L’affermazione del titolo potrebbe sembrare uno slogan qualunque raccolto nella campagna presidenziale americana, ma non é così, essa é di Joseph Stiglitz , un economista molto serio, premiato col Nobel nel 2001, ed é suffragata da dettagliate spiegazioni contenute nel suo più recente libro: “The price of inequality” (Il prezzo della diseguaglianza) e da un suo chiarissimo ed esauriente articolo sul New York Times dal titolo “Some are more unequal than others” (Alcuni sono più disuguali di altri). Quello che Stiglitz tiene di più a mettere in luce, e che comunque é perfettemente visibile nella attuale campagna politica per le elezioni presidenziali americane, é che i partiti conservatori dell’ultima generazione Usa hanno talmente smarrito la strada che riescono persino a farsi tirare le orecchie dai liberali conservatori inglesi. Infatti é proprio “l’Economist” a sostenere, in una serie di articoli recentissimi, che la crescente disuguaglianzagenerata negli Usa dalle politiche di eccessivo favore verso le fasce sociali più ricche (durante il boom degli anni “90 e negli anni della presidenza Bush) e poi di eccessivo rigore verso le fasce sociali più povere (durante la crisi attuale, che dura ormai da 4 anni), non fanno assolutamente bene all’economia del paese. Anche i liberisti dunque, quando non sono dei semplici egoisti e menefreghisti, ma sono invece economisti seri e competenti, coscienti e preoccupati di ciòche occorre al paese, sanno benissimo che le economie dei paesi sviluppati, al di la delle facili apparenze e degli abbagli creati da qualche grande impresa che va bene, vanno forte solo quando c’é una classe media che sta bene e che cresce. Quindi con un tasso di disuguaglianza che si riduce, non che si allarga, come accade invece da circa quarant’anni negli Stati Uniti. Finché l’economia in generale cresceva in modo costante, salvo la breve crisi del “tecnologico” di inizio secolo, benché la crescita fosse“drogata” dagli eccessi della finanza senza freni, gli effetti negativi della disuguaglianza non apparivano in modo evidente, ma non appena la recessione ha “sgonfiato” la bolla e obbligato a misurare i fattori economici con maggiore serietà, é stato inevitabile per gli economisti veri, anche di campo liberista, accorgersi che l’economia soffre anche a causa di una disuguaglianza in crescita. Se la disuguaglianza cresce e contemporaneamente la società si dibatte in un forte e prolungato periodo di austerity, é inutile nascondersi dietro un dito e far finta (come ha fatto recentemente il candidato alla presidenza Romney) che si tratta dei “soliti” parassiti sociali che vogliono vivere sulle spalle degli altri. é invece l’infausto segnale che una parte del ceto medio, quello che più lavora, produce e paga tasse (secondo le statistiche più serie), scivola verso la fascia di povertà. E questo purtroppo, anche mettendo da parte le tragedie personali, produce un doppio danno all’economiadel paese, perché ci saranno meno soggetti a produrre ricchezza e pagare tasse e, ci saranno più soggetti costretti a rivolgersi al sostegno delle provvidenze sociali, aggravando il debito della nazione e soffocandone l’economia. Pertanto non é per niente vero, come sostengono i candidati repubblicani americani, che concedendo grandi agevolazioni fiscali alle fasce più ricche del paese si consente a questa ricchezza di entrare nel circolo economico dando quindi beneficio anche alle classi meno ricche. é vero il contrario. Prima di tutto perché é tutto da dimostrare che le fasce più ricche lascino quello sconto fiscale nel paese a sostegno dell’economia interna (sarebbe anzi facile dimostrare il contrario). E poi sono proprio loro, i ricconi, a sconfessarsi quando dicono (nel loro interesse) che se anche li spogliassimo di tutti i loro averi la loro ricchezza non basterebbero comunque a pagare tutti i debiti della nazione. é vero. Ma allora é vero anche che non sono loro a far riccae prospera l’economia del paese. E’ la classe media, quando é in crescita, a rendere forte e prospera l’economia, perché spende praticamente tutto quello che riceve all’interno dell’economia nazionale, mettendo anche in banca quello che occorre per assicurarsi una rendita negli anni del pensionamento. Quindi i ricchi paghino le loro tasse nella misura stabilita dalle regole e la smettano di chiedere condizioni di favore in virtù di un sostegno all’economia che non sono loro, su questo piano, a dare. Stiglitz cita, oltre a questo, altri falsi miti del sistema americano che sono ormai da tempo divenuti privi di contenuto. Per esempio cita il falso mito dell’America come paese delle opportunità. Per essere concreta questa affermazione occorrerebbe che lo spostamento dalle classi sociali più basse verso quelle più alte fosse in crescita, invece persino la vecchia Europa (prima di questa crisi) puòvantare una mobilità sociale verso l’alto migliore di quella americana. Altro mito é quelloche la ricchezza dei ricchi é come l’onda: solleva la barca, e dentro ci sono tutti (quindi ne beneficerebbe anche chi non é ricco). Non é vero, dice Stiglitz. é solo la ricchezza dei ricchi a crescere, quella della classe media no, che é oggi persino inferiore a quella misurabile quindici anni fa. Un consolidato mito, durato un paio di decenni, era quello che il mercato si autoregola da solo. L’equazione era: meno regole ci sono, più affari si fanno, quindi si produce più ricchezza che (come descritto al punto precedente) ricade su tutto il paese. Alla luce di quello che é successo nel 2008, adesso evitano di sostenere platealmente questo falso mito, ma nella sostanza fanno ancora tutto ciòche é nelle loro possibilità (lobbies, ecc.) per impedire che qualunque regola che non faccia a loro comodo venga presa a livello normativo e legislativo. Stiglitz, proprio sotto questo profilo, conclude poi mettendo apertamente sotto accusa un sistema, nell’intreccio politico, finanziario,economico e normativo, che ha consentito un progressivo e sempre più rapido degrado del tessuto sociale a causa della crescente disuguaglianza. L’abbandono delle regole e l’aumentata possibilità di finanziare indefinitamente (di fatto) direttamente i candidati nelle elezioni politiche ha aumentato anche enormemente i rischi di inquinamento della classe politica, con grave rischio non solo per l’economia del paese ma anche e molto più gravemente per la tenuta democratica delle istituzioni, che finirebbero sempre più pesantemente in balia di interessi corporativi più o meno occulti.Roberto Marchesi (Dallas - Texas)
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