Se c’è una cosa di cui Mario Monti non ha bisogno in questo momento sono i suggerimenti che 60 milioni di potenziali presidenti del Consiglio sono già pronti a dargli, a partire dai leader dei principali partiti che stanno votando la fiducia al suo esecutivo, cui spetterà far ripartire la crescita, ristrutturare la spesa pubblica, garantire maggiore equità di quanta non si sia vista finora. Una missione difficile ma non impossibile, a patto di tenere a mente alcuni dettagli, che vale la pena di ricordare non tanto a Monti, quanto agli investitori e tax payer italiani. La crisi che l’Italia sta affrontando è una crisi sistemica, nata dall’emersione di una serie di differenti problematiche che hanno colpito singoli paesi ma la cui somma ha determinato il pressoché totale azzeramento della fiducia dei mercati nei governi europei, dimostratisi spesso poco trasparenti nella gestione dei conti pubblici (vedi la Grecia), incapaci di disinnescare bolleimmobiliari e finanziarie che si erano andate formando negli anni (come capitato a Irlanda e Spagna) o "semplicemente" non in grado di rendere competitivo il proprio Paese e far crescere la propria economia a tassi sufficienti a ripagare il debito pregresso, come capitato a Portogallo e Italia. Le relazioni che legano tra loro crescita nominale del Pil (ossia crescita del Prodotto interno lordo in termini reali più l’inflazione), il rapporto debito/Pil (nel caso italiano pari a 1,2) e il costo medio del debito (per comodità calcolato in base al tasso pagato sui Btp decennali) fanno sì che l’Italia, con tassi sui decennali al momento attorno al 6,7% dopo una punta massima del 7%, deve varare una manovra "pesante" quanto un avanzo primario del 4,1% (in soldoni: 65 miliardi di euro) per tener fede alle promesse fatte all’Europa e recuperare così credibilità. Si noti che il risultato è ottenuto ipotizzando che l’inflazione resti al 3% come ora e la crescita nel 2012 sia di solo lo0,3% del Pil. Se ci fosse un poco più di inflazione (che è una forma di tassazione nascosta destinata a pesare sui consumi ma anche, con un mercato stagnante come quello attuale, sul patrimonio di tutti gli italiani possessori di immobili), ad esempio a seguito di un ulteriore aumento dell’Iva, il sistema si reggerebbe anche con una crescita virtualmente nulla, mentre se la crescita dei prezzi rallentasse richiederebbe un maggiore incremento del Pil (che non sembra alle porte, anzi), fermo restando che riconquistare la fiducia dei mercati è necessario per far calare i tassi sul debito pubblico. Una leva dalla quale deriverebbero notevoli vantaggi: se i tassi tornassero anche solo al 6% persino con una crescita reale nulla e inflazione al 3% sarebbe sufficiente una manovra di 55-57 miliardi di euro, ovvero si potrebbero "spendere" 7 o 8 miliardi di euro in provvedimenti a favore della crescita in più rispetto alla prima ipotesi. Vantaggi tanto più consistenti se poi si andasse aincidere sul rapporto debito/Pil con tagli alla spesa e lo si portasse, ad esempio, attorno al 110% prima e al 100% poi, con l’obiettivo di arrivare gradualmente a quel limite del 90% che gli economisti ritengono la soglia oltre la quale una situazione debitoria non è sostenibile nel lungo periodo (ogni 1% in meno di Debito/Pil consente circa mezzo miliardo in meno di manovra correttiva).
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