Il capitale umano, innanzi tutto
 











Il diffuso ricorso allo strumento delle esternalizzazioni di attività e segmenti produttivi da parte di molte imprese di servizi viene adottato con l’intento dichiarato di abbattere il costo del lavoro, migliorare la produttività e rendere più competitivi i beni prodotti ed i servizi resi alla clientela.
La critica a tale mezzo può essere suffragata non tanto dalla dimostrata inefficacia di tali provvedimenti nel conseguire gli effimeri risparmi auspicati in termini economici, o dalle preoccupanti ricadute sociali ed occupazionali in termini di insicurezza e precarietà, quanto dall’ipocrisia datoriale mista a protervia nel non ammettere che il reale proposito consista, invece, nel dissanguare numericamente il tradizionale lavoro dipendente, nel contenerne lo spessore sindacale, così da avere mano libera nel ricorrere a soluzioni flessibili (al ribasso) nella remunerazione del lavoro o nel mantenimento dei diritti e rigide (al rialzo) nello staccodei dividendi.
Una singolare soluzione sembra comunque sia stata adottata dalle medesime imprese. Non già nella direzione di re-internalizzazioni di processi lavorativi o rami d’azienda precedentemente ceduti, bensì dell’assunzione di consulenti esterni ai quali ci si era dissennatamente affidati travasando loro know-how e competenze.
Fin qui nulla di male.
Anzi, ricondurre singoli lavoratori nell’alveo giuridico di una categoria contrattualizzata collettivamente e sindacalizzata potrebbe presentare reciproci vantaggi: più coperture sociali per il lavoratore, più peso contrattuale per la categoria professionale in sede di relazioni industriali. Insomma, l’auspicata rivincita dell’“erga omnes” sull’“ad personam”. Tale nuovo scenario presenta, tuttavia, alcune vistose anomalie che una adeguata analisi, attenta anche ai risvolti psicologici e comportamentali degli individui, non può trascurare o sottovalutare.
Tra di esse va senz’altro annoverato il fatto che le assunzioni inorganico di consulenti esterni avvengono di norma con attribuzione di livelli gerarchici e retributivi sensibilmente superiori rispetto a quelli posseduti – a parità di mansioni, ma con pluridecennale esperienza – dal personale interno. Una prassi che, quindi, non si distacca troppo da quella logica (economica e contrattuale) “ad personam” poc’anzi richiamata.
Inoltre, i ruoli aziendali di maggiore visibilità, prestigio e spendibilità nel mercato vengono spesso ricoperti da personaggi pagati a peso d’oro, provenienti dalle medesime famigerate società di consulenza, le quali, almeno in Italia, stanno oligopolizzando il relativo mercato e colonizzando il mondo del terziario. A rendere ulteriormente fosco ed insidioso il quadro di riferimento intervengono i non comuni “skills” detenuti da costoro, quali l’arroganza tipica dei parvenus, il disprezzo delle professionalità interne, il desiderio di smantellamento scientifico dell’impianto strutturale preesistente. Requisiti evidentementereputati necessari a perseguire efficienza e competitività, ma forse – temiamo – non sufficienti ad innalzare il livello qualitativo delle produzioni.
Tra i due citati aspetti, è senz’altro quest’ultimo quello più grave in termini di conseguenze immediate e differite che inevitabilmente finisce per produrre. Non è purtroppo raro il caso di validi ed affidabili lavoratori cinquantenni che, dopo circa tre decenni di carriera, si vedono improvvisamente scavalcati e surclassati da “superlaureati” di ventotto-trent’anni con curricula vitae da far impallidire un decorato al Merito del Lavoro.
In realtà si tratta di fuorvianti percorsi costruiti artificialmente con esperienze non significative, limitate a pochi mesi di permanenza in aziende compiacenti, maturate in posizioni marginali, caratterizzate da esasperati turn-over, ma soprattutto prive di validi riscontri sulla bontà del lavoro svolto, poiché – come detto – dopo pochi mesi gli ineffabili personaggi, non importa se nellaqualità di consulenti o in quella di dipendenti, cambiano realtà di lavoro, sottraendosi, di fatto, al severo giudizio professionale (tanto dei superiori, quanto dei colleghi) sulle capacità lavorative dimostrate, dunque alle proprie responsabilità.
