La decisione di Mario Draghi di ridurre i tassi di interesse e il costo del denaro sembra - a ben vedere - una misura in sè giusta (se l’obiettivo è quello di sostenere gli investimenti e l’occupazione), ma disperata. Perché, come osserva Federico Rampini su la Repubblica, "è inutile dare via il denaro gratis alle banche se poi quelle - paralizzate dalla paura o dai propri problemi di bilancio - chiudono la saracinesca di fronte all’economia reale". E ciò - continua Rampini - "perché si è da tempo guastata la catena di trasmissione che dovrebbe funzionare attraverso tutto il sistema del credito, passando dalla banca centrale alle banche commerciali per arrivare, infine, all’utente finale, cioè il consumatore o l’impresa che ha bisogno di finanziamenti per investire e assumere". Le due sponde dell’Atlantico sono oggi divise da un solco incolmabile: da una parte la Federal reserve che pratica un tasso ufficiale di sconto dello 0,25% e che stampamoneta "a oltranza", al ritmo di 85 miliardi al mese per sostenere la crescita e ridurre la disoccupazione; dall’altra sponda l’Europa, inchiavardata come Cristo in croce al dogma monetarista del pareggio di bilancio che la sta condannando alla reiterazione delle politiche di austerity e ad una recessione senza via d’uscita. Il fatto è che l’ultraliberismo europeo, criticato ormai persino da quei rivoluzionari del Fondo monetario internazionale, non attribuisce alla Banca centrale la missione di perseguire il pieno impiego. Financo la Banca di Inghilterra e quella del Giappone, paesi politicamente guidati da governi conservatori, hanno "stracciato tutti i manuali del rigorismo monetario", pompando moneta per ristorare le proprie esauste economie. Nell’Europa germanocentrica accade l’esatto opposto. E in Italia? Il nostro paese, che danza da tempo sull’orlo del baratro e che sconta più di ogni altro la crisi della propria industria, non emette più che flebili lamenti, chiedendo (ma con juicio...) di allentare un pò i vincoli alla spesa, beninteso, senza mai smarcarsi e alzare il tono della propria proposta. In realtà, le cose stanno anche peggio di così. Ieri, il Ministro dell’economia, Fabrizio Saccomanni, ha subito chiarito che " il nuovo governo avrà il compito di proseguire lungo la strada avviata di consolidamento e di rilancio del paese", ma che sarà in ogni caso garantito "il rispetto di tutti i vincoli di bilancio" e che "il 3% del deficit rimane un tetto invalicabile". Ma lui, Saccomanni, è un banchiere, l’ennesimo timoniere messo in plancia di comando da lor signori. Dunque, difficile attendersi altro. Sentite, invece, cosa dice Enrico Giovannini, il Ministro del lavoro, che come tale dovrebbe avere per bussola la questione della disoccupazione, l’ "incubo" - così Enrico Letta lo va raccontando - da cui dovremmo destarci: "Faremo quello che dobbiamo e che potremo - ha detto l’intrepido ministro - nel rispetto delle compatibilitàfinanziarie". Per poi aggiungere: "Ma se pensiamo che sia la politica a risolvere questo problema, ci siamo dimenticati che alla fine la crescita la fanno le imprese e i lavoratori". Come si può vedere, siamo a cavallo. Sono personaggi di questa caratura che fanno comprendere in quali mani si trovi il Paese e su quali prospettive di ripresa si possa ragionevolmente contare.Dino Greco L’ossessione monetarista dei "conti in ordine" Mario Draghi ha ieri abbassato i tassi al loro minimo storico, lo 0.5%. La Bce sta facendo tutto o quasi quello che può per rilanciare l’economia europea. Il problema è che può davvero poco. Tagliare i tassi, in generale, non è sbagliato. Certo è meglio di alzarli, come fece il predecessore di Draghi, Trichet, che riuscì nell’impresa non facile di riuscire ad alzare il tasso di interesse nel mezzo della crisi, perché ossessionato dall’inflazione, inesistente, mentre la disoccupazione andava alle stelle. Avere tassi più bassi vuol semplicemente direavere denaro a basso costo, si tratta dunque di un incoraggiamento per le imprese a prendere denaro a prestito dalle banche ed investire. Il taglio dei tassi dunque si inserisce nella stessa direzione dei quantitative easing, della liquidità data alle banche nel corso dell’ultimo anno. Più cash in giro, costo del denaro più basso, più possibilità per le imprese. Purtroppo però, come abbiamo spiegato recentemente, il costo del denaro non è certo l’unica ragione a motivare le decisioni di investimento. Lo si è visto clamorosamente in quest’ultimo anno. Le banche sono piene di contante eppure questo non raggiunge l’economia reale. In effetti, con i consumi in crollo, la disoccupazione alle stelle, la recessione che continua a mordere, pensare di agire solo sul supply side – sul lato dell’offerta – non ha molte possibilità di successo. In una situazione di liquidity trap, trappola della liquidità, la politica monetaria diventa inefficace nel rilanciare l’economia reale. I tassi sonoormai a zero, l’effetto di stimolo sul settore privato è nullo. Per uscire dalla crisi, dunque, sono indispensabili tipi diversi di intervento. Il primo dovrebbe essere l’investimento pubblico. L’abbassamento dei tassi di interesse – che non a caso ha portato ad una ulteriore riduzione dello spread (ormai ovviamente slegato dall’economia reale) – potrebbe avere un effetto positivo se i minori costi di indebitamento dello Stato si traducessero in un rilancio della spesa pubblica. Questa servirebbe a rimettere in moto un ciclo positivo di investimenti ed ad aumentare la domanda aggregata. Allo stesso tempo lo Stato dovrebbe sostenere la domanda privata, capovolgendo appunto l’idea che si esce dalla crisi solo dando soldi alle imprese. Demand side, invece di supply side: sostegno ai consumi delle famiglie, aumento dei salari, reddito di cittadinanza, soprattutto incremento dell’occupazione. Si tratta cioè di far ripartire l’economia reale, l’unica maniera per ridare fiducia alsettore privato e rilanciare gli investimenti. In concreto, vuol dire buttare al mare la folla idea che i conti in ordine siano il mezzo per uscire dalla crisi. E’ vero esattamente il contrario: in periodi di recessione lo Stato deve intervenire con politiche anti-cicliche, indebitandosi. Letta e soci continuano ad insistere sul mantra del non lasciare debiti alle future generazioni. Ma l’indebitamento, necessario, presente, può e deve essere riassorbito quando l’economia sarà in crescita, le tasse aumenteranno e non ci sarà bisogno dello stimolo pubblico. Cercare, inutilmente per altro, di tenere in ordine i conti ora, vuol dire lasciare un debito ben più pesante alle generazioni future: quello della povertà. Nicola Melloni
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