Quando l’economia non basta all’economia
 











L’attuale critica economica nei confronti dei meccanismi della globalizzazione e del neoliberismo continua a “decostruire” un impianto che ha permesso di accentrare il potere nelle mani di pochi ed è basato esclusivamente sull’aumento del profitto nel breve termine. L’enorme proliferare di contributi, blog, articoli e siti internet che si occupano di “anticapitalismo”, creano una sorta di “foresta delle fonti” dove spesso è difficile districarsi per gli addetti ai lavori (figuriamoci per i non addetti) e spesso è doveroso incrociare varie letture per arrivare ad una sintesi soddisfacente.
Ad ogni modo oggi non è più permesso di “non sapere”, o meglio tra finanza, derivati, euro, banca centrale, Europa, politica monetaria, neo-keynesianesimo e rilettura (magari un po’ più approfondita) di Marx, chiunque può trovare le risposte, a vari gradi di approfondimento, della condizione attuale che si sta vivendo. I problemi di lettura sorgono invecequando si vogliono cercare le soluzioni. In questo caso si scatenano varie scuole di pensiero ognuna con la propria strada, in alcuni casi contraddittoria, in altri complementare o parallela.
Il quesito fondamentale a cui non è facile trovare risposta: uscire o no dall’Euro? E ancora un’Europa più integrata, più dei popoli e meno del mercato è davvero un programma attuabile e possibile? Ma le motivazioni a favore dell’Europa dei popoli, che già misero in difficoltà Derrida ai tempi, oltre le buone intenzioni sembrano far poco i conti con le singole realtà, così come interventi sulla finanza per una re-distribuzione forzata attraverso eventuali tassazioni, sembrano più misure per mettere una toppa o racimolare qualcosa, comunque all’interno di uno status quo intoccabile.
Il problema più grande nel discutere quale modello socio-economico ci spetti è rappresentato dal cercare attraverso l’economia attuale, così com’è impostata, le risposte più appropriate: il dibattito siconcentra troppo su questioni prettamente economico-finanziarie quando in realtà si è arrivati ad un punto dove l’economia non basta più all’economia ma è doveroso “allargare” le questioni all’ambito storico ed antropologico che caratterizza i diversi popoli che compongono l’Europa e tornare all’economia come scienza storico-sociale. Non si vuole ovviamente negare la validità scientifica di leggi economiche ma queste non sono sufficienti a dare risposte se avulse dal contesto antropologico all’interno del quale si inseriscono.
Ad ammonire su una visione di Europa più dei popoli che del mercato unico fu Derrida quando affermava, durante una conferenza a Berlino nel 1990, che qualcosa di unico è in corso in Europa, anche se non si sa più bene che cosa si chiami in questo modo: “di fatto, a quale concetto, a quale individuo reale, a quale entità determinata si può, al giorno d’oggi, conferire questo nome? Chi ne traccerà le frontiere?[D’altra parte] siamo più giovani che mai, noialtriEuropei, perché una certa Europa non esiste ancora. E’ mai esistita?". E ancora, "di quale ‘identità culturale’ dobbiamo rispondere? Dinanzi a chi, a quale memoria, per quale promessa?".
C’è un invito a pensare l’Europa come movimento sempre critico e mai come risultato compiuto: una Europa “in costituzione” piuttosto che definita in una Costituzione (o Trattato!) che ne limita sviluppo e responsabilità. Per giungere al “noi europei” non bisogna costituire l’Europa come un’altra superpotenza militare che protegge il suo mercato e fa da contrappeso agli altri blocchi, ma di un’Europa che pianti il seme di una nuova politica altermondialista.
Le parole di Derrida ci fanno capire come sia in agguato il rischio di girare su se stessi anche su valide critiche all’attuale sistema economico ma che non riescono ad avere una visione d’insieme e di lungo corso. Con cosa l’Europa economica deve ora fare i conti? Come costruire coesione sociale attraverso un modello economico sostenibile?Giunti a questo punto della critica economica, dove ormai i danni dell’austerity e del fiscal compact sono riconosciuti da tutti (comprese le voci degli economisti mainstream che più hanno creduto nella capacità del mercato per l’equilibrio ottimale) si tratta di capire quale strada percorrere-costruire insieme e l’attuale economia non è sufficiente a dare le risposte.
L’attuale sistema economico è accusato di essere troppo orientato ad uno studio matematico dimenticando l’origine storico-sociale di questa scienza. In un suo recente articolo Roberto Petrini spiega nel dettaglio come l’attuale teoria mainstream abbia fondato, a partire da Leon Walras, il proprio equilibrio su complesse costruzioni matematiche e sia impegnata più a risolvere teoremi piuttosto che il problema degli alloggi . I marginalisti vengono accusati di cercare l’equilibrio tra domanda e offerta basandosi sulle preferenze del consumatore, esclusivamente come dati soggettivi del valore d’uso che attribuisce albene ossia l’utilità marginale che si calcola con una funzione matematica (al contrario dell’economia classica che si fondava su elementi oggettivi quali il lavoro). Eppure le ripetute crisi che hanno sconvolto il sistema capitalistico nei due secoli che abbiamo alle spalle, afferma Petrini, dimostrano che l’economia è tutt’altro che stabile e tutt’altro che prevedibile perché gli operatori economici, lungi dal vivere in un mondo di rischio probabilistico calcolabile, vivono in un mondo di disarmante incertezza (argomento già caro a Keynes secondo il quale l’incertezza parziale costituisce la stragrande maggioranza delle situazioni concrete).
E’ il momento di prendere coscienza dell’instabilità del sistema capitalistico e più che continuare la ricerca di quella che Petrini definisce “formula magica” in grado di spiegare definitivamente l’economia bisognerà che questa torni alla sua funzione storico-sociale unendo due caratteristiche fondamentali: spirito analitico ed impegnosociale.
In un libro del 2004 il sociologo francese Emmanuel Todd centrò perfettamente questo tema proponendo una lettura dei fenomeni legati al futuro dell’Europa attraverso la disciplina che si definisce antropologia economica . L’attualità di certe tematiche porta a tenere in considerazione una serie di spunti che emergono dal libro, tutt’altro che datato. Non si nega l’esistenza di leggi economiche specifiche ma esse possono agire soltanto all’interno di un quadro molto più vasto che tenga in considerazione variabili quali la demografia (e la domanda totale giacché l’effetto più importante del rallentamento demografico è una depressione tendenziale dei consumi), la struttura familiare e il livello di istruzione.
Forze profonde quali la stratificazione culturale e la sua evoluzione, i ritmi demografici e i valori familiari ereditati da un passato molto remoto, definiscono un universo di possibilità e di fini al di fuori del quale l’attività dell’homo oeconomicus non ha alcunsenso. In questo si definisce la differenza tra economia pragmatica ed economia scolastica: nel primo caso parte dalla vita economica reale, nella sua diversità storica e geografica – riconosce la realtà e la diversità delle nazioni, la seconda muove dall’assioma dell’homo oeconomicus da cui deduce alcune leggi per poi cercare nella realtà ciò che può avere un rapporto con queste proposizioni stabilite a priori.
L’autore definisce quello che attualmente stiamo vivendo sulla nostra pelle una dissociazione dell’economico dal culturale: esistono diversi tipi di società capitalistiche i cui principi possono essere colti attraverso l’analisi dei fondamenti antropologici di ciascuna nazione. Il disinteresse verso le questioni demografiche manifestato dai politici e dagli alti funzionari che si ritengono impegnati a “costruire l’Europa” è in sé un fenomeno ideologico decisivo visto che la riduzione del numero dei giovani porta ad una riduzione dei consumatori e della domanda globale.L’oblio da parte delle èlite occidentali del banale concetto di domanda globale produce un effetto sbalorditivo in Europa: in un quadro di contrazione dei consumi, vediamo i governi fedeli accanirsi ai dettami di Maastricht a comprimere sempre più la domanda riducendo i disavanzi pubblici.
La debolezza della domanda complessiva – situazione che si sta vivendo oggi grazie alle misure di austerity – dà come risultato centinaia di migliaia di laureati e di diplomati occupati al di sotto del loro livello di qualifica, con retribuzioni inferiori a quelle dei loro colleghi più anziani, pur meno dotati di titoli di studio. Una nuova classe colta caratterizzata questa volta dalla frustrazione anziché dalla gratificazione. Una nuova generazione che ha imparato ad “accontentarsi” contraddistinta dall’assenza di credenze collettive, apatia ed inazione.
Diviene sempre più chiaro che i governi europei, con il loro tentativo di stabilizzare a qualsiasi costo le parità monetarie fra i paesidell’Unione, hanno contribuito a provocare questa paralisi secondo l’errata convinzione che il ridimensionamento dello stato non ponga un problema di domanda e di crescita ma che lo risolva. Emergono così, tra i Paesi sviluppati, due capitalismi con due concezioni della moneta: la moneta della Federal Reserve System, flessibile, fatta per servire gli uomini, e quella di Maastricht, concepita per dominarli . Il ruolo della Banca Centrale Europea è punto di osservazione privilegiato per guardare all’attuale evoluzione della crisi economica in Europa: l’indipendenza della BCE non è l’indipendenza nei confronti dello Stato, è l’indipendenza di una componente essenziale dello Stato, il potere monetario, nei confronti del controllo democratico. Viene esclusa da statuto la possibilità che la BCE operi in maniera diretta per contenere l’onere degli interessi sul debito pubblico. Questo è il vincolo che ha operato realmente in maniera rigida, le stesse politiche di rientro a cui sonotenuti i paesi in disavanzo sono, paradossalmente, rese più difficili proprio dalle condizioni più pesanti per quanto riguarda il servizio del debito alle quali essi sono soggetti in assenza di interventi da parte della BCE.
Una gestione sostenibile del debito pubblico di questi paesi e una ripresa della crescita nel complesso dell’Unione monetaria europea richiederebbero l’intervento diretto della BCE nell’acquisto di titoli pubblici: da un lato per fronteggiare adeguatamente la speculazione finanziaria internazionale e ridurre l’onere dell’indebitamento, dall’altro per agevolare il ricorso di politiche di sostegno della domanda aggregata. Questo comporterebbe però lo smantellamento dell’assetto economico-istituzionale realizzato negli ultimi decenni e la rinuncia, in ultima analisi, alle condizioni che esso ha garantito per quanto riguarda la distribuzione del reddito. E’ questa la ragione sostanziale della resistenza a modifiche del ruolo della BCE che le consentano di operarecome la Federal Reserve.
Una politica monetaria restrittiva è in grado di far aumentare il tasso di disoccupazione e rallentare gli aumenti dei salari monetari, quando le autorità politiche si mostrano d’accordo con la politica della banca centrale. Ma si tratta di un modo di combattere l’inflazione che scarica il peso della disinflazione sul mondo del lavoro salariato, danneggiando le vendite, i profitti e gli investimenti delle imprese, e dunque arrecando danni alla struttura produttiva dell’economia. Il concentrarsi esclusivamente sul tasso di disoccupazione come elemento determinante il tasso d’inflazione significa dunque voler escludere dall’ambito degli interventi politici contemplabili le politiche dei redditi, le politiche della tassazione e delle tariffe, le politiche del cambio (ad es. controlli sui movimenti dei capitali), che possono influire sui costi e sull’inflazione senza incidere sull’occupazione. La politica monetaria ha così effetti reali influenzando il livellodei prezzi, l’output e il livello di occupazione, ma in un regime democratico spetta al Parlamento, cioè ad un organo eletto, prendere decisioni in merito ad aspetti inerenti variabili reali, come il livello di disoccupazione, l’allocazione e la distribuzione delle risorse.
In questa prospettiva appare in contraddizione con i principi democratici attribuire poteri autonomi ad una istituzione non elettiva come la Banca Centrale Europea. In tale contesto la banca centrale, in quanto finisce per rappresentare le preferenze del gruppo prevalente, è sempre faziosa. L’indipendenza, pertanto, non può risolvere gli inconvenienti connessi alla faziosità strutturale.
Ciò di cui l’Europa ha bisogno è una politica di sostegno alla domanda. Le società non possono convivere indefinitamente con la tensione prodotta dall’adattamento a un contesto di carenza della domanda totale. Ogni Paese deve, conformemente al suo temperamento e alle sue tradizioni, trovare un equilibrio tra attività privatae intervento statale. Tutti gli sforzi volti a mettere in discussione l’esistenza della previdenza sociale e dei servizi pubblici, ad assicurare più flessibilità al mercato del lavoro con la conseguenza di abbassare i salari – che gli ultraliberisti giustificano come un imperativo dettato dall’efficienza e dalla produttività – non hanno alcun senso in un contesto di insufficienza della domanda. Ed infine occorre abbandonare il fantasma neoliberista di un’economia omogenea (e di popoli europei omogenei!), universo di beni equivalenti che possono essere scambiati in mercati perfetti. Solo attraverso una presa di coscienza ed un cambiamento radicale di certe errate convinzioni si potrà pensare davvero ad un’Europa dei popoli. Ilaria Lucaroni










   
 



 
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