Giudizi e responsabilità ai quali, invece, i dipendenti interni, estranei alla logica del “mordi-e-fuggi”, devono costantemente sottostare ed a cui, inoltre, sono commisurati i relativi riconoscimenti, carriere.
Nonostante ciò, simili sconcertanti “profili” che non hanno dimostrato concretamente alcunché a nessuno vengono, comunque, preferiti a collaudate e serie professionalità già presenti in azienda. Non troppo occulte, allora, le ragioni sottostanti a questa scelta. Il regime di sistematica mortificazione ed annichilimento della dignità dei lavoratori tradizionali (parlare di mobbing risulterebbe fin troppo edificante) viene adottato con sempre maggiore virulenza dalle direzioni centrali – e dalle loro propaggini burocratiche –principalmente nelle aziende di medio-grandi dimensioni, laddove, cioè, l’esigenza di smantellare le vestigia di garanzie contrattuali e tutele sindacali è più avvertita dai neo-antropofagi del lavoro fluido e precarizzato, grazie anche all’accelerazione ricevuta dai provvedimenti anti-laboristi emanati da due differenti governi nazionali nel 2011 (art. 8 d. l. 138/2011) e nel 2012 (superamento dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori).
Il tutto nella illusione di aumentare l’efficienza, la produttività (il rapporto tra quantità prodotte e fattori produttivi utilizzati) e, con esse, la sbandierata competitività, disconoscendo colpevolmente un macroscopico trade-off tra questi elementi, da una parte, e la qualità e la sicurezza, dall’altra.
Tra le conseguenze prodotte dall’adozione del suddetto dissennato e miope modello organizzativo non possono non essere ricompresi la rottura della trasmissione di conoscenze e della solidarietà generazionale all’interno delle imprese; ilcrollo delle legittime aspirazioni ed il diffuso senso di frustrazione (la famosa rottamazione) che investe i lavoratori meno giovani, ma dotati di un profondo senso di appartenenza; l’abbattimento giuridico e funzionale – accompagnato dalla sovversione dei criteri di gratificazioni e valutazioni – della figura del capo intermedio. Figura, quest’ultima, da sempre assunta quale riferimento dai lavoratori più giovani e ricoperta da chi, provenendo dalla gavetta, era da questi ultimi percepito e riconosciuto – pur nel ruolo di leader – “uno di loro”, in grado di far emergere le qualità e di attivare tutte le potenzialità dei membri del gruppo; un interprete, dunque, di un modo di lavorare verso cui tendere e nel quale riconoscersi.
L’inoculazione ai vertici delle strutture di un’azienda di corpi estranei alla sua storia, privi di retroterra sedimentati da percorsi, esperienze ed emozioni condivisi ne fa delle figure non solo ostili, ma anche nocive al benessere e all’elevazionespirituale, sociale ed economica dei lavoratori. Quel che si sottolinea è, infine, la imprescindibile ponderazione del fattore tempo: privilegiare un’ottica di breve periodo induce a sovrastimare le presunte virtù di efficienza, produttività e competitività. Focalizzare giudizi ed aspettative in una prospettiva di lungo termine, adottare il cosiddetto “equilibrio mobile” di Keynes, consiglia, di contro, una più attenta ed oculata considerazione di qualità, sicurezza e progresso sociale.
Occorre essere competitivi su qualità e sostenibilità sociale, non solo su costi e remunerazione del capitale.
È bene che chi inneggia a produttività e competitività ponga mente a tutto ciò per non dovere, un giorno, nella foga di abbattere costi e conseguire utili, accorgersi di aver tagliato il ramo su cui era seduto; di aver, cioè, dissipato l’unico vero patrimonio che non si rastrella con una Opa più o meno ostile, ma col sacrificio, la pazienza, il talento, la saggezza e la lungimiranza delvero manager: il capitale umano e cognitivo. Stefano De Rosa









   
 



 
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