L’editoria rantola nella crisi. Finora, quasi, non se ne era accorto nessuno. Eppure da due anni è ciclo infernale di chiusure di testate, quotidiane e periodiche, due anni di lavoratori a spasso - giornalisti, grafici, poligrafici, amministrativi, trasportatori, distributori, edicolanti - di progressivi liquidazioni e fallimenti di decine e decine di tipografie, stamperie, società di servizi, punti di distribuzione e vendita. Anzi. Poiché a morire erano le piccole testate, i gruppi non monopolistici, le piccole imprese, i media “autorevoli” e i loro mentori se ne fregavano. Forse sorridevano pure, pensando che eliminando un po’ di concorrenza, un po’ di fastidioso pluralismo, avrebbero rinsanguato i propri scarni bilanci di diffusione. Contro tali morituri – quelli che dovevano morire – deboli di per sé e senza protezione di Casta o di Chiesa (pensate alle tante cooperative di lavoratori), per di più si è svolto una vero e proprio tiro alpiccione. “Paludati opinionisti” televisivi e cartacei, naturalmente forti di vertiginosi e dorati contratti di collaborazione (magari con la Rai “pubblica” …), hanno sparato contro le vittime designate ad alzo zero. L’editoria minore, quella di idee, infatti era in parte sostenuta da contributi diretti dello Stato. Che scandalo! Come se in Italia non esistessero che una cinquantina di editori “beneficati” (parzialmente) e non decine di migliaia di settori produttivi interi, enti inutili a bizzeffe, “autorità” burocratiche e quant’altro a totale carico dei contribuenti. Come se, parlando di tali miniTorquemada, non fossero loro stessi nella quasi totalità percettori indiretti o diretti di lauti contributi e stipendi d’oro da fonte pubblica. Ma tant’è. Sta ora di fatto che qualcuno comincia a svegliarsi, in ritardo e con l’occhio puntato soltanto agli “autorevoli” trust dell’informazione, ma è meglio di niente: qualcuno comincia a stropicciarsi gli occhi. Il campanello d’allarme èstato suonato dall’Inpgi – l’istituto di previdenza dei giornalisti – che vede dilatarsi gli stati di crisi, le casse integrazioni, le disoccupazioni. E’ così di qualche giorno fa un “appello di Anselmi, presidente della Fieg (federazione editori), in favore dell’editoria in crisi (quella grande). Ed è di ieri una nota alquanto caustica di Siddi, segretario della Fnsi (sindacato giornalisti), che contesta il “non cale” (pronunciato in Puglia) dal presidente del Consiglio Mario Monti su quel che accade nel mondo dell’informazione e al quale ha ricordato come “il bene informazione prodotto e distribuito dai media vecchi e nuovi, non è un banale prodotto di consumo come tanti se ne trovano nei supermercati. La crisi dell’industria editoriale non è una crisi di singole situazioni ma di un intero settore decisivo della democrazia, della vita pubblica e dell’industria italiana”. Per il segretario della Fnsi e il suo Consiglio nazionale – Siddi ieri si è incontrato con il presidentedella Fieg al fine di avviare “un’azione comune per un risanamento del settore” e “chiedere al nuovo Parlamento e al nuovo governo un deciso intervento sull’editoria” - “la crisi ormai ufficializzata, di gruppi di primo livello nel panorama dell’editoria nazionale come Rcs Mediagroup e Mondadori e di quotidiani come La Stampa e Il Corriere dello Sport, con la chiusura di decine di testate storiche e l’espulsione dalle redazioni di quasi un migliaio di giornalisti, rende evidente per tutti che un settore rilevante dell’industria italiana - cui sono legati beni pubblici come la libertà di informare ed essere informati e il diritto all’informazione - è arrivato a un punto di allarme acuto”. “Nessun governo - spiega la Fnsi - puo’ immaginare che il rilancio dell’editoria possa avvenire solo per impulso delle parti”. Insomma: i bilanci delle radiotelevisioni, pubbliche e non, dei giornali e periodici “autorevoli” sono in affanno e accumulano perdite, e questa volta non si sente piùrivolgere l’invito di chiudere le aziende e di “andare in internet”… Che strano.
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