La strategia di Rossella Orlandi per stanare gli evasori fiscali
 











Convincere gli italiani a pagare spontaneamente nove miliardi di tasse in più entro il 2017. E intanto continuare a recuperare ogni anno una dozzina abbondante di miliardi dal mare magnum dell’evasione nazionale, pari a un quinto di quella dell’intera Europa. È l’impegno che, nelle scorse settimane, Rossella Orlandi, da giugno prima donna alla guida dell’Agenzia delle Entrate, ha preso con il premier. Alla fine della riunione Matteo Renzi ha dato il via libera al piano. A modo suo: «Se ce la si fa si va ignudi ai Calzaiuoli», ha detto riferendosi alla strada dello shopping fiorentino per eccellenza.
La Orlandi conosce l’amministrazione finanziaria anche meglio delle sue tasche. C’è entrata, a ventiquattro anni, nel 1981. E non ne è più uscita. Dallo sportello (ha fatto anche quello, nella natìa Empoli) è arrivata fino alla casella di numero due dell’accertamento, cioè dei controlli, quando ministro delle Finanze era Vincenzo Visco - “Dracula”,per i nemici - e al vertice dell’Agenzia sedeva Massimo Romano, di cui lei ha grande stima.
Neanche i nemici giurati arrivano a contestare la competenza della Orlandi. Che, a dispetto dell’aria paciosa, tutti descrivono come una tosta. Lo testimonia, se ce ne fosse bisogno, la velocità con cui ha sgombrato il campo (approdando in Finmeccanica) colui che con il sostegno del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, le ha conteso fino all’ultimo la poltrona: il numero due dell’Agenzia nell’era di Attilio Befera, Marco Di Capua, esponente di spicco del “clan dei ferrovieri”, come nell’ambiente viene chiamata la pattuglia di finanzieri che l’ex generale della Fiamme Gialle e poi direttore del Sismi, Niccolò Pollari, spedì negli anni Novanta alla corte dell’allora ras delle ferrovie, Lorenzo Necci.
Quella della Orlandi ha tutte le caratteristiche della mission impossible. Lady Fisco, soprannome che detesta, deve far emergere gettito e in fretta, perché Renzi ha bisogno di quattriniper onorare le tante promesse fatte e quelle che inevitabilmente seguiranno. Per centrare l’obiettivo potrebbe facilmente incidere sul bubbone dell’evasione fiscale, che il governo ha recentemente stimato in 91 miliardi per i soli tributi erariali, ma che il britannico Richard Murphy, inserito da “International Tax Review” nell’elenco dei 50 studiosi più influenti al mondo in materia di fisco, valuta esattamente nel doppio (180,2 miliardi). Il che vorrebbe dire mettere con le spalle al muro il mondo degli autonomi, che secondo uno studio della Banca d’Italia ha un tasso di evasione pari al 56 per cento. Ma Renzi non ne vuol sapere. Da quando siede a Palazzo Chigi, ogni volta che qualcuno parla di evasione lui si volta dall’altra parte. E per forza: è stata proprio la capacità (che i sondaggi ora segnalano in calo) del suo Pd di attrarre per la prima volta il consenso di commercianti, artigiani, professionisti e imprenditori, quell’insieme che i politologi chiamano piccola borghesiaurbana e che elettoralmente vale qualcosa come 10-12 milioni di voti, a regalargli la straordinaria performance delle elezioni europee e consentirgli di consolidare la presa sul governo ( come si può vedere qui ).
E la Orlandi, che al momento della nomina Renzi lo aveva visto solo in fotografia e che ora ha fatto capolino alla Leopolda insieme al capo dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone, è un grand commis dello Stato: non va dove la porta il cuore, ma dove le chiede il governo. Così, si è incamminata su un sentiero che è molto stretto, ma l’unico in grado, almeno teoricamente, di portarla a raggiungere l’obiettivo di gettito senza entrare in rotta di collisione con le esigenze politiche del capo dell’esecutivo.
Il discorso è semplice: convincere gli italiani a pagare le tasse può costare elettoralmente meno che costringerli a farlo. Quindi, è la parola d’ordine, ridurre subito al minimo i controlli più invasivi, eliminare del tutto i blitz spettacolari tipo Cortina d’Ampezzo ePorto Cervo, lasciar finire su un binario morto progetti come quello del nuovo redditometro. E far invece capire ai contribuenti che il fisco sa tutto di loro (il che è assolutamente vero) e che dunque è molto meglio presentare dichiarazioni dei redditi almeno vicine alla realtà.
È un modo più amichevole di mettere comunque le mani nelle tasche dei furbetti del fisco. Un disegno preciso, supportato da un ragionamento che, nella sua stanza all’ottavo piano del palazzone dell’Agenzia, la Orlandi ripete spesso nelle riunioni con i fedelissimi: il governo Prodi, dice, aveva fatto della lotta all’evasione una delle sue priorità, e qualcosa era pure riuscito a portare a casa. Proprio per questo, aggiunge, alla fine gli italiani l’hanno fatto cadere, spianando la strada al ritorno di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. Bisogna fare tesoro di questa esperienza, è la conclusione, evitando di ricadere nello stesso errore. Così parla la Orlandi. E sotto sembra di sentire chiara la voce diRenzi.
Appena insediata, la Orlandi, che mangia regolarmente in mensa e nei primi giorni ha girato in taxi (poi ha requisito senza troppi complimenti una delle due auto blu a disposizione dei vice), ha piazzato un pacchetto di persone di fiducia. Aldo Polito e Emiliana Bandettini all’accertamento, Corrado Giuseppe Telesca all’amministrazione, Vincenzo Busa alla presidenza di Equitalia, il braccio armato del fisco per la riscossione, dove ha stoppato una star dei tremontiani come Luigi Magistro. Poi ha buttato giù il suo piano.
Come intenda muoversi, in un Paese dove nel 2012 i contribuenti persone fisiche hanno dichiarato 800 miliardi (lordi) ma poi i consumi finali delle famiglie sono risultati pari a 962 miliardi, si capisce fin dalle prime righe della circolare interna che fissa gli indirizzi operativi per il 2014. «La condivisione, da parte dei cittadini, della strategia fiscale è l’unica strada percorribile per un recupero stabile dell’evasione», è la premessa. La Orlandichiede agli 11 mila segugi dell’Agenzia addetti ai controlli di concentrarsi sulle grandi frodi, quelle che possono rendere di più in termini di gettito (senza intaccare il consenso del governo) e di partire dalle dichiarazioni recenti. In 28 pagine ridimensiona uno dopo l’altro strumenti come le indagini finanziarie, gli studi di settore e il redditometro.
Sostiene la Orlandi che è inutile, oltreché impossibile, correre appresso a 6 milioni di imprese e lavoratori autonomi. Molto meglio tentare una sorta di moral suasion. Usando la tecnologia per raccogliere informazioni sul contribuente e poi, alla vigilia della scadenza per la dichiarazione dei redditi, mettergli a disposizione il quadro completo dei dati messi insieme dal fisco, sconsigliandolo così dal tentar di barare in modo troppo smaccato. Un meccanismo previsto dall’articolo 44 della legge di stabilità 2015. E la cui efficacia è subordinata all’introduzione dei pagamenti tracciati e della fatturazione elettronica, che sonocontenuti nella delega fiscale e dovrebbero soppiantare scontrini e ricevute. Nella stessa direzione va l’arrivo della dichiarazione dei redditi precompilata, che però, almeno per ora, è limitata (dal 2015) a dipendenti e pensionati, che già oggi contribuiscono per l’83,5 per cento del gettito Irpef e dunque non avrà un vero impatto sull’evasione fiscale.
Il modello-Orlandi potrebbe funzionare, se il contribuente avesse la percezione di avere a che fare con una macchina fiscale efficiente (in questo caso, secondo uno studio della Confcommercio, il gettito salirebbe spontaneamente, in un sol colpo, di 56 miliardi). Non è così. Tutt’altro. In un Paese dove si possono vincere le elezioni per 24 mila voti (Prodi 2006) il consenso dei lavoratori autonomi è storicamente l’oggetto del desiderio per ogni premier. Il fisco è stato dunque progettato, e modificato negli anni, proprio per lasciare loro la libertà di evadere senza patemi d’animo.
u 6 milioni di potenziali evasori i controllisi fermano a quota 661 mila (2013) e risultano pure in calo rispetto ai 705 mila del 2010 (in diminuzione anche la maggior imposta accertata, dai 27,8 miliardi del 2012 ai 24 dello scorso anno). Ma, secondo la Corte dei Conti, quelli davvero approfonditi non vanno oltre 230-250 mila (le indagini finanziarie sono 14 mila, su 650 milioni di rapporti bancari che fanno capo a decine di milioni di soggetti). Anche quando centrano il bersaglio (cioè nel 94,2 per cento dei casi, secondo il rapporto 2013 del ministero dell’Economia sull’evasione), consentendo di smascherare i furbetti, portano a poco: viene racimolato in questo modo solo un cinquantesimo del gettito totale. E chi è colto in castagna ha comunque buone possibilità di cavarsela: nel 2013 quelli che hanno presentato ricorso alla giustizia tributaria sono risultati vincitori nel 45 per cento dei casi.
Quando anche ottiene ragione, poi, lo Stato deve recuperare i quattrini e sono dolori, anche perché gli ultimi governi hannopensato bene di tagliare le unghie a Equitalia, che oggi a differenza di una banca creditrice non può più, per esempio, pignorare un immobile se è l’unico di proprietà del contribuente che ci risiede anagraficamente. Risultato: Equitalia nel 2013 è riuscita a recuperare solo 13,1 miliardi. Già così sarebbe una goccia nell’oceano. Ma non è neanche vero, perché almeno cinque di quei miliardi vengono in realtà da contribuenti che avevano regolarmente presentato la dichiarazione, salvo poi non pagare quanto dovuto entro la scadenza, e dunque il fisco non ha scoperto un fico secco. Così, tra il 2000 e il 2012 l’amministrazione ha accumulato 807,7 miliardi da recuperare. Una cifra-monstre, pari alla metà del prodotto interno lordo, che andrà quasi interamente in fumo: in tredici anni l’Agenzia è riuscita a mettere le mani su appena 69 miliardi, l’8,5 per cento del totale.
L’efficienza, insomma, è quella che è. Né a incutere qualche timore può essere il sistema delle sanzioni. Quelleamministrative sono troppo buoniste, oltreché mal tarate: in caso di definizione bonaria, colpiscono allo stesso modo chi inserisce nella dichiarazione fatture relative a operazioni inesistenti e chi semplicemente sbaglia nell’applicare regole fiscali. Quelle penali, di fatto, esistono solo sulla carta: secondo l’Institut de criminologie et de droit pénal in Italia i detenuti per reati economici e fiscali sono lo 0,4 per cento del totale, meno di un decimo della media europea. C’è dunque poco da sorprendersi se le omesse dichiarazioni, il reato degli evasori totali, i veri e propri fantasmi del fisco, sono cresciute negli ultimi due anni di quasi il 40 per cento.
Ma ci sono due dati che più di tutti dimostrano come l’amministrazione finanziaria sia considerata poco temibile dai contribuenti. Il primo riguarda i controlli eseguiti: nel 37,2 per cento dei casi il furbetto smascherato non accetta di pagare il dovuto, né presenta ricorso davanti alla commissione tributaria.Semplicemente, straccia le carte e le getta nel cestino. Il secondo spiega come si comportano quelli già scoperti al momento di compilare le dichiarazioni dei redditi degli anni successivi. Ebbene, nel primo biennio la loro base imponibile fa registrare un incremento del 20 per cento in caso di accertamento e del 14 per cento in caso di verifica, l’indagine che comporta un accesso fisico degli ispettori. Poi, passata la paura, tornano a evadere. Come e magari più di prima. Ben sapendo che un controllo, in media, arriva soltanto ogni trent’anni circa. E che quindi loro hanno già dato.
Ecco perché, al di là delle intenzioni, la moral suasion della Orlandi rischia di tradursi in un flop. Stefano Livadiotti,l’espresso









   
 



 
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