Sarà anche azzurro come il colore della nuova ’cosa’ berlusconiana, ma sotto il cielo del centrodestra la confusione è totale. E questa volta la prospettiva di un ritorno in campo del Cavaliere, sempre più concreta, non convince nemmeno fedelissimi ed ex pasdaran. Si prenda Giorgio Stracquadanio, già direttore del Predellino (la ’Pravda’ berlusconiana) ora co-fondatore, insieme ad altri pentiti del berlusconismo (con lui Isabella Bertolini, che oggi paragona Berlusconi al comandante Schettino), della lista ’Italia Libera’. «Il carisma di Silvio si è rotto», dice a ’l’Espresso’. Tirando addirittura in ballo gli scandali che hanno coinvolto l’ex presidente del Consiglio, a partire dal caso Ruby: «Lo hanno lesionato non tanto in termini moralistici, anche se per una parte di elettorato l’idea che un signore attempato possa mettere le mani addosso alla propria figlia o nipotina dà un po’ fastidio. Ma il cuore del problema», continua Stracquadanio, «èche mentre il Paese andava in crisi lui pensava a divertirsi. Perché questa è l’immagine che ha dato». Così, se il centrodestra «sta ultimando il suo processo di dissoluzione» la colpa è anche sua, del capo che mai fino a pochi mesi fa avrebbe sognato di mettere in discussione. «Conosco bene Berlusconi, ho vent’anni di frequentazione e lavoro comune. E nella sua testa lui è Fonzie, non ammette di avere sbagliato. E’ convinto che il crollo del consenso non sia frutto del fallimento del suo governo, ma sia semplicemente legato alla non appetibilità di una serie di personaggi rispetto al pubblico». Ma non è così, prosegue: «Il Pdl va male perché va male Berlusconi, non viceversa». Se questa è la prognosi, condivisa ben oltre il ristretto circolo di Stracquadanio, impossibile la cura sia un’altra iniezione di Silvio. O di improbabili facce nuove (e meno nuove), dall’imprenditore Gianpiero Samorì al finanziere Alessandro Proto passando per Sgarbi ed Emilio Fede. Che pure, assicuraStracquadanio, nel nuovo centrodestra conteranno eccome. Perfino l’ex direttore del Tg4, fresco di insuccesso (ma «era solo una conferenza stampa», precisa, «il teatro era l’unico libero») per la presentazione della lista ’Vogliamo Vivere’, è appena più ottimista. «Sono convinto che se si presenta Berlusconi, al 60-70 per cento il progetto può essere vincente», spiega. Prima di aggiungere che, in ogni caso, quella stima vale solo se «verranno superati gli egoismi. Perché ai tre milioni di poveri, ai cinque milioni di disoccupati bisogna parlare di strategie concrete. E nessuno lo fa». Difficile dargli torto quando le cronache politiche sono animate dai litigi tra Alfano e Berlusconi, Bondi e La Russa, Meloni e i colonnelli della fu Alleanza Nazionale (pronta a ricostituirsi sotto diverso nome). Soprattutto, tra i sogni montiani di un Frattini o un Sacconi e la loro negazione. Cui ricorre il capo, ma anche lo stesso Fede. Secondo cui la ricomposizione del quadro politico, adestra, passa necessariamente («assolutamente», dice) per politiche di segno opposto a quelle messe in atto del presidente del Consiglio: «Monti mi fa rimpiangere Prodi. E per dirlo io...». Ma questi è solo uno dei tanti nodi irrisolti che il Pdl e i suoi alleati dovranno sciogliere. Un altro è rappresentato dalle primarie, che una parte del partito vuole e un’altra avversa. «Se si fanno il 16 dicembre non saranno rappresentative, non c’è il tempo tecnico», dice Fabrizio Rondolino, comunicatore passato da D’Alema a Daniela Santanchè. «I coordinatori regionali non hanno neanche cominciato a prepararle. Penso che Alfano mollerà la presa, o comunque le sposterà a gennaio», ragiona. «Anche se poi c’è il problema del voto anticipato». Insomma, «comunque vada sarà un insuccesso». Per Rondolino il colpevole è proprio Alfano, «perché è stato al gioco tattico di Berlusconi e si è fatto trascinare fin qua, quando è oggettivamente troppo tardi per organizzarle». Almeno una grana, ilsegretario, se l’è tolta: la candidatura di Alfonso Luigi Marra «Quel