Affascinati dal culto futurista della velocità (facilmente individuabile tanto nella retorica politica del fascismo quanto nel mito craxiano della "modernizzazione", al tempo dei ruggenti anni Ottanta), i "riformisti" nostrani non hanno molto da spartire con il riformismo storico, quello che nacque in contrapposizione al massimalismo socialista e rivoluzionario, concorrendo a determinare la dialettica interna al movimento operaio dei bei tempi che furono. Per i moderni riformisti, "riformismo" è solo il sinonimo di liberismo; solo più presentabile lessicalmente (cool, direbbero loro, con quel caratteristico ammiccamento alle terminologie anglosassoni che dovrebbe "fare fino"). Al contrario delle nuove religioni, il riformismo-liberismo può disporre di svariati profeti in patria; i più quotati tra i quali sono gli "americanisti", che possono vantare legami strutturati con i templi della madre patria neoliberista: università, centri studi e banchestatunitensi. Fra questi nuovi guru spicca indubbiamente il duo composto da Alberto Alesina (docente all’Harvard University) e Francesco Giavazzi (docente all’Università Bocconi e al mit di Boston), autori del (...) pamphlet (...) che può essere considerato la sintesi più esplicita e significativa di questa scuola di pensiero: Il liberismo è di sinistra (2007). Obiettivo primario dell’elaborato è quello di illustrarci il profilo culturale e i punti di riferimento concreti di cui dovrebbe dotarsi la sinistra italiana per marciare finalmente al passo con i tempi. L’esempio più citato è l’ex primo ministro inglese Margaret Thatcher, la "lady di ferro" che negli anni Ottanta era considerata «una specie di mostro anche dalla sinistra italiana più moderata», mentre ora «è un modello cui ispirarsi». «Meglio tardi che mai», il soddisfatto commento degli autori. Ma per trovare altri esempi virtuosi, da cui la sinistra italiana può attingere idee e ispirazione, non occorre per forza volgersial passato. Anche oggi in Europa fioriscono, sempre a detta dei nostri, esperienze in grado di indicare la "retta via" alla compagine, confusa e spaurita: i governi di centrodestra. Nelle elezioni francesi del 2007, se fosse stata coerentemente e autenticamente riformista, la sinistra italiana avrebbe dovuto schierarsi senza tentennamenti con Nicolas Sarkozy contro Ségolène Royale. La candidata della gauche incarnava infatti la «vecchia piattaforma socialista», propugnatrice di «maggiore equità retributiva», «aumenti degli stipendi minimi» e di «nessun cambiamento della legge sul lavoro». Ora però lo stesso leader neogollista francese sta perdendo credito agli occhi severi dei due noti autori, come emerge nel loro successivo parto letterario, intitolato La crisi. Può la politica salvare il mondo? (2008). Questo perché, a seguito dello tsunami finanziario partito dagli Stati Uniti, l’attuale presidente francese ha sentenziato la fine dell’era del laissez-faire. Un brusco voltafacciarispetto alla fine del 2007, quando Sarkozy, soprattutto con le sue proposte di deregolamentazione del mercato del lavoro, sembrava incarnare la speranza di una fresca ventata liberista anche sul nostro continente. Altre ragioni di speranza, sempre per il duo Alesina-Giavazzi, giungevano dalla Svezia, con la vittoria del centrodestra sui socialdemocratici al potere da oltre dieci anni, dalla Germania di Angela Merkel, con le sue riforme per il contenimento della spesa sanitaria, e dalla rivoluzione liberista irlandese. Celebrata con il nomignolo di "tigre d’Europa", l’Irlanda è stata additata a modello dai Brambilla sul Potomac. Fino a quando la sua portentosa crescita non si è arrestata di schianto, facendo sprofondare il pil dell’isola sotto il livello del mare: nel primo trimestre del 2009 il prodotto interno irlandese ha registrato un -8,5%, e le proiezioni elaborate dalla Banca Centrale di Dublino prevedono un calo attorno ai 12 punti percentuali per il triennio 2008-2010.Anche l’Inghilterra, nonostante fosse l’ultimo grande paese europeo governato da un partito socialista, poteva essere presa a modello dai nostri "riformisti", dal momento che «i laburisti inglesi sono saldamente nel campo liberista, tanto che i conservatori sembrano aver perso il loro spazio ideologico». Ecco dunque svelato il presunto segreto del successo per una sinistra moderna, in grado di darsi un valido programma di riforme: occupare mimeticamente lo "spazio ideologico" della destra. D’altra parte, nella santificazione delle nuove speranze liberiste officiata da Alesina e Giavazzi ne Il liberismo è di sinistra , non era riscontrabile neppure il benché minimo sentore della spaventosa crisi che si sarebbe scatenata di lì a poco; e della quale già cominciavano a manifestarsi i primi sintomi. Al contrario, sempre secondo i due economisti ambrosiani, eravamo all’alba di una possibile nuova era di prosperità e sviluppo nel segno del liberismo, «dopo un inizio di secolo con tassi dicrescita molto bassi e un clima cupo». Perfino nel successivo saggio La crisi (scritto nell’ottobre 2008) i due autori rivelavano una stupefacente sottovalutazione di quanto fosse grave la situazione economica. Tanto da insistere pervicacemente sulla differenza fra questo crollo e quello del 1929; sul fatto che «anche le previsioni più pessimistiche sull’economia americana parlano di qualche trimestre di crescita negativa dell’1 o 2 per cento». L’anno prima, in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera , Giavazzi scriveva con "grande lungimiranza": «La crisi del mercato ipotecario americano è seria, da qualche settimana ha colpito anche le Borse, ma difficilmente si trasformerà in una crisi finanziaria generalizzata. Nel mondo l’economia continua a crescere rapidamente: in Oriente, in Europa e nonostante tutto anche negli Usa (…). La crescita consente agli investitori di assorbire le perdite ed evita che il contagio si diffonda» (...). In base a tali pregiudizi (...) risultavaben lungi dall’essere acquisita una reale consapevolezza della portata della crisi in corso, mentre l’imperturbabile tandem perseverava nell’affermare la priorità di contenere il ritorno dello "statalismo antiliberista" nelle politiche di governi spaventati dall’imminente recessione. In questo, occorre dirlo, il "duetto" italiano risultava in assoluta sintonia con un nutrito gruppo di economisti americani, la cui unica preoccupazione riguardava le sorti del pensiero economico ossessionato dal mito del non-intervento: mentre il mondo iniziava a crollare, costoro si agitavano per puntellare una vacillante egemonia politico-culturale, dopo circa un trentennio di dominio incontrastato (...). A prescindere dalle odierne vicissitudini mondiali, la questione che più e meglio dovrebbe qualificare una sinistra all’altezza dell’appellativo di "riformista" (compiacendo così i suoi inflessibili tutors) riguarda la deregolamentazione del mercato del lavoro. La premessa di tali tutors è chel’attuale liberalizzazione, introdotta prima dalla legge Treu (governo di centrosinistra) e poi dalla legge Biagi (governo di centrodestra), sarebbe troppo "timida" e largamente insufficiente. Nonostante il fatto che a seguito di quelle leggi in Italia i precari siano arrivati in breve tempo a rappresentare circa il 15% della forza lavoro complessiva (quasi 4 milioni di persone). Poco importa: il vero nodo da sciogliere restano i diritti dei "garantiti". In particolare, la disciplina in materia di licenziamenti, valutata ancora eccessivamente rigida. Non è un caso che l’unica incrinatura dell’egemonia "riformista" sul centrosinistra italiano degli ultimi anni sia avvenuta a seguito della mobilitazione della Cgil contro le proposte volte a modificare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, promosse dall’allora governo Berlusconi. Quella mobilitazione è stata letta dai soliti "realisti" (riformisti) come il segno di un esiziale arretramento culturale, prima ancora che politico, daparte del più grande sindacato italiano; nonché di una sinistra politica che non aveva avuto il coraggio di sfidarne apertamente "il massimalismo". Il (volume) Non basta dire no! risultò il "manifesto" della battaglia ideale promossa nel 2002 per obbligare i partiti del centrosinistra, ormai all’opposizione, a mantenere la barra dritta sulla rotta politica seguita nel precedente quinquennio di governo. Nonostante i ben modesti frutti, in termini di consenso elettorale, che pure ne erano derivati… La sostanza del messaggio si traduceva nella confutazione di un "falso sillogismo", esplicitato da Giancarlo Lombardi: «Se sei contro questo governo per le leggi che cerca di far passare sulla giustizia o sul conflitto di interessi, e poiché la Cgil è contro questo governo per la modifica dell’articolo 18, allora anche tu devi essere contro le modifiche dell’articolo 18, a rischio di essere ritenuto connivente con il governo di Previti e Taormina». Sicché in quella fase il "grande nemico"non poteva che essere Sergio Cofferati: «Troverete in questo libro» spiegava nella sua prefazione Antonio Polito, «molti tentativi di soluzione all’enigma di un dirigente sindacale che, pur provenendo dalla cultura politica riformista, è giunto fino a spaccare l’unità sindacale per affermare il principio della sacra intangibilità di un pezzo marginale del sistema delle tutele del lavoro. Talvolta sono tentativi al limite dell’indagine psicologica, densi di una sconcertata sorpresa, perfino di incredulità».
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