Politica di movimento, politica di stato
 











E’ ormai evidente a tutti che una delle cause principali della perdurante crisi e dei suoi esiti reazionari sta nella perdita di sovranità della politica rispetto all’economia: gli enormi aggregati finanziari dell’occidente iperliberista prima generano caos economico grazie alla latitanza o alla fattiva complicità degli stati, poi si salvano grazie alla razzia delle risorse pubbliche garantita da governi zeppi di uomini delle holding bancarie, poi speculano contro gli stati stessi per lucrare il possibile e privatizzare anche l’impossibile.
La precondizione di ogni soluzione economica della crisi sta dunque nella riconquista di potere da parte della politica, nonché nel passaggio dalla cosiddetta globalizzazione ad una relazione multipolare tra macroaree economico-politiche relativamente chiuse ai movimenti del capitale speculativo e aperte, piuttosto, alla cooperazione ed alla reciprocità.
Ma la nostra macroarea, l’Europa, è del tuttoincapace di lavorare ad una soluzione del genere. Figlia di un capitalismo bancocentrico, ha a sua volta generato una Banca centrale il cui unico compito istituzionale è, appunto, quello di preservare il valore del capitale monetario: da ciò tutte le conseguenze deflattive ed antipopolari che stiamo sperimentando. Per cambiare questa situazione servono, prima di tutto, una lotta di classe ed un’iniziativa civile ben più consistenti, continue e coerenti di quelle attuali. Ma non illudiamoci: di fronte ai giganti «troppo grandi per fallire» servono anche iniziative statuali, servono stati capaci di ricordare a tutti che, come voleva il vecchio Keynes, ogni aggregazione di economie diverse richiede non solo l’adeguamento virtuoso, ragionevolmente gestito, delle economie meno produttive, ma anche l’impegno espansivo di quelle più avanzate: altrimenti c’è la recessione per tutti.
Un’Italia liberata dal nazionalismo macchiettistico della destra e dall’attardato culto della globalizzazioneproprio della sinistra pseudo-modernista potrebbe svolgere questo ruolo, prima di tutto perché c’è un evidente interesse nazionale a contrastare le politiche speculative e deflattive che stanno spezzando l’Europa sull’asse nord-sud, giacché queste pongono in discussione la stessa unità del Paese. Potrebbe, questa Italia, far contare la propria azione non già affannandosi a partecipare, come fa oggi, a tutte le più sciagurate iniziative promosse da altri, ma sfruttando la propria naturale vocazione di ponte fra l’Europa e l’area mediterranea e mediorientale. Nelle attuali, mutate ed instabili condizioni geopolitiche, potrebbe ritentare con maggiori chances che negli anni ’50 lo sviluppo di rapporti di cooperazione e di pace col sud e col sud est, appoggiando i processi di democratizzazione in atto, offrendo tecnologie, merci, modelli organizzativi e ricavandone capitali, energia, afflusso vitale di nuovi lavoratori. Grazie ad un simile ruolo economico-politico, ed in particolare comemediatore di flussi energetici, il nostro Paese potrebbe, in prima istanza, premere per un superamento del monetarismo europeo e, in seconda battuta ed in caso di insuccesso, costruire comunque una rete capace di surrogare parzialmente l’eventuale fallimento della costruzione comunitaria.
Potrebbe farlo: ma non può nemmeno immaginarlo a causa dell’incapacità delle proprie classi dirigenti, economiche e politiche. Un capitalismo che sopravvive soprattutto grazie ai bassi salari ed alle rendite degli appalti pubblici, una classe politica divisa tra affaristi d’accatto e ligi funzionari dell’ordine monetarista sanno solo spegnere sul nascere ogni possibile autonomia del Paese, infognandolo nella sordida guerra libica che non solo è, come ogni guerra, un oltraggio all’umanità ed alla verità, non solo ostacola le istanze di indipendenza proprie di tutte le mobilitazioni popolari nordafricane, ma rappresenta anche, dopo tante "imprese" militari condotte per gli interessi altrui, la primaguerra dichiarata contro gli interessi propri: non quelli dell’affarismo berlusconiano o del razzismo leghista, ma quelli, appunto, della pace e della cooperazione nell’intera area.
I nostri movimenti, ed anche i nostri partiti, non sono abituati a ragionare in termini di "politica di stato". Ma è bene che si abituino presto: perché solo la spinta dei lavoratori, dei movimenti civili e di quelli pacifisti può obbligare l’Italia a giocare un ruolo autonomo nei confronti del monetarismo europeo, e solo se l’Italia (insieme ad altri Paesi, europei e no) saprà giocare questo ruolo, le lotte popolari potranno avere uno sbocco positivo. Per le forze popolari, esercitare un’egemonia significa anche trovare il punto più alto d’incontro fra gli interessi dei propri movimenti e gli interessi obiettivi dell’area economico-politica in cui essi si situano. E questo può avvenire già oggi: l’interesse ad un lavoro dignitoso può coincidere con quello alla crescita tecnologica del Paese, la tuteladell’ambiente può coincidere col superamento del capitalismo del cemento e del cancro degli appalti, il profondo pacifismo della cultura italiana (se sa guarirsi dall’afonia che l’ha colpito di fronte alla guerra libica) può fornire solidi motivi alla liberazione del Paese dalle missioni militari per conto terzi. La vocazione unitaria di tutti i movimenti democratici può infine spingere il Paese a difendere davvero la propria integrità nazionale, e quindi a costruire, con l’Europa e/o con altri, modelli non regressivi di integrazione economica e politica. Insomma, senza una politica di stato non c’è una politica antiliberista, non c’è un’ "Europa sociale", non c’è un’alternativa all’eventuale fallimento dell’Europa. D’altro canto, senza l’autonomia dei movimenti, senza la loro capacità di basarsi su una rete di itituzioni popolari indipendenti dallo stato, sarebbe impossibile accumulare la forza e le idee necessarie a trasformare lo stato stesso e a sottrarlo almeno in parte a quelleclassi che ne impediscono un ruolo progressivo. E resterebbe solo l’alternativa tra la dissoluzione del Paese ed un nazionalismo autoritario, tanto più reazionario quanto più debole.
Siamo, noi comunisti, noi "sinistra", troppo piccoli per porci un problema di tale dimensione? Forse. Ma se non ci poniamo grandi problemi, grandi non diventeremo mai.Mimmo Porcaro









   
 



 
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