Accademia di Santa Cecilia – Znaider dirige il palestinese Ashkar Il programma settimanale presentato dall’Accademia di Santa Cecilia nella sala grande del Parco della Musica si articola su tre autori Ligeti, Beethoven, Ciaikovskij. L’Orchestra, diretta da Nikolaj Znaider, si confronta dapprima con György Ligeti, un autore contemporaneo di grande valenza ma ancora non del tutto noto al grande pubblico e poco frequente nei cartelloni delle Istituzioni musicali. (Di recente, ha avuto grande esito una edizione della sua unica opera lirica, Le Grand Macabre, in un allestimento surreale ed iperbolico della Fura des Baus, tutta improntato al tema dell’assurdo e del mostruoso.) Eppure il suo contributo alla musica del Novecento è denso, vario e complesso e ingloba le esperienze e le tendenze che articolarono il nuovo modo di comporre. Nato in un piccolo centro della Transilvania, allora ungherese e oggi rumeno, Ligeti, dopo una inizialefascinazione subita dalla musica di Bartók e di Kodály, lavora a Colonia nello studio di musica elettronica di compositori d’avanguardia come Stockhausen e Koenig, e nel 1959 si ritrova ad insegnare a Darmstadt, capitale della “nuova musica”. Ma sarà un’esperienza breve perché lo disturba l’eccessiva competizione presente. La sua ricerca musicale si incentra su un universo sonoro stravolto, decomposto, con effetti straordinari attinti in Requiem e in Lux Aeterna – che Stanley Kubrick volle utilizzare per il suo “2001. Odissea nello spazio”. Il geniale regista avrebbe poi adottato Atmosphéres e Lontano per un altro celebre film, Shining. Nel brano in programma, Ramifications, scritto tra il 1968 e il 69, melodia, ritmo e timbro sono fusi in un tessuto sonoro aereo che potrebbe richiamare delle nuvole che si muovono, si compongono, si decompongono, creando con il supporto di chi le guarda astrazioni indefinibili. L’orchestra di soli archi si articola su due piani, da una parte una“micro polifonia” che culmina con un effetto acuto, l’altra è ricca di sovrapposizioni e come pulsazioni che si propagano per gruppi di strumenti. Un brano che stranamente non risente degli anni passati dalla sua nascita e che sembra attualizzarsi anche per merito dell’orchestra in serata ispirata e del suo giovane direttore Znaider. Incastonato come un diamante, ecco il Concerto n. 2 in si bemolle maggiore per pianoforte e orchestra, il primo in realtà scritto da Beethoven, essendo stato iniziato nel 1788, ma completato anni dopo a Vienna per un’occasione speciale: il concerto organizzato da Antonio Salieri a favore delle vedove e degli orfani della Società dei Musicisti in quel 29 marzo del 1795. Era una Grande Accademia Musicale, ovvero un evento secondo la misura e i gusti dell’epoca, al quale partecipavano oltre 150 compositori, come veniva reclamizzato. Successivamente, il brano subì una profonda revisione, per essere pubblicato poi a Lipsia un quarto di secolo dopo. Ed èquesto che è giunto integro fino a noi. Il Concerto subisce il fascino che si respirava allora in una Vienna che aveva conosciuto e adorato il genio di Mozart, morto quattro anni prima, dunque quasi coevo, di cui riprende alcuni stilemi, le tecniche collaudate e un certo allure che ricorda le epoche precedenti. Se la voce del nuovo compositore è indicativa di un’alta qualità artistica, se il compendio dei grandi classici cerca nuove vie di espressione, tuttavia lascia intravedere nell’ordito quella originalità e potenza ispirativa che saranno poi le caratteristiche del cosiddetto “periodo eroico”. E dove Mozart aveva affascinato per la ricchezza delle idee profuse a piene mani e a getto continuo, il Beethoven ventiquattrenne giunto a Vienna incuriosiva per la solidità e la compattezza della sua arte. Il pianista che si confronta oggi con quest’opera sa che dovrà rendere in controluce tutto questo affollarsi di memorie, e far risaltare l’elegante chiaroscuro fra i temi esposti el’accentuazione degli stessi, così come il dialogo costante con l’orchestra, che si apre con un momento dalla ritmica accentuata per profondersi poi in un accentuato lirismo. Su