pover’uomo» (Alfano, secondo Marra) «ha dato divieto espresso a tutti quanti di autenticare le firme», accusa il fustigatore del signoraggio bancario e dell’anatocismo. «Un’operazione sporchissima, scorrettissima», accusa, avvenuta dopo che la raccolta delle 10 mila firme necessarie era stata, a suo dire, completata. Ora Marra, deluso, pensa di correre da solo («Presenterò il Partito di Azione per lo Sviluppo da solo alle politiche. Potrebbe avere degli esiti politici straordinari»). Ma non prima di un ultimo tentativo, questa volta nello schieramento opposto: «Mi rivolgerò alla sinistra per far rilevare che il loro silenzio sul signoraggio è inqualificabile». Insomma, un problema in meno per Angelino. Il punto è che quando si passi ad analizzare le cause profonde della scomparsa della destra italiana, Silvio o non Silvio, il gruppo dirigente del Pdl ha poco di che rallegrarsi. Da un lato perché nessunosembra essere in grado di comporre il puzzle mandato per aria dal tramonto di Berlusconi, e dal vuoto di struttura e consistenza politica che ha inevitabilmente evidenziato. Dall’altro perché poi, a parte la politologia, ci sono le poltrone. Quella che Rondolino chiama «bassa cucina politica»: e cioè il fatto che ci siano «200 e oltre parlamentari metà dei quali sicuramente non rientrerà in Parlamento, stando ai sondaggi». E che siano, dunque, alla ricerca di una ciambella di salvataggio. «Alcuni pensano sia il ritorno alle origini, altri Montezemolo o Casini o Monti. Questo in assenza di una leadership forte crea le spinte centrifughe che stiamo vedendo. Il povero Alfano non ha l’autorevolezza per gestire una situazione di questo genere», conclude Rondolino. Insomma, al problema politico si salda una commedia umana tutt’altro che edificante. Con il risultato di avere poche o nulle speranze di fermare l’emorragia di consensi nei pochi mesi che mancano alle elezioni. «Anche sedovesse ricostituirsi la vecchia coalizione (gli equivalenti ’2.0’ di Forza Italia e Alleanza Nazionale, più la Lega, ndr), il rischio è che non sia che una versione mignon di quella che ha trionfato negli anni scorsi», spiega Alessandro Campi, politologo da sempre attento alle dinamiche del centrodestra. E Samorì? E Fede? «Briciole», risponde lapidario. «Pensare di allargare il consenso o arrestare l’emorragia in questo modo è un’ipotesi lunare». Il problema, si diceva, è alla radice: al non essere mai stato un partito del Pdl, e alla completa mancanza di autonomia dei suoi componenti. Fino a qualche tempo fa aveva risolto tutto la panacea Berlusconi. Ma ora che una sua lista vale tra il 7 e l’8 per cento, dice Campi, sarà sufficiente al massimo per «limitare i danni». Del resto, all’ipotesi che questo centrodestra sia in grado di rivincere le elezioni non crede davvero nessuno. Non Rondolino, che a domanda risponde: «No, non c’è nessuna possibilità. Il leader federatorepotrebbe sempre spuntare, sia chiaro: potrebbe essere Monti. Ma non credo Alfano, Berlusconi, Casini o Montezemolo possano vincere le elezioni». Non lo stesso Campi, che affonda il coltello nelle carni scoperte del centrodestra: «Pensare di diventare competitivi da qui alle prossime elezioni, primarie o non primarie, mi sembra francamente molto velleitario. Ormai c’è stata un’inversione della ruota politica». Semmai, «il centrodestra deve accettare l’idea che bisogna stare fermi un giro. Più di ogni altra cosa, dovrà riflettere seriamente su quello che è successo negli ultimi tre anni, cosa che fino a ora nessuno ha fatto. Non ho ancora sentito una parola di spiegazione su come mai un partito con quelle percentuali di consenso nel 2008 si trovi oggi in questa situazione». Una volta fatta questa fondamentale operazione di autoanalisi, si deve ripartire non da Berlusconi o dal berlusconismo, ma su basi completamente nuove. «Bisogna prepararsi a una traversata nel deserto», diceCampi. «Perché sarà la crisi sarà lunga»Fabio Chiusi-l’espresso
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