I Paesi membri dell’Unione europea, dovendo decidere sui soldi da versare per il bilancio comunitario 2014-2020 e sul come spenderli, hanno confermato ancora una volta di essere divisi e distanti. Se non esiste una vera politica europea non può esistere nemmeno una politica economica comune. E questo per motivazioni ancora più forti. Ognuno pensa, come è giusto e fisiologico che sia, ai propri interessi economici nazionali e la recessione in corso non può che accentuare tale tendenza. Tale realtà era già emersa al vertice europeo di fine novembre convocato per lo stesso motivo e naufragato in un nulla di fatto dopo il deciso no della Gran Bretagna che aveva giudicato troppo onerose le risorse da versare per il funzionamento dell’Unione a fronte di quelle che poi le sarebbero tornate indietro sotto forma di contributi, i cosiddetti “rebate”, Un no sul quale Cameron era riuscito a trascinarsi dietro una decina di Paesi membri, per lo piùdell’Europa dell’Est. Membri recenti che, come la Repubblica Ceca, cercano di ottenere più risorse rispetto a quelle versate e che ora, sempre a rimorchio di Londra, si pongono il problema se sia il caso di rimanere nell’Unione. Ieri mattina, il presidente del Consiglio europeo, il belga Herman Van Rompuy, dopo una notte insonne spesa a lavorare su una bozza di compromesso accettabile ai più, aveva presentato la sua proposta finale con un tetto complessivo di impegni di spesa per 960 miliardi di euro e 908,4 miliardi per le spese effettive. Bozza sulla quale si è poi raggiunto un accordo di massima che rappresenta in ogni caso una sconfitta per la Commissione europea che con il suo presidente, Josè Barroso, si era arenata su una proposta di 1.000 miliardi di trasferimenti effettivi. Rispetto al bilancio 2007-3013 si tratta di un compromesso al ribasso per entrambe le due voci per 34 miliardi di euro. Molto duro è stato il giudizio del socialdemocratico Martin Schulz,presidente tedesco dell’Europarlamento, l’ex kapò di Berlusconi, che ha detto di non poter immaginare che il Parlamento approvi un bilancio che crea deficit, perché sarebbe un atto illegale. L’Italia ha ottenuto uno sconto di 500 milioni di euro l’anno che ha molto rallegrato Mario Monti ma che in ogni caso ci fa passare da un saldo netto negativo, tra versato e avuto, di 4,5 miliardi ad “appena” 4 miliardi. Dovrebbero comunque esserci 3 miliardi in più all’Italia per sostenere le regioni meno sviluppate, colpite dalla crisi, quelle del Sud, e per lo sviluppo rurale. L’accordo raggiunto ha comportato tagli pesanti che finiranno per colpire pesantemente le prospettive di una crescita economica che si potrà cogliere ai primi accenni di una ripresa su scala globale. Andare infatti a tagliare sulle infrastrutture, sull’innovazione e sulla ricerca è semplicemente folle visto che senza modernizzazione non si va da nessuna parte. E le infrastrutture in questione sono quelle nel settoredei trasporti, delle reti e dell’energia, dove si è tagliato per oltre 11 miliardi. Poco è stato fatto per aiutare i milioni di cittadini finiti in povertà. E’ stato portato da 2,5 a 2,1 miliardi di euro la dotazione del fondo per gli aiuti ai cittadini più poveri. Mentre quello per sostenere la disoccupazione giovanile è stato gratificato di 6 miliardi di euro che verranno destinati a quei Paesi dove la percentuale dei giovani senza lavoro è superiore al 25%. Quindi anche l’Italia. A sintetizzare il significato di un accordo che in realtà è un fallimento, è stato curiosamente il coordinatore del PdL, Sandro Bondi. A suo avviso, la lezione che si evince dalla trattativa sul bilancio Ue è che l’Europa unita non è mai nata. Affinché nasca un’Europa effettivamente unita, presente sulla scena dei rapporti economici e politici, servono leader veri e non comparse. Soprattutto leader che siano detentori di una coscienza storica.Filippo Ghira
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