questo tessuto debutta il pianoforte con note morbide iniziali che ben presto si appropriano dei due temi dell’Introduzione articolandoli assieme a figurazioni che davano in un certo senso al pianista l’estro di presentarsi in tutta la sua valenza virtuosistica. Una strizzatina d’occhio al pubblico che rendeva popolare all’istante opera e strumentista. La stessa che veniva ripetuta al momento della cadenza, scritta dal giovane Beethoven con lo stesso intento che animava le colorature dei soprani leggeri, nelle quali mettere in bella vista la bravura e il virtuosismo vocale. Un momento che di regola non veniva scritto ma lasciato liberamente alla improvvisazione, quello delle cadenze, tanto che spesso i maggiori pianisti trovavano opportuno scriverle di proprio pugno. Non così con Beethoven che nel 1809 misesu rigo la cadenza, forse ad uso dell’arciduca Rodolfo d’Asburgo, che si dilettava di sedersi alla tastiera. Saleem Abboud Ashkar, elegante pianista palestinese, ormai apprezzato a livello internazionale, che si è esibito con direttori come Zubin Mehta, Barenboim, Muti, ed ha collaborato con le maggiori orchestre del mondo dai Wiener, alla Chicago Symphony, alla London Symphony, al Maggio Musicale, all’Orchestra del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, ha la statura perfetta per questa esibizione, raffinato esecutore, aderisce perfettamente a quella tipologia di artisti ovunque apprezzati per le doti di sonorità e il senso lirico, in perfetta sintonia con il direttore, qui, all’Accademia di Santa Cecilia, il brillante violinista Nikolaj Znaider che, anche nella sua qualità di direttore, viene invitato in tutto il mondo e in questa occasione debutta sul podio della formazione ceciliana. L’ultimo lato del triangolo è l’ inno doloroso scaturito come una confessione da un’anima dallasensibilità malata. Benché la Sinfonia n. 4 in fa minore non si possa considerare una musica a programma, Ciaikovskij scrisse alla sua mecenate Nadežhda von Meck, brevi note alla composizione nelle quali si chiarisce quanto meno il clima che ha sotteso l’ispirazione delle drammatiche melodie. Così si può parlare di sinfonia del Fato, la forza frustrante del destino che contrasta drammaticamente la ricerca di felicità. Ad esso si può opporre solo la rassegnazione, l’accettazione. Ma l’anima non sente ragioni e si tortura. Allora meglio allontanarsi dalla realtà e immergersi nel sogno, l’unico territorio dove si può vivere senza dolore. Il risveglio, però, sarà più brusco, mentre la malinconia ormai invade ogni fibra. Meglio immergersi nell’allegria spensierata di una festa sull’aia, alla ricerca di gioie semplici ma vere. La sinfonia fu scritta in un momento di grande tormento e di depressione, con il compositore che poteva contare solo sull’aiuto dell’amica von Meck, mentre crescevaun’ostilità proporzionale con il successo su cui poteva contare, perché i bravi borghesi e le autorità musicali rimproveravano al compositore una chiara tendenza omosessuale. E fu proprio per far cessare le voci insistenti che pescavano nella sua intimità che Ciakovskij commise una leggerezza, un errore di valutazione arrivando a sposare Antonina Malyukova. Il matrimonio si rivelò un inferno, con il musicista che solo dopo poche settimane arrivò a cercare rifugio in casa della sorella. Rientrato nel ménage per pochi giorni a settembre del 1877, in preda ad una forma violenta di depressione lasciò la Russia per cercare svago in Svizzera, in Francia e in Italia dove, tra Sanremo e Venezia, la partitura della Quarta fu completata. Interpretata da un direttore come Znaider, che è abile e raffinato violinista, la sinfonia acquista, se possibile, una valenza più intensamente romantica, mentre risaltano con evidenza certi momenti celebri come il pizzicato ostinato degli archi delloScherzo, dove viene in rilievo il virtuosismo dell’orchestra. Il Finale , Allegro con Fuoco, è un inno ad una gioia selvaggia, traboccante, febbrile quasi in contrapposizione con il tono generale dell’opera.Franzina Ancona
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