata decenni fa da un popolo, quello ebraico, che, legittimato dai suoi testi sacri ha oppresso e continua ad opprimere il “popolo-bestia” palestinese. Come dimostra il massacro avvenuto trent’anni fa. Proprio qui, nel campo profughi di Sabra e Chatila.
Il 6 giugno 1982, con la complicità dei nordamericani, l’esercito israeliano - logisticamente e militarmente più all’avanguardia - penetra nel territorio libanese ed in pochi giorni riesce ad aprire un varco verso Beirut smantellando l’apparato difensivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) che in quegli anni si era radicato in Libano. L’arrivo delle truppe israeliane nella capitale capovolge gli assetti strategici dell’area vicinorientale costringendo la Siria a prendere unaposizione netta. Nonostante il governo di Damasco si fosse impegnato nel conquistare un ruolo da protagonista nella regione, assumendo un atteggiamento diplomatico accettabile sia dal Cremlino che dalla Casa Bianca, l’attacco israelita nella Valle della Bekaa contro le sue batterie di missili portano il capo di Stato siriano Hafez al Assad a difendere la capitale libanese ad ogni costo contro l’aggressione militare. L’11 giugno, attraverso la mediazione dell’ambasciatore statunitense Philip Habib, le ostilità si placano, anche se gli scontri continuano a Beirut, soprattutto nel settore occidentale, vale a dire quello popolato maggiormente da musulmani e coinvolgendo attivamente le milizie della destra cristiana e filo-sionista libanese. Il Paese dei cedri è spaccato, il Patto Nazionale siglato nel 1945 salta del tutto e lo Stato multi-confessionale rischia di implodere.
L’esercito israelita è nettamente superiore e in soli sei giorni riesce a portare a termine la sua guerra lampo.Tuttavia le conseguenze della “presa di Beirut” sono devastanti: i bombardamenti portano alla distruzione della capitale libanese, e senza pietà, Tel Aviv, blocca l’arrivo di rifornimenti provocando la morte di centinaia di civili i quali non ricevono più cibo e acqua. Brutalmente, il governo israeliano riesce ad imporre i suoi diktat, invitando Elias Sarkis, all’epoca presidente del Libano, a formare un Consiglio di Salvezza Nazionale al fine di isolare l’Olp, un attore divenuto scomodo sia per i partiti tradizionali libanesi sia per il governo israeliano. Tuttavia solo il 13 agosto dello stesso anno, dopo un intero mese di bombardamenti architettati dall’allora ministro della Difesa israeliano Ariel Sharon, fu raggiunto un accordo tra le parti che in seguito si tramutò in un definitivo cessate il fuoco. E oltre a condurre all’isolamento dell’Olp dal territorio libanese, l’invasione sionista del 1982 provocò il rafforzamento dell’influenza israelo-statutinense nella politica internalibanese. Non a caso, il 23 agosto, il sostegno di “USraele” alle milizie falangiste portò alla presidenza il leader maronita Bashir Gemayel. L’ascesa di Gemayel soffocò i piani di riconciliazione nazionale della Repubblica libanese che dopo anni di guerra civile e di combattenti a Beirut, viveva un clima di tensione comunitaria senza precedenti. E fu proprio in questo clima che il 14 settembre del 1982, a poche settimane dalla sua elezione, Bashir Gemayel venne trucidato da un membro del Partito sociale nazional-siriano, nonostante poco dopo l’accaduto, l’attentato fosse stato attribuito ai palestinesi. La morte del presidente libanese fu un duro colpo per Tel Aviv, che in lui vedeva l’uomo con il quale compiere i progetti espansionistici, come la realizzazione del “Grande Israele”.
Ed eccoci di nuovo qui, a Sabra e Chatila. Due giorni dopo l’attentato contro il capo dello Stato libanese: tra la notte del 16 e la mattina del 18 settembre, l’esercito israeliano supportato dallemilizie delle Forze Libanesi (il partito di Gemayel) usano il pretesto dell’assassinio per perpetrare uno dei massacri più terribili degli ultimi decenni. Alla periferia di Beirut, nel campo profughi palestinese, le squadre cristiano-sioniste compiono una mattanza senza precedenti. Nelle vie strette ed intricate del sobborgo, l’incursione militare provoca la morte di migliaia di persone (le stime parlano di 3.500 civili). Sul carattere politico degli squadristi la versione ufficiale racconta che a sporcarsi le mani di sangue sarebbero state le milizie cristiane, nonostante nel 1982 l’area fosse monitorata dall’esercito israeliano. È noto, infatti, come gli israeliani oltre ad essere presenti durante le incursioni a Sabra e Chatila, siano stati i veri mandanti assieme ai vertici nordamericani. Recentemente, in un articolo intitolato “Il massacro che poteva essere evitato”, apparso sul New York Times, Seth Anziska, ricercatore alla Columbia University, è riuscito a raccogliere deidocumenti storici i quali contengono le conversazioni tra le elite statunitensi ed israeliane avvenute in quel periodo. Tra questi è spuntato un documento del 17 settembre 1982, che racconta l’incontro avvenuto tra il ministro della Difesa israeliano Ariel Sharon e l’americano Morris Draper, consigliere del presidente Usa sulle questioni mediorientali. “Se avete paura di trovarvi implicati in quest’operazione non ci sono problemi, basta che gli Stati Uniti smentiscano ogni tipo d’implicazione o conoscenza del massacro, e noi confermeremo le smentite”, avrebbe detto il ministro israeliano al suo interlocutore, e ciò starebbe a significare, come afferma l’autore, che sia Tel Aviv che Washington fossero al corrente fin dall’inizio dei massacri in corso.
Dopo la strage, il silenzio della comunità internazionale è assordante. Solo il 25 settembre il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite condanna i massacri sionisti, ma gli Usa votano contro il documento consolidando quell’alleanzasacra tra Washington e Tel Aviv che negli anni a venire lavorerà congiuntamente nella destabilizzazione del Vicino e Medio Oriente. Nessuna commissione ufficiale d’inchiesta, nessun colpevole realmente identificato e giudicato. Nessun eco nei media occidentali su quel massacro che ha devastato la vita di quei rifugiati che dal 1952 vivono e crescono nella miseria. Qualche parola la spende solo Sandro Pertini, all’epoca presidente della Repubblica italiana. Affermerà, il 31 dicembre del 1983: “Io sono stato nel Libano. Ho visto i cimiteri di Sabra e Chatila. È una cosa che angoscia vedere questo cimitero dove sono sepolte le vittime di quell’orrendo massacro. Il responsabile dell’orrendo massacro è ancora al governo in Israele. E quasi va baldanzoso di questo massacro compiuto. È un responsabile cui dovrebbe essere dato il bando dalla società”. Nessun bando dalla società per Ariel Sharon, (nonostante Israele abbia riconosciuto la sua responsabilità indiretta) che trent’anni dopo lastrage è ancora impunito. E a trent’anni dall’accaduto, per i rifugiati di Sabra e Chatila, non è cambiato nulla. La comunità internazionale li ha già dimenticati. Noi no. Testimoniare è un obbligo.Sebastiano Caputo (Beirut)









   
 



 
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