Tra il 2007 e il 2012 il Prodotto interno lordo italiano ha subito una flessione di oltre il 7%, cosñ imputabile alle due macroaree del Paese: circa il 6% al Nord, quasi il 10% al Sud . Un risultato che ha fatto compiere al Mezzogiorno ha un salto indietro nel tempo, sino ai valori registrati nel lontano 1997, con effetti drammatici sui livelli occupazionali. Ciú rende sinteticamente evidente che, sebbene la crisi economica internazionale interessi tutta leconomia italiana, il Mezzogiorno ne conosca le le conseguenze più gravi. Daltronde i nodi da sciogliere del Mezzogiorno sono sostanzialmente i medesimi degli anni del secondo dopoguerra: grande peso delle attivitÜ primarie, arretratezza tecnologica, inadeguatezza delle infrastrutture materiali e immateriali, ridotto spirito imprenditoriale, bassa produttivitÜ, bassi salari, forte spinta allemigrazione. Il risultato di tutto questo æ che se il Centro-Nord tende a perderecontatto con i ritmi di crescita delle aree centrali dEuropa, nel Sud la desertificazione industriale procede a passi da gigante. Insomma, il dualismo continua a caratterizzare leconomia italiana. Lunico vero tentativo di mettere in moto un processo di convergenza tra le due partizioni del Paese risale allintervento straordinari operato con la Cassa per il Mezzogiorno tra il 1950 e il 1975[7]. Successivamente, il divario tra le due macro aree del Paese æ tornato a crescere o, nella migliore delle ipotesi, a stabilizzarsi. Eppure, dopo lintenso dibattito degli anni cinquanta, sessanta e settanta lanalisi delle vicende economiche italiane ha generalmente cessato di essere condotta in chiave dualistica[8], in particolar modo a partire dagli anni ottanta. A ciú hanno contribuito alcuni fattori. Da un lato, se inizialmente lintervento straordinario aveva puntato sugli investimenti produttivi, successivamente, dopo la metà degli annisettanta, proprio quando maggiore era la necessitÜ di una azione pubblica efficiente in grado di adattarsi ai mutamenti nelle convenienze localizzative e nelladeguamento della produzione alle nuove condizioni di mercato, hanno prevalso interventi a sostegno dei redditi, spesso con caratteri assistenziali e clientelari. Dallaltro lato, al declino del modello di sviluppo industriale basato sullintervento pubblico in comparti industriali a elevata intensitÜ di capitale, venne contrapponendosi laffermazione di un modello basato sullo sviluppo dellimprenditoria locale, improntato a criteri di spiccata specializzazione, in una logica di forte integrazione europea e internazionale[9]. Lesaurimento dellintervento straordinario[10] - concretizzatosi tra la fine degli anni ottanta e i primissimi anni novanta - ha visto anche un calo degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno, anche per i vincoli imposti dal processo di integrazione europea. E daallora si registra una progressiva ulteriore apertura della forbice tra Nord e Sud. Il problema del Mezzogiorno viene spesso, tuttavia, ricondotto ai vincoli e alle rigiditÜ del mercato del lavoro[11] e della formazione del capitale sociale, vincoli e rigiditÜ che impediscono il pieno funzionamento dei mercati dei fattori produttivi e la loro allocazione efficiente tra le varie aree del paese. Tutto ciú si colloca sullo sfondo delle vicende europee: lunificazione monetaria europea e la sua tendenza a spostare il baricentro economico-finanziario verso il Nord-Europa. Ma la storia recente ci racconta che in Europa, cosñ come in Italia, i divari tra le regioni sembrano destinati a perdurare e, in alcuni casi, persino a rafforzarsi[12]. Lottimismo dei modelli che poggiano sulla fiducia che le aree arretrate possano trarre vantaggio nellintegrazione con aree sviluppate æ stato vistosamente smentito. Il libero agire del meccanismo di mercato, sia sul fronte del lavoro,sia su quello della capacitÜ produttiva legata alla tipologia delle tecniche produttive adottate, non ha permesso che le regioni meno sviluppate agganciassero lo sviluppo delle regioni più avanzate. Il vantaggio comparato rappresentato dal minor costo del lavoro nel Mezzogiorno non ha generato latteso riequilibrio territoriale. Lesperienza storica mostra quindi che, se lasciate allazione spontanea dei meccanismi di mercato, le posizioni relative, di vantaggio o di svantaggio, possono persistere nel tempo per effetto dei meccanismi di causazione circolare e cumulativa che potenzialmente si muovono in una direzione contraria rispetto allo sviluppo armonioso di una area integrata[13]. Una volta che la produzione si è polarizzata in aree specifiche e in determinati settori, non ci puú poi attendere uno spontaneo processo di diffusione di iniziative imprenditoriali in altre aree. Si innesca, invece, un processo cumulativo di divergenza per cui:nelle regioni in cui si concentra una struttura produttiva più efficiente e prevale la cosiddetta domanda ricca ha favorito il processo di investimento e quindi di espansione; mentre le regioni la cui attivitÜ produttiva æ legata alla domanda povera subiscono un rallentamento negli investimenti e nel processo espansivo. A ciú si aggiunga che le specializzazioni produttive tendono a riprodursi nel tempo e a strutturarsi, manifestando un legame di causalitÜ con le strutture economiche, sociali e istituzionali, tendenza che le forze di mercato non riescono a correggere. Applicata ad un sistema dualistico, tale circostanza tende ad accentuare progressivamente il divario. In pi0, privilegiare più o meno esplicitamente una competitivitÜ da prezzi, significa impedire la trasformazione della specializzazione produttiva e consegnare alla flessibilizzazione del mercato del lavoro il peso della competitivitÜ internazionale. Evidentemente, questa prospettiva ha finito per aggravareulteriormente lo svantaggio delle aree meno sviluppate: anche le aree forti hanno premuto per una sempre maggiore flessibilizzazione del mercato del lavoro e un sempre minore intervento dello Stato nelleconomia[14] col risultato che mentre nelle aree forti la crescita del reddito æ affidata a economie esterne, rendimenti crescenti e fattori agglomerativi nelle aree deboli la deregolamentazione del mercato del lavoro e il venir meno del sostegno dello stato sociale, in aggiunta al più basso livello di occupazione e di partecipazione, producono una riduzione del Pil pro capite. Il divario si acuisce. Queste dinamiche riportano lattenzione sulla caratteristica cumulativa del processo di divergenza e sui modelli di sviluppo dualistico. Riconsiderare il sistema economico italiano in chiave dualistica con le dovute implicazioni in termini di politica economica e reimpostare conseguentemente le politiche di sviluppo sembra quanto maiopportuno. Carmen Vita, economiaepolitica
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