Crisi economica, i colpevoli anche nell’economia reale
 











Mentre scrivo queste note, ci sono sui giornali le cronache del fallimento degli incontri europei per salvare l’Europa e l’euro e la rottura tra il governo Monti e i sindacati. Per quanto concerne l’Europa, l’attenzione è tutta sulla cosiddetta governance economica fatta di salvataggi delle banche e di misure di austerità a spese dei cittadini; per quanto riguarda l’Italia la discussione ruota sull’equità e sulla mancanza della gamba della crescita nelle misure annunciate dal governo. Nel frattempo vari rapporti delle associazioni delle imprese e di importanti centri studi italiani documentano l’inizio di un vero e proprio disastro dell’economia reale: recessione, licenziamenti, fallimenti nel mentre non si è ancora tornati ai livelli del 2007-2008. La rappresentazione che viene presentata è quella di un’economia reale vittima della finanza e di cattive politiche pubbliche, si tratta quindi di risolvere l’una e l’altra causa e fare ripartire lacrescita per tornare alla ricchezza. I protagonisti dell’economia reale sono davvero così innocenti?
Per rispondere occorre tornare all’origine della crisi. Essa, in origine, è una crisi classica da sovrapproduzione. Da quasi trent’anni, infatti, con una forte accelerazione negli anni novanta, l’economia globale si è strutturata lungo le linee di una feroce competizione per la conquista dei mercati di sbocco ad una quantità crescente di merci destinate al consumatore finale. Larga parte, infatti, dei beni d’investimento sono riconducibili a parti del processo funzionale necessario a produrre tali merci (macchinari industriali, impianti, produzione di energia, ecc.) o al loro consumo (le grandi reti di comunicazione, le strade, la crescita imponente della logistica industriale e del trasporto marittimo, ecc.). Uno spazio economico del tutto inferiore è stato, infatti, destinato a dare soddisfazione a bisogni anche individuali, ma di natura sociale, sia in termini infrastrutturali(scuole, ospedali) sia in termini di scelte generali (sostenibilità ambientale, sicurezza alimentare, riprogettazione delle città e costruzione di modalità di trasporto pulite) ed uno spropositato alle spese militari.
La competizione è quindi avvenuta su un insieme di merci che, a parte la grande innovazione dell’informatica e dei relativi prodotti e servizi, si è mantenuto lungo le linee del secondo dopoguerra: automobili, elettrodomestici, servizi alla persona, ed una idea di benessere personale legato ad una esplosione di modalità di consumo di tali prodotti e servizi senza più alcun ancoraggio realistico alla loro effettiva capacità di soddisfare un bisogno, quello che è stato chiamato consumismo.
La competizione quindi si basava sulla diffusa convinzione che, in primo luogo, si fosse messo in moto un circolo virtuoso basato sull’aumento quantitativo del numero di persone che nel mondo, grazie alla diffusione del capitalismo, del libero mercato, avrebbero avuto accesso a talibeni; si favoleggiava delle "verdi praterie asiatiche" come fonte di una domanda senza fine per i beni prodotti in Occidente e in Giappone. Questa convinzione portava a scelte strategiche neomercantili dei paesi occidentali con una forte caratterizzazione manifatturiera, come la Germania e l’Italia, a una forzatura cioè delle esportazioni.
In secondo luogo, in quei paesi occidentali dove la grande innovazione degli anni ottanta e novanta era stata la finanza come motore di sviluppo e di ricchezza, gli Usa e l’Inghilterra, si riteneva che si fosse messo in moto un analogo circolo virtuoso che consentiva di sostenere i consumi interni grazie alla diffusione di forme di rendita finanziaria di massa, veicolate dal boom edilizio, dalla diffusione dell’azionariato, dal ruolo dei fondi pensione.
In tutti e due i casi si è quindi pensato che si dovessero e potessero contenere i redditi da lavoro e alzare la produttività. Si dovessero contenere perché per competere bisognava, per i paesiesportatori, aver un vantaggio di prezzo e quindi di costo ed anche perché, la crescita abnorme delle rendite finanziarie aveva stimolato, secondo la filosofia del massimo valore per l’azionista, l’idea che il ritorno economico degli investimenti nell’economia reale dovesse convergere con quelli della finanza. E si potessero contenere perché l’accesso al mondo magico del consumo continuo di merci restava aperto alla maggioranza della popolazione grazie ai ritorni economici dovuti ai proventi finanziari e alla crescita economica dovuta alle esportazioni, crescita che avrebbe portato la stabilità dell’occupazione e una dinamica salariale più lenta della produttività, ma costante.
Non si era preso in seria considerazione che le verdi praterie asiatiche non avevano nessuna intenzione di essere solo "prede", ma di volere anche loro entrare nel gioco, sia quello della finanza che quello dell’economia reale. Il numero dei protagonisti è quindi aumentato esponenzialmente e, grazie anche alfatto che, per conquistare determinati mercati, era necessario essere fisicamente lì collocati, la capacità produttiva installata nei principali settori dell’economia reale, esposta alla concorrenza, è cresciuta ben oltre la possibilità di assorbimento dei mercati finali.
Nel frattempo venivano alla luce le contraddizioni di tali modelli. Del sistema anglosassone e dell’indebitamento come molla per sostenere i consumi si è già detto tutto. Meno ci si è spesi in Italia sulle conseguenze delle scelte neomercantili. Un paese che forza le esportazioni di merci e servizi esporta disoccupazione verso il paese ricevente. L’effetto netto quindi, in Europa, del neomercantilismo tedesco è stato sia la deflazione salariale interna che la riduzione delle attività manifatturiere nei paesi bersaglio, cioè, in larga misura, i paesi dell’Unione Europea. Si pensi che l’export tedesco verso Italia e Spagna vale complessivamente più di quello verso gli Stati Uniti. Vi sono poi strategie neomercantilidifferenti. La Germania, da un lato, costruiva, da un punto di vista nazionale e capitalistico, un circuito "virtuoso" basato, da un lato, sulla delocalizzazione della capacità manifatturiera considerata non strategica nei paesi nuovi entranti dell’Unione Europea, realizzando così un extraprofitto che veniva reinvestito nell’innovazione dell’industria. Dall’altro lato la bilancia dei pagamenti era in passivo per tutto ciò che serviva ad alimentare le aziende esportatrici, generando così valore. L’Italia altro paese esportatore, viceversa, avendo progressivamente perso o ridimensionato in modo tragico la grande industria si è progressivamente strutturata in tre aree: le micro-aziende globali, cioè quelle realtà produttive che si sono affermate in nicchie globali di mercato, le aziende integrate in processi produttivi controllati dalla Germania (meccanica) o dalla Francia (alimentare) con cicli e una partecipazione alla catena del valore, quindi, subordinati a chi controlla il processo.Infine, una platea dipendente dalle prime due aree o puramente legata a mercati locali, l’area maggioritaria delle imprese, quelle sulle quali la crisi sta abbattendosi violentemente.
La finanza, quindi, era l’altra faccia, perfettamente integrata, di questo modello di sviluppo. La crisi è quindi crisi del modello nel suo insieme. Il tracollo dell’economia del debito anglosassone, con il crollo del sistema finanziario ha portato al salvataggio delle istituzioni finanziarie senza metterne in discussione né il ruolo né i titoli di proprietà. Con l’eccezione dell’Islanda, ciò ha prodotto una gelata dei consumi in Occidente e l’indebitamento generalizzato degli Stati per pagare il debito. L’indebitamento, non volendo nulla toccare della struttura di classe, ha portato alle politiche restrittive generalizzate che ulteriormente deprimono i consumi. Ciò genera recessione che si somma alla precedente eccedenza di capacità produttiva, il che porta a licenziamenti di massa che ulteriormentedeprimono l’attività economica.
In Europa, il corrispettivo dei mutui facili è stato il finanziamento, da parte dei paesi esportatori di successo, la Germania come caso di scuola, e di quelli specializzati nella finanza, l’Inghilterra, verso i paesi importatori che generavano così una domanda sia di consumi individuali, sia di sistemi d’arma, la Grecia, sia d’infrastrutture molto costose. Il crollo finanziario ha messo in discussione questo modello generando il passivo generalizzato dei bilanci pubblici e la deriva recessiva in corso. Oggi la Germania, per converso, si trova un attivo della bilancia dei pagamenti pari al 5,7% del PIL, cioè maggiore di quello cinese.
Nel frattempo le "verdi praterie asiatiche" devono fare i conti con la crisi del loro modello tentando una riconversione verso i consumi interni che, dove sta avvenendo, richiede l’innalzamento del livello dei salari e del livello di welfare, il che riduce la competizione da costi, generando nuovi circuiti e nuoviproblemi.
Fin qui la crisi vista come quantitativa. Si potrebbe quindi supporre che si tratti solo di cambiare la governance economica e di bonificare la finanza per ripartire: di nuovo i consumi, quindi la ripresa economica e così via. Non è così, perché la crisi non è solo l’interruzione di un meccanismo quantitativo: è la crisi di che cosa produrre, per chi, e come.
L’insieme dei beni di consumo che hanno generato la crescita industriale ed economica dell’Occidente, infatti, non regge più, come molla generatrice di ricchezza e benessere, per molte ragioni.
La prima è che il mondo si trova nella situazione della povertà nel mezzo dell’abbondanza. Il mondo non è mai stato così diseguale da molto tempo; non è solo la diseguaglianza tra i paesi in via di sviluppo e quelli sviluppati, ma è una diseguaglianza globale e trasversale tra élite sempre più ricche e ristrette e la grande maggioranza della popolazione. E all’interno di questa maggioranza si riproduce un meccanismo dicontinua segmentazione dei diritti, del benessere, delle possibilità di vivere una vita dignitosa. La società si polarizza nel mentre si segmenta, cioè si sfarina. Ciò discende da quel modello di consumi. Si tratta, quindi, in primo luogo, di rimettere al centro dell’attività economica nel mondo l’insieme dei bisogni sociali insoddisfatti e di generare, per questa via, lavoro per tutti. Si tratta, ovviamente, di attività economiche che, senza generare sperperi, non necessariamente generano dei ritorni economici significativi e tanto meno quei livelli che oggi sono considerati essenziali. Questo riguarda non solo il settore industriale ma anche l’agricoltura.
Un’ipotesi siffatta non ha bisogno di competizione, ma di cooperazione internazionale basata su una divisione internazionale del lavoro, secondo criteri di razionalità, efficienza ed efficacia degli investimenti.
Ciò può avvenire solo in una situazione di pieno sviluppo della democrazia, a iniziare dal diritto di chi lavoradi potere dire la sua sulle proprie condizioni di vita e di lavoro.
Infine vi è un problema di sostenibilità ambientale che non può essere risolto se non in una visione delle risorse naturali come un bene comune delle generazioni esistenti e di quelle future.
Tutto ciò richiede la progettazione democratica di una lunga transizione che rimetta le scelte economiche sotto il controllo della volontà dei cittadini in una democrazia effettiva.
I protagonisti dell’industria europea stanno viceversa percorrendo simultaneamente percorsi apparentemente opposti, ma in realtà perfettamente integrati.
Per un verso, infatti, abbiamo aziende che tentano innovazioni di prodotto, si confrontano con le conseguenze possibili delle loro scelte, offrono condizioni di lavoro ottimali, naturalmente senza che ciò discenda da alcun vincolo esterno. Sono scelte soggettive e come tali revocabili a piacimento. Queste aziende sono in genere in cima a una piramide di altre aziende che forniscono lorocomponenti e servizi essenziali e che scalano le condizioni di lavoro secondo la loro posizione nella catena del valore, sino ad arrivare a situazioni di vera e propria economia grigia o nera. Il sistema è in un qualche modo integrato.
Questa articolazione di posizioni non ricalca più le frontiere geografiche, né quelle di aree economiche come l’Unione Europea, né quelle tra aree economiche; essa le attraversa. Per essere più chiari, si può trovare un lavoratore a 5 euro/ora e praticamente senza alcun reale diritto nel luogo di lavoro anche nella Germania dei sogni di una parte della sinistra italiana: dipende solo dalla posizione di quell’azienda nella catena del valore. Non essendo più la politica e il diritto a decidere delle condizioni di lavoro, ma i mercati, questa è la conseguenza.
Le differenze tra i paesi riguardano la composizione organica del mix. L’Italia si trova oggi nella parte più bassa di tale mix e la Confindustria, assieme alle altre organizzazioniimprenditoriali plaude e chiede solo misure restrittive sul lavoro riproponendo quindi la continuità di tale situazione. Si tratta di una ricetta per il disastro. Vi sarebbero le condizioni per mettere al centro dello sviluppo del paese le enormi e diffuse domande sociali insoddisfatte, ma ciò richiederebbe la messa in discussione degli equilibri di potere a partire dal rapporto fondamentale tra capitale e lavoro. Mancano i soggetti a ciò disponibili e capaci di proposta.  Francesco Garibaldo









   
 



 
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