La “rivoluzionaria” sentenza dell’Efta sul caso Islanda
 











Al di là del contesto generale e della prevalenza nella motivazione di argomenti fondati su norme di trattati internazionali, la sentenza della Corte EFTA (European Free Trade Agreement) sull’Islanda pone una serie di questioni che trascendono le norme richiamate ed applicate, riguardando principalmente principi del diritto e dell’ordine internazionale (un tempo si sarebbe detto dello jus gentium); e, sullo sfondo, il presupposto politico della distinzione tra pubblico e privato (e i soggetti e la natura dell’obbligazione politica).
Il thema decidendum, cioè l’oggetto del contendere, era la garanzia dei depositi bancari di correntisti esteri (non islandesi) da parte dell’Islanda. Il crack della banca Islandese Landsbanki (e consociate) non consentì il rimborso dei depositi (ad alto rendimento) dei clienti esteri (specialmente inglesi ed olandesi). I governi inglese e olandese garantirono i correntisti autoctoni e successivamente chiesero rivalsadirettamente al governo di Reykjavik. La contesa era portata alla Corte EFTA.
La normativa invocata prevede che in caso di chiusura di un ente creditizio insolvente i depositanti delle succursali situate in uno Stato membro diverso da quello in cui l’istituto di credito ha la propria sede sociale, devono essere tutelati con la stessa garanzia degli altri depositanti dell’ente; secondo le parti ricorrenti la direttiva UE imporrebbe, a carico degli Stati, un “obbligo di risultato” a garantire un sistema di tutela dei depositi impostato di guisa che, in caso di indisponibilità, il totale dei depositi del medesimo depositante siano coperti in ogni circostanza; neppure una situazione di emergenza (come quella dell’Islanda nel 2008) potrebbe consentire di modificare l’obbligo di garantire i depositanti; e non sarebbe sufficiente che lo Stato (nella specie l’Islanda) abbia adottato misure legislative idonee al fine di tutelare i depositanti (come controlli, garanzie a carico del sistemabancario); occorre che paghi quanto dovuto dalle banche fallite ai correntisti (nei limiti di un importo prefissato). La difesa islandese sosteneva, tra l’altro, che compete allo Stato predisporre gli strumenti di garanzia; che nella specie, si trattava di una crisi generalizzata e che una garanzia “fidejussoria” dello Stato, come quella pretesa avrebbe indotto condotte ancor più spericolate da parte delle banche.
La Corte ha deciso che il sistema della direttiva applicato non è vincolante in senso assoluto. Lascia gli Stati liberi di introdurre e riconoscere diversi sistemi di garanzia dei depositi nel loro territorio, consentendo loro di scegliere tra diverse opzioni. Quanto alle “crisi sistemiche, le disposizioni della direttiva fanno riferimento al fallimento di singoli istituti di credito e non ad una crisi finanziaria di tale ampiezza”.
Inoltre la Corte ha giudicato “il costo del finanziamento di tali sistemi di garanzia deve essere sostenuto, in linea di principio, dagliistituti di credito e non dagli Stati SEE” e che “il fallimento di un istituto finanziario è coperto – come nei sistemi di assicurazione classici – del resto delle istituzioni attive nel mercato”; una copertura “fidejussoria” statale incoraggerebbe il “moral hazard”, cioè i comportamenti più scorretti e spericolati delle banche, sicure di scaricare il rischio di perdite sullo Stato. Quindi “in considerazione di quanto precede, il Tribunale ritiene che la direttiva non prevede che la convenuta stessa deve garantire i pagamenti ai depositanti nelle filiali Icesave nei Paesi Bassi e il Regno Unito, a norma degli articoli 7 e 10 della direttiva, in una crisi sistemica della grandezza vissuta in Islanda”. Nel caso di fallimenti bancari, “è legittimo agli Stati SEE di intervenire per salvare le banche, o rami, che sono necessari per il funzionamento del sistema bancario, ma non vi è alcun obbligo di farlo” anche perché gli Stati “godono un ampio margine di discrezionalità nelle sceltefondamentali di politica economica nel caso specifico di una crisi sistemica”.
Le questioni che pone questa sentenza sono:
a) Se in generale sia obbligo di uno Stato pagare, attraverso la garanzia dei depositi, le perdite delle banche (l’altra questione, se ciò sia opportuno è sostanzialmente diversa, perché riconducibile alla decisione sovrana dello Stato). La Corte ha detto no, con argomentazioni anche non strettamente giuridiche che sarebbero piaciute non solo a filosofi (e economisti) statalisti come Fichte o List, ma anche al nostro Einaudi il quale capiva assai bene (e lo scrisse) che la libertà si fonda sulla responsabilità (patrimoniale in primo luogo): e avere quella senza questa significa guastare il funzionamento (anche “morale”) del mercato;
b) A tale proposito la Corte ritorna più volte sul concetto di rischio: il che offre lo spunto per considerare in che misura il rischio delle attività economiche possa essere assunto dallo Stato (e non sopportato daglioperatori-imprenditori). La tentazione di un cattivo assistenzialismo è di assistere i… banchieri (quelli incompetenti e spericolati in primo luogo) più che i cittadini; ed è ciò che si ottiene, indirettamente, ove se ne garantiscano le perdite. Per cui una certa dose di rischio è necessaria anche in uno Stato assistenziale e interventista per indurre i cittadini (e non solo i banchieri) ad essere più oculati, e non farsi allettare dalla prospettiva di facili (e improbabili) guadagni, con la garanzia che lo Stato-mamma, oltre alla pensione, alla sanità e quant’altro, tuteli anche gli investimenti. Anche perché, se si garantiscono quelli, il rischio che si assume (e già si vede all’orizzonte) e che il Welfare State non possa garantire pensioni, sanità e così via.
c) Altro argomento – connesso al precedente – respinto dalla Corte è che lo Stato, anche in situazioni di emergenza economica (lo “Stato d’eccezione” di Schmitt, esteso all’economia – come aveva visto il grande giurista inparticolare nel “Hüter der Verfassung”) debba garantire i debiti (delle banche). Una pretesa del genere non l’avanzava neppure Schylock, che, per la mancata restituzione del prestito voleva una libbra di carne di Antonio, ma non i ducati della Signoria; la quale, essendo uno Stato serio, se l’avesse preteso, nel migliore dei casi, l’avrebbe preso per un delirio, nel peggiore lo avrebbe fatto languire nei “Piombi” vita natural durante. In effetti che dovrebbe fare uno Stato, la cui “idea direttiva”, come scriveva Hauriou, è di proteggere la comunità politica? Provocare un disastro economico, dalla carestia in giù, per pagare i debiti (delle banche)? E vi pare il sistema di proteggere i cittadini (e il loro “benessere”), provocare enormi disagi per pagare le perdite bancarie?. È chiaro che il dovere dello Stato è il contrario; cercare sì di contemperare gli interessi, ma non di sacrificarne il principale (e proprio compito primario) per soddisfare altri, pur importanti, ma secondaririspetto al primario?
d) Questo introduce un’altra questione, connessa all’essenza del politico e cioè a uno dei presupposti di questo, la distinzione pubblico/privato (Freund). Scriveva Ulpiano: “publicum jus est quod ad statum rei romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem, sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim”. Tale frammento di Ulpiano è il primo del Digesto, a conferma dell’acume della tradizione giuridica romana. Per cui il fondamento della distinzione ulpianea tra pubblico e privato è dato dall’interesse e l’utilità cui l’attività è rivolta.
Il confine tra pubblico e privato varia secondo i popoli, le regioni, i regimi politici, i tempi, le situazioni concrete: ma ogni comunità politica, pur spostandosi da una parte a scapito dell’altra e viceversa, esiste. Il problema, che nel caso si pone, è se lo Stato debba assumersi l’onere di garantire (pagando) dei rapporti giuridici di per se squisitamente privatistici, trattandosi di contratti bancaritra soggetti privati (privati quindi sia oggettivamente che soggettivamente).
Ovviamente la risposta “classica” è no, ma a parte le ragioni di opportunità (che spesso possono indurre a deroghe delle norme vigenti e anche dei principi generali) interessa qui rilevare come il “mercatismo” in voga si basa sulla confusione sia tra pubblico e privato che tra esigenze politiche e rispetto delle norme giuridiche.
Infatti l’obbligo privatistico di restituire dei quattrini viene trasformato in una pretesa nel confronti dello Stato (da parte di una altro Stato) e così pubblica (d’altra parte non è una novità, essendo frequente e ricorrente sotto diverse forme). Ma così il richiamo ripetuto alla libertà economica suona falso e fuorviante, perché garantito dal potere impositivo e di coazione dello Stato.
Parimenti, quello al rispetto delle obbligazioni (ineccepibile nei confronti degli obbligati, cioè le banche) diventa improponibile se tale principio, che in Italia e per certe categorieo singoli creditori è sempre sbandierato, voglia prevalere su quello – chiave dell’ordinamento – della protezione degli interessi nazionali, riassunto dai romani nella massima Salus rei publicae suprema lex, che uno stanco e decadente perbenismo vorrebbe rinnovare, considerando quale “suprema lex” gli interessi – tra gli altri e soprattutto – dei banchieri. Teodoro Klitsche de la Grange
 









   
 



 
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