Il rapporto tra deficit dello Stato e prodotto interno lordo, vale a dire la ricchezza prodotta da tutti i settori di attività in tutto il Paese nel 2009, è del 5,2%. E’ il dato peggiore da quindici anni a questa parte, da quel 1996 quando il primo governo Berlusconi si arrese di fronte alla mobilitazione dei pensionati italiani contro la ventilata riforma del welfare. Ed è un dato che porta l’Italia automaticamente fuori dai parametri che vedono sempre all’erta gli gnomi di Bruxelles, i quali vorrebbero che gli Stati membri dell’Unione fossero virtuosi e non sforassero il famigerato tetto del 3% fissato fin dai tempi dell’accordo di Maastricht. In realtà, negli ultimi cinque-sei anni, nessuno dei grandi stati europei, dalla Germania alla Francia, dalla Gran Bretagna fuori dall’euro alla Grecia sul filo del default di Stato, ha potuto essere granché virtuoso, dato l’accavallarsi delle crisi interne con quella globale, sia dei sistemiproduttivi ma più ancora dei sistemi finanziari e dei loro tracolli sugli scenari internazionali, con gran coda di ricadute sulle economie locali, in particolare quelle più fragili, meno innovative, meno competitive e con minore capacità di penetrazione nei mercati esterni, come purtroppo ormai è assodato per il sistema italiano, anche nei settori di maggior prestigio del made in Italy. Secondo i dati forniti dall’Istat, l’indebitamento delle pubbliche amministrazioni è quasi raddoppiato rispetto a un anno fa. Nel 2008 il deficit si era infatti attestato al 2,7%. Non solo, ma per la prima volta dal 1991 siamo anche riusciti a mangiarci l’avanzo primario, che nel 2008 era ancora del più 2,5% e che alla fine del 2009 si è ridotto al meno 0,6. Significa che nell’ultimo anno siamo riusciti a bruciare oltre il 3% delle nostre risorse di base, da un lato con una diminuzione di due punti dal lato delle entrate, dall’altro con oltre tre punti in più dal lato delle uscite, alla faccia dellacontrazione della spesa tanto declamata quanto disattesa dal governo Berlusconi e dal suo baglivo, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Scrive l’Istat: «Se si guarda agli ultimi tre mesi dello scorso anno, il saldo corrente (risparmio) è risultato negativo e pari a 2.012 milioni di euro, contro il valore positivo di 9.531 milioni di euro segnato nello stesso periodo dell’anno precedente. Nell’intero anno il saldo corrente è stato negativo e pari al 2% (più 0,8 nel 2008)... Le sole entrate correnti hanno segnato una diminuzione tendenziale del 3,7%, dovuta a una diminuzione delle imposte dirette (meno 9%), delle imposte indirette (meno 0,3), dei contributi sociali (meno 0,3) e delle altre entrate correnti (meno 1,2)... In rialzo le uscite totali, aumentate nel quarto trimestre del 2009 del 2,5% in termini tendenziali (meno 1,4 nel 2008): il loro valore in rapporto al Pil è stato pari al 59,3 contro il 57% dell’anno prima». Un dato derivante dall’effetto combinato dell’aumentotendenziale dell’1,6% delle uscite correnti e di un parallelo calo dei redditi da lavoro dipendente. Il direttore del Fondo monetario internazionale Dominique Strauss Kahn aveva detto appena qualche giorno fa: «La crisi ha rappresentato una battuta d’arresto. Ora è il momento di passare a un più alto livello del progetto di cooperazione e integrazione europea, soprattutto per quanto riguarda i paesi dell’Europa centrale e orientale. Dopo la crisi finanziaria, secondo il capo dell’Fmi, bisogna intervenire in tre direzioni: «Avviare la riforma dell’architettura finanziaria europea; rafforzare il coordinamento della politica economica; agire per riavviare la crescita e l’occupazione». Eccola la questione di fondo, il nodo dei nodi del capitalismo quaternario: che occupazione? dove, come, quando, se intanto le statistiche sui tassi di disoccupazione in Italia e in Europa continuano a crescere e i numeri vivi sugli occupati, maschi e femmine, giovani e vecchi, continuano ascendere? e di che qualità e di che durata e con quali tutele nel durante e nel futuro? e infine, per produrre e distribuire quali redditi, scommettendo e intervenendo a sostegno di quali settori produttivi? con quali ricadute sociali sul piano dei consumi interni, del risparmio delle famiglie, della formazione redistribuzione e circolazione della ricchezza? La risposta del banchiere dei banchieri, la settimana scorsa a Varsavia, è stata la solita trita e melensa zuppa: «Nel breve termine occorre innestare politiche macroeconomiche e finanziarie per aiutare la crescita e facilitare gli aggiustamenti di bilancio nei paesi con ampi deficit di bilancio e nella bilancia dei pagamenti». Grottesco almeno quanto il baglivo Tremonti, che continua a inorgoglirsi e a sventolare la bandiera di risultati insulsi e inesistenti e, come tutti i suoi sodali e accoliti, fa finta di parlare d’altro mentre il Paese sprofonda su se stesso.
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