La mina derivati sull’Italia: esposta tre volte più della Germania
 











Nessun Paese europeo è esposto come l’Italia alla mina dei derivati, strumenti finanziari sottoscritti dal Tesoro che servono per proteggersi, nella maggior parte dei casi, dalle fluttuazioni dei tassi di interesse o del cambio. Una sorta di assicurazione contro eventi avversi, che come tutte le polizze presentano un conto da saldare qualora questi non si verifichino. Strumenti sui quali il Parlamento, attraverso l’Ufficio di bilancio, chiede ora maggiore trasparenza.
Si tratta di contratti che hanno un valore nozionale di 163 miliardi di euro e che, al settembre 2014, presentavano un conto negativo potenziale da 36,87 miliardi per lo Stato: tanto avrebbero dovuto sborsare le casse pubbliche se quella massa di derivati fosse stata chiusa al momento della rilevazione.
Maria Cannata, il dirigente del Tesoro, in commissione Finanze alla Camera ha spiegato che si tratta di una cifra che rappresenta "poche tipologie di derivati, funzionali agliobiettivi strategici di riduzione debito". Il raffronto con gli altri Paesi europei è poco rassicurante (si vedano le tabelle in fondo all’articolo). I dati al 2013, che permettono la comparazione a livello Ue e che - come visto sopra - sono poi peggiorati per il Belpaese, vedono l’Italia primeggiare per perdite potenziali delle amministrazioni pubbliche: quell’anno i derivati tricolori avevano un valore di mercato negativo per circa 29 miliardi di euro. Peggio dei 16,8 miliardi della Germania e dei 3,9 miliardi della Grecia, mentre a primeggiare per valore positivo erano i Paesi Bassi con 9,6 miliardi. Anche guardando all’incidenza percentuale sul Pil, che tiene maggiormente conto delle reali dimensioni dell’economia di riferimento, l’Italia è messa male: il valore di mercato dei suoi derivati risultava negativo per l’1,8% del Prodotto interno lordo, peggio solo della Grecia (-2,1%) ma tre volte più della Germania (-0,6% del pil).
A fare luce sulla materia sta provando lacommissione Finanze della Camera, in un’indagine ad hoc, in occasione della quale l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), l’organismo voluto dalle regole europee perché validi i documenti finanziari dello Stato, ha rilasciato questa serie di dati. Una richiesta di chiarimenti giustificata anche dalla recente innovazione normativa, che con l’ultima Legge di Stabilità dà facoltà al Tesoro di stipulare accordi di garanzia bilaterale sui derivati, cioè di mettere (o richiedere) titoli di Stato o liquidità come garanzia delle perdite (o dei guadagni) potenziali legate a quei contratti. E vista la situazione attuale di mercato sarebbe un aggravio non da poco.
Il report dell’Upb non manca di annotare più volte quanto la materia resti ai più oscura, tanto da aver "creato nel tempo incertezza in numerosi osservatori, scaturita essenzialmente dalle scarse informazioni e dall’insufficiente trasparenza delle operazioni stipulate". Il gruppo di lavoro presieduto dal professor Giuseppe Pisauro(Emilia Marchionni e Maria Rosaria Marino hanno curato il report) insiste sulla necessità di "conoscere i valori nozionali e di mercato distinti per tipologia di derivato, scadenza, controparte e relativo merito di credito" delle operazioni in derivati del passato e ancora in essere. "Il Dipartimento del Tesoro dovrebbe impegnarsi a rendere pubbliche con regolarità (ad esempio annuale) le informazioni" sui contratti stipulati.
Non aiuta a stare tranquilli il fatto che il valore di mercato negativo sia cresciuto sensibilmente negli ultimi tempi. Viene da pensare che i derivati proteggano l’Italia dall’aumento dei tassi d’interesse (circa 110 miliardi sui 160 totali hanno questa funzione), e che il recente calo degli spread - stimolato in primis dall’annuncio del Quantitative easing della Bce - stia favorendo le controparti del Tesoro nel gioco degli swap. Nel 2007, il valore di mercato era negativo per 17,2 miliardi, diventati 27,9 nel 2013. Le ultime dichiarazioni ufficiali, dopoche nel giugno 2013 Repubblica aveva stimato le perdite potenziali del Tesoro e da lì era partita una nuova campagna di trasparenza, avevano indicato circa 34 miliardi di valore negativo di mercato.
Come detto, si tratta di perdite potenziali che si verificherebbero alla chiusura dei contratti. Ma anche su questo aspetto una trasparenza maggiore è richiesta: "E’ rilevante sapere su quanti e quali contratti derivati sono presenti clausole di chiusura anticipata e conoscere il costo che dovrebbe sostenere oggi la Repubblica italiana qualora venissero esercitate", dice l’Upb.
Il caso scuola risale a inizio 2002, quando Morgan Stanley chiese la chiusura anticipata di un contratto al verificarsi del superamento di un limite prestabilito di esposizione nei confronti dell’Italia. Allora, i conti pubblici ne risentirono con un aggravio da 2,6 miliardi. Cannata, in audizione alla Camera ha garantito che non ci sono altre clausole come quella, relativa a un contratto sottoscritto nel 1994che riguardava l’intera esposizione della banca. "Ciò - ha però precisato - non vuol dire che su singole posizioni non ci sia qualche clausola di chiusura anticipata, ma di tratta sempre di clausole ’mutual’, ovvero esercitabili da entrambe le parti sotto determinate condizioni".
Nella relazione depositata alla commissione Finanze di Montecitorio, si specifica che attualmente in 13 contratti sono presenti clausole di risoluzione anticipata a valore di mercato. Il portafoglio attuale "è il risultato di una strategia di modifica" che "ha mirato a eliminare le clausole stesse", che in effetti ha visto la cancellazione di 20 clausole dall’inizio del 2011 a oggi. Raffaele Ricciardi,repubblica









   
 



 
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