Quando pensiamo alla collettivizzazione o, quanto meno, a una forma cooperativa di gestione di imprese economiche il primo esempio che ci viene in mente è quello Argentino in cui, subito dopo il fallimento delle politiche del Fondo monetario internazionale, tra il ’98 e il ’99 le cronache parlarono delle proteste popolari massive e ripetute contro il congelamento dei conti bancari, i blocchi stradali effettuati dai piqueteros, l’autorganizzazione degli espulsi dalla produzione che rieditano forme associative di mutuo appoggio per garantirsi i diritti vitali. Fu in quel contesto che nacquero gruppi di autoproduzione per il pane, i mattoni, per l’assistenza ai bimbi e agli anziani. In una fase furono addirittura 400 i "centri produttivi" di cui appropriarono i lavoratori argentini dopo che i proprietari si diedero alla fuga. Acqua passata? Gli economisti occidentali snobbarono quell’esperienza, e non la misero a tema perché troppo affaccendati asostenere le magnifiche sorti e progressive del modello neoliberista, i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti. In Argentina, dopo sei anni dalla grande crisi del dicembre 2001, il movimento di recupero e autogestione delle fabbriche fallite o abbandonate dai proprietari secondo molti esperti rimane una esperienza valida. Superate le prime difficoltà, sono centinaia le imprese autogestite dai lavoratori che continuano a produrre ed a cercare nuove forme di organizzazione del lavoro. Oggi alcune di queste imprese, in maggioranza cooperative, hanno stabilito rapporti di collaborazione addirittura con alcune cooperative italiane. Che cosa accadrebbe se in casi specifici come quello dell’Innse, si proponesse di applicare l’articolo 42 della Costituzione italiana che parla proprio di questo? Per Emiliano Brancaccio, docente di Economia presso l’Università del Sannio, rilanciare la Carta Costizionale su questo punto rappresenta sicuramente «un elemento intrigante» ma rimane ilpunto tutto politico «di capire con quali forze e riferendosi a quali soggetti sociali». Per Giovanni Mazzetti, dell’Università della Calabria, il punto cardine del ragionamento è «riuscire a dimostrare che il programma economico di gestione da parte dei lavoratori ha un suo fondamento basato su numeri e punti di riferimento solidi». Altrimenti, aggiunge, diventa una «battaglia politica astratta». Quale è il dib attito tra gli economisti? «Non c’è speranza - risponde Mazzetti - gli economisti sono tutti arroccati a dimostrare che è giusto limitare l’intervento dello Stato e a riconsegnare pezzi di economia al mercato regolato». «Ma si tratta evidentemente - continua Mazzetti - di una risposta ideologica». Il punto sull’importanza sociale della produzione, conclude, «si può sostenere anche rileggendo la Costituzione Italiana nei passi sul lavoro che "va sempre garantito" come "base del progresso sociale"». «E quindi se c’è bisogno di l avoro è chiaro che lo Stato lo deve redistribuire».Su questo punto, in alcuni paesi del mondo occidentale come Germania, Francia, Usa e Inghilterra il dibattito, come notano sia Luigi Cavallaro, è molto avanzato. Si parla di settimana corta, ovviamente. «Ma va puntualizzato - aggiunge Mazzetti - che diventa più un escamotage che una strategia sociale». Secondo Cavallaro, il punto di svolta negativo proprio per quel che riguarda l’articolo 42 della Costituzione italiana, «che va letto insieme al comma 3 dell’articolo 41», specifica, è stato «il trattato di Maastricht, messo tranquillamente sotto i piedi dal principio della libera concorrenza». «Nell’articolo 41 - aggiunge Cavallaro - si parla di impresa pubblica e privata indirizzate entrambi a scopi sociali». E quindi, se collettivizzazione deve essere, «occorre specificare quali criteri debbono seguire i lavoratori per evitare di diventare schiavi di se stessi». «Criteri - conclude - che possono venire solo in un contesto in cui trovi cittdinanza l’economia di piano». SecondoPietro Garibaldo, la difesa della piena occupazione dovrebbe tornare ad essere «l’obettivo dello Stato». «Parte del dibattito che si stas facendo sulla crisi economica in parte lo sostiene». «Dentro un filone come questo - aggiunge - la proposta di applicare l’articolo 42 della Costituzione italiana ci sta tutta». «La vicenda di Milano, nello specifico - continua Garibaldo - parla di una impresa gangsteristica che invece di difendere con polizia e carabinieri bisognerebbe perseguire». «C’è un limite evidente al principio di proprietà di cui parla pure il papa nell’ultima enciclica sui temi sociali», conclude. Basta tirare in ballo più regole per limitare i danni di una economia impazzita? «Se si decide uno sviluppo economico di tipo diverso - risponde Garibaldo - allora si cambiano le priorità e quindi le regole da sole non bastano». Roberto Romano, economista della Cgil della Lombardia, infine, sottolinea che «solo in Italia assistiamo ad un situazione in cui non c’è alcunintervento dello Stato che non sia il semplice ammortizzatore sociale. Negli altri paesi bene o male si stanno ponendo i problema o attraverso interventi di ampio respiro, come il caso americano, o di politiche che rimettono al centro la tutela dei più deboli».
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