Parte la grande svendita. Saccomanni: "Si comincia dalle Poste, poi vediamo"
 











Il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni annuncia per domani il decreto sulle privatizzazioni. Secondo il titolare delle Finanze, al primo posto dell’agenda andrà il 40% di Poste Italiane. Inizia così il valzer delle alienazioni dei gioielli di Stato. Tutto per fare cassa, soddisfare il terema monetarista dell’Ue e onorare il dogma del pareggio di bilancio, ficcato sciaguratamente nella Costituzione quasi fosse una tessera della tavola dei valori fondanti. "Domani ci sarà il decreto del presidente del Consiglio dei ministri che fa iniziare il processo di privatizzazione previsto. Per le Poste si comincia con il 40% poi vediamo", ha detto il ministro a margine del World Economic Forum di Davos.
A fine novembre, il governo aveva annunciato l’intenzione di raccogliere 12 miliardi mettendo sul mercato alcuni gioielli di famiglia dello Stato. Una quota di controllo di Sace e Grandi Stazioni, poi quote non di maggioranza di Enav, Stm, Fincantieri,Cdp Reti, il gasdotto Tag e un 3% di Eni. Erano queste le società inizialmente indicate, salvo poi vedere entrare nella partita anche le Poste, che hanno appunto guadagnato il primo posto nell’agenda di Palazzo Chigi. Nei giorni scorsi, il viceministro Antonio Catricalà aveva definito "plausibile" la quotazione di Poste entro l’anno, aggiungendo che "sarà privatizzato il 30-40% del gruppo e la maggioranza resterà allo Stato. Spetterà al Ministero dell’Economia decidere come ripartire le quote".
Come si vede, si naviga a vista. Non c’è, in questo barcamenarsi, uno straccio di disegno strategico, non un’idea su quali siano gli asset su cui puntare per ri-orientare virtuosamente la ripresa e lo sviluppo del Paese. Parlare ai nostri governanti, di qualsiasi conventicola facciano parte, di politica economica, di progettazione industriale è ormai come chiedere  di scrivere un libro a degli analfabeti. Prigionieri del più cieco mercatismo, costoro stanno distruggendo le fondamentamanifatturiere (o ciò che ne resta) dell’Italia. Parlano insulsamente di ripresa e non si rendono conto che stanno segando, per malafede o pusillanime incompetenza, il ramo su cui siamo seduti. Qualche giorno fa l’Organizzazione mondiale del lavoro (l’Oil), che non è certo guidata da un manipolo di pericolosi estremisti, aveva censurato senza mezzi termini le poltiche deflazioniste intraprese dal governo italiano, prevedendo che esse avrebbero non soltanto aggravato la recessione e il tracollo occupazionale, ma compromesso la stessa possibilità di mettere in ordine i conti, cosa possibile solo dentro un progetto di sviluppo guidato da una mano pubblica che non abdichi alle proprie responsabilità.
Ma Saccomanni non si scuote. Persino nell’amena località Svizzera, a qualche giornalista è venuto il sospetto che l’Italia stia scivolando sulla pericolosa china della depressione: contrazione dei consumi, arretramento dei prezzi, stagnazione economica e, alla fine, non minori bensìmaggiori oneri reali per ripagare il debito. Ma lui niente, tranquillo e sereno come un bimbo ripete la filastrocca in cui si racconta di un paese che non c’è. "L’Italia - spiega Saccomanni -  non rischia la deflazione ed è in una situazione completamente diversa da quella del Giappone, che ha vissuto una stagnazione economica di diversi lustri". E a chi gli chiedeva se si potesse riproporre lo scenario nipponico per l’Italia replica che "il nostro paese non ha bisogno di una cura da cavallo come quella che il premier giapponese Shinzo Abe sta proponendo per la sua economia". Peccato che il governo del Sol levante sta mettendo in campo grandi risorse per investimenti pubblici, mentre in Italia si taglia soltanto e sotto i colpi di quella cura il cavallo sta già stramazzando. Dino Greco

 









   
 



